mercoledì 12 giugno 2013

LA VITA DI UNA DONNA NELL'ANTICA GRECIA

PARTE PRIMA



Le donne in Grecia, tra il III e il IV secolo a.C, non godevano di molti diritti ed erano assimilabili, per status sociale, agli schiavi. Il gineceo era il luogo destinato alle donne: una sorta di prigione dorata, nella quale le sventurate trascorrevano le loro giornate, lontano da sguardi indiscreti e dal resto del mondo. Le giovinette venivano edotte dalle donne più anziane, mamme o nonne o serve, a svolgere con impegno e precisione i lavori domestici per essere pronte a gestire la casa del futuro sposo. Le uscite consentite si limitavano  ad alcune feste religiose, durante le quali le vergini cantavano e danzavano rigorosamente lontane dai maschi. Pare certo che alle giovinette non fosse chiesto il consenso per il matrimonio, che era considerato un affare di famiglia e che aveva come scopo principale quello di mettere al mondo dei figli, possibilmente maschi, sia per assicurare al padre di famiglia l’assistenza necessaria in vecchiaia, sia la degna sepoltura cui ogni cittadino ateniese agognava. Sposarsi era un obbligo per un cittadino onorato e sebbene  Atene, diversamente da Sparta, non avesse leggi che obbligassero un uomo in tal senso, tuttavia il biasimo della comunità era un ottimo deterrente a differire troppo “ il male necessario”, come veniva considerato il matrimonio. Ciò che è certo è che alla base di un matrimonio non c’era una scelta d’amore, anche se  tuttavia spesso i coniugi “ imparavano” ad amarsi. Un pregiudizio per noi difficile da comprendere nella società greca era che l’amore coniugale fosse meno coinvolgente e pieno dell’amore omosessuale. L’età giusta per il matrimonio era considerata intorno ai 30 anni per gli uomini e 16 per le fanciulle che , in realtà erano in età da marito non appena raggiunta la pubertà, tuttavia non venivano date in sposa prima dei 14/15 anni. I maschi, di solito aspettavano di aver concluso il servizio militare tra i 18 e i 20 anni e poi, con molta calma, convolavano a giuste nozze. Un dato certo è che tra i coniugi ci fosse una notevole differenza di età.
Appare evidente che non era previsto un “ fidanzamento” per agevolare la conoscenza tra i futuri sposi, ma solo un accordo preventivo, orale, alla presenza di testimoni che fungeva da preludio alla cerimonia vera e propria. La validità dell’accordo prematrimoniale era garantita dalla sacralità della parola data e dall'onore che accompagnava le promesse o i giuramenti e dal fatto che nessun cittadino avrebbe osato contrariare gli dei rinnegando una promessa. Il matrimonio vero e proprio, dunque, si limitava alla consegna della giovane sposa al marito: proprio perché lo scopo del matrimonio era la procreazione, esso si riduceva al trasferimento della sposa dalla sua casa a quella del marito, dove sarebbe stata consumata la prima notte di nozze. I Greci, superstizioni non meno dei Romani, preferivano sposarsi d’inverno nel mese di gennaio ( Gamelion- mese delle nozze) dedicato alla dea Era, protettrice dei matrimoni e delle unioni sacre. Il passaggio della sposa dalla casa paterna alla casa del marito era solo l’atto finale di un cerimoniale che cominciava il giorno precedente e che prevedeva abbondanti sacrifici agli dei affinché benedicessero l’unione imminente e proseguiva con un gesto di sicuro effetto : la promessa sposa donava i suoi giocattoli e tutto ciò che la legava alla sua infanzia per prepararsi ad entrare, ex abrupto, in una nuova veste sociale. Un altro momento sacro era il bagno della sposa con l’acqua presa alla fonte Calliroe da un corteo in processione a cui corrispondeva il bagno dello sposo.  Il giorno del matrimonio le abitazioni degli sposi venivano addobbate con corone di olivo e alloro, mentre il padre della sposa offriva un banchetto e un sacrificio a cui partecipava la giovane col capo velato, splendidamente vestita e sostenuta dalle amiche e dalla ninfeutria , una donna che la guidava nelle procedure del rito del matrimonio. Durante il banchetto uomini e donne erano separati e tra i cibi non potevano mancare dei dolci al sesamo, simbolo di fecondità. Quando stava per scendere la sera si preparava un corteo che con le fiaccole avrebbe accompagnato la sposa nella sua nuova casa: durante questo percorso gli sposi, che si muovevano su un carro, erano accompagnati con canti, gli imenei, tipici dei matrimoni. Giunta nella sua nuova casa la sposa era accolta dai suoceri che la attendevano l’uno coronato di mirto e l’altra con una torcia, la cospargevano di fichi secchi e noci e completavano l’accoglienza facendole mangiare una parte dei dolce nuziale fatto di sesamo e miele oppure una mela o un dattero, tutti cibi considerati assai propizi per augurare la fertilità alla giovane coppia. Ultimate queste procedure gli sposi si ritiravano nella camera matrimoniale dove consumavano la prima notte di nozze, mentre un amico del marito custodiva la porta chiusa e gli altri cantavano a gran voce gli imenei per tenere lontani gli spiriti cattivi. Il giorno successivo i genitori della sposa portavano al genero doni e, quasi certamente, la dote promessa in occasione degli accordi preliminari al matrimonio.  Come è facile immaginare, un marito poteva ripudiare la moglie anche senza un motivo valido, se una donna era stata riconosciuta adultera, il marito doveva necessariamente ripudiarla o avrebbe subito l'atimia , ossia il biasimo della comunità. Causa frequente di ripudio era la sterilità della donna: in questo caso ripudiarla era quasi un obbligo sociale in quanto questa condizione impediva di realizzare lo scopo principale del matrimonio che era proprio assicurare  continuità alla famiglia. Se era la donna a chiedere il divorzio le cose cambiavano: costei, in quanto considerata incapace  giuridicamente, doveva rivolgersi all'arconte con una lettera in cui esponeva i motivi per la richiesta del divorzio: non era giusta causa di separazione il tradimento del marito, ovviamente ritenuto “ normale”, ma le percosse potevano rappresentare una giusto motivo per tale richiesta. Il matrimonio non metteva fine alla dorata clausura delle donne: anche da sposata la donna, almeno nella famiglie di una certa classe sociale, continuava a vivere nel gineceo e oltrepassava la soglia di casa raramente, tuttavia le donne ricche avevano cortili interni che consentivano loro di restare all'aria aperta lontano da sguardi indiscreti .Le donne più povere potevano lasciare le proprie abitazioni più spesso, anche perché si dedicavano a piccoli commerci o traffici di qualche utilità per collaborare al sostentamento della famiglia. Era possibile uscire, accompagnate da schiave, per lo shopping oppure per partecipare alle feste religiose che si trasformavano in ghiotte occasioni per fare incontri interessanti.  Le donne perbene non accompagnavano mai i mariti alle feste o ai banchetti, ma se il banchetto si teneva nella loro casa, potevano mostrarsi in pubblico solo per controllare il lavoro degli schiavi e vigilare sull'organizzazione dei domestici, per il resto erano ammesse solo ai banchetti strettamente familiari.



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