venerdì 27 dicembre 2013

ANALISI DEL TESTO: " IL GELSOMINO NOTTURNO" DI GIOVANNI PASCOLI



Il gelsomino notturno

E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolìo di stelle.
Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento...
E` l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.


“Il gelsomino notturno”, incluso nell’edizione dei Canti di Castelvecchio del 1903, rappresenta uno dei più significativi e complessi risultati del simbolismo pascoliano. In questa seconda raccolta poetica se da un lato sono ripresi il motivo naturalistico e famigliare, già ampiamente sviluppati in Myricae , dall’altro, si evidenzia il tentativo della ricerca di una liricità più distesa. Nella prefazione i Canti di Castelvecchio sono definiti dallo stesso autore “myricae” (citazione ripresa dalla IV ecloga virgiliana, ma in opposizione ad essa: se il poeta latino voleva innalzare il tono della sua poesia in quanto “…non omnes arbusta iuvant, humilesque myricae”, Pascoli considera le umili piante come il simbolo delle piccole cose, oggetto della sua lirica) quasi a stabilire una continuità di fondo tra le due raccolte. Forse il venir meno di un certo frammentismo e il recupero, a partire dal titolo, dei “Canti” leopardiani, in particolare con la ripresa del motivo della ricordanza e del rapporto uomo-natura, costituiscono, insieme alla ricerca di una musicalità più complessa e al tentativo di audaci sperimentazioni metriche, i tratti distintivi della raccolta. Questa poesia fu composta in occasione delle nozze di un intimo amico di Pascoli, dato senza il quale i versi sembrerebbero una serie di notazioni impressionistiche, ispirate ad una situazione notturna e senza alcun legame tra loro. Si tratta, come alcuni critici hanno evidenziato, di un moderno epitalamio, in cui la narrazione dei piccoli eventi naturali che si susseguono dal crepuscolo fino all’alba, allude, simbolicamente e con estrema delicatezza, ma anche in maniera turbata e inquieta, alla prima notte di nozze dei due giovani sposi e al concepimento del loro primogenito cui verranno imposti i nomi di Dante Gabriele Giovanni. Al di là dell’occasione, l’importanza del testo e il suo valore semantico risiedono in un’alternanza di detto e non detto, in un continuo e sinestesico rimandarsi di vari elementi tra loro(oggetti, suoni, odori), in un segreto e misterioso legame tra immagini (la casa, il fiore, i morti, il nido) in cui il riferimento a traumi individuali è elemento imprescindibile per la comprensione della poesia. Questa è sorretta da una fitta rete di significati simbolici all’interno della quale si instaura da un lato una corrispondenza fra il ciclo erotico della natura e la notte nunziale, dall’altro un sistema di opposizioni tra le quali emerge, in particolare, quella tra casa nunziale e “nido”, inteso come forma di regressione infantile e consolatoria che segna l’esclusione dalla vita adulta. La narrazione lirica, dietro l’apparente facilità della poesia pascoliana, risulta scandita in tre momenti corrispondenti a distinti blocchi di significato: la rappresentazione notturna con la simbolica apertura del gelsomino (strofe 1-2); il processo di fecondazione, attraverso l’immagine vegetale, allusiva di un altro rito, cioè quello che si svolge nel mondo umano (strofe 3-5); la chiusura, all’alba, dei petali del fiore, segno della compiuta fecondazione(strofa 6). L’incipit (  E s’aprono…) sembra, per la presenza della congiunzione, far riferimento ad una meditazione già avviata dal poeta quando, all’imbrunire, i gelsomini aprono la loro corolla e lui ripensa ai suoi cari defunti di cui le  farfalle crepuscolari rappresentano una simbolica allusione. E’ già qui, tutto presente, per quanto velato da un forte simbolismo, il contrasto vita-morte: di notte, simbolo della morte, i gelsomini aprono la loro corolla, per un processo di fecondazione simbolo della vita, ed il pensiero del poeta va, per analogia e per contrasto, a quello dei suoi familiari scomparsi. La sera, con l’oscurità, porta il silenzio e il riposo ( Da un pezzo si tacquero i gridi…), solo in una casa, rispetto alla quale il poeta è esterno (), qualcuno è ancora sveglio e parla a bassa voce (…bisbiglia…) in un’atmosfera di affettuosa protezione, rappresentata dal nido (Sotto l’ali dormono i nidi…”), rifugio per eccellenza. Quando tutto sembra dormire i gelsomini si aprono emanando un profumo che ricorda quello delle fragole mature mentre, al primo piano della casa (… nella sala…) una luce ancora accesa testimonia che i due giovani sposi sono ancora svegli. Se da un alto, dunque, emerge la corrispondenza tra fecondità naturale e fecondità domestica, dall’altro, la continuazione della vita, rappresentata dalla lampada accesa ( Splende un lume…), si contrappone,  nuovamente, anche se solo per un attimo, ad un’immagine mortuaria, all’interno della quale è possibile, tuttavia, notare un richiamo contrastivo alla vita reso dall’immagine dell’erba che nasce sulle  fosse , cioè sulle tombe. In un primo momento la rappresentazione del mondo notturno si estende, simbolicamente e per analogia, all’ape che, ritorna tardi al suo alveare, luogo fecondo e vitale per eccellenza, non riesce ad entrarvi e, quindi, vi sia aggira intorno col suo ronzio. Successivamente, attraverso un gioco di parole e in un’apparente continuità semantica col mondo animale, il poeta fa riferimento alla costellazione delle Pleiadi comunemente chiamata, nel mondo contadino, “ Chioccetta”. Il fanciullino pascoliano sviluppa, dunque, in un’immagine giocosa, la metafora iniziale: l’aia azzurra è il cielo, mentre le stelle pigolano per analogia con i pulcini ,laddove il pigolio, oltre ad assumere un valore onomatopeico attraverso un rapporto analogico basato su una somiglianza di significante, richiama il luccichio. In questa atmosfera suggestiva e onirica, mentre il profumo inebriante dei gelsomini viene diffuso (…s’esala…) dal vento per tutta la notte, la luce, prima accesa nella sala, si sposta su per la scala al secondo piano, quindi alla camera da letto, dove i due sposi si congiungeranno e genereranno una nuova vita. Il brillare e poi lo spegnersi della luce è seguito dai puntini di sospensione che indicano un’ interruzione intenzionale della frase per cui viene affidato al lettore il compito di completarne il senso in riferimento all’intimità della situazione. La strofa finale, con il sopraggiungere delle prime luci dell’alba allude all’avvenuto concepimento nell’ambito di un ulteriore e non detta corrispondenza tra la fecondazione del fiore e quella della giovane sposa: la chiusura dei petali, un poco gualciti, dentro l’ovario del fiore umido e nascosto e il maturare al suo interno del polline che lo ha fecondato assume, metaforicamente, il valore di una promessa di vita anche per i giovani sposi. Non sfugge, d’altro canto, che proprio nella sua conclusione e in immediata continuità con l’immagine del fiore che invita all’amore, la lirica richiama nuovamente il motivo della morte, per l’ambiguità di senso che reca con sé l’utilizzo della parola  enigmaticamente riferita da un lato alla corolla chiusa in quanto fecondata, dall’altro all’urna cineraria e quindi al suo uso poetico per tomba o sepolcro. Il titolo della lirica anticipa una delle parole chiave della poesia e, nello stesso tempo, prelude ossimoricamente, nella iunctura indeterminata e analogica con l’aggettivo notturno, a quel filo lirico connesso con l’area semantica della morte. Sembra, tuttavia, precaria ogni distinzione di confine tra area semantica positiva e negativa nel senso che le immagini del fiore, dei morti, della casa, del nido si alternano secondo un principio di immediata contiguità per cui il quadro notturno, apparentemente idillico e armonico, nasconde segrete tensioni. Il senso del mistero si esprime sia attraverso una serie di analogie simboliche che attraverso un gioco sonoro con il quale il poeta sembra disperdere nei versi i fonemi che compongono la parola “urna”. A prescindere dal v.3 in cui al termine tecnico viburni relativo al mondo naturale sembra essere assegnata una funzione eminentemente rivelatrice, è possibile schematizzare la scomposizione di “urna” in allitterazioni e consonanze conseguenti: U ( nottUrni, crepUscolari, lUme),R ( apRono, caRi, faRfalle, gRidi, doRmono, odoRe, eRba, taRdiva, nottuRni, vibuRni, sussuRra, azzuRra), N (Nidi, Nasce, Notte, priMo, Nuova), A ( trovAndo). Il fonosimbolismo pascoliano valendosi, dunque, di un linguaggio in cui i suoni sono di per sé carichi di significato conferisce autonomia al significante ed instaura relazioni foniche tra le varie immagini, sovente rappresentate da parole onomatopeiche (bisbiglia, esala, sussurra, pigolio). A livello metrico-ritmico l’impiego del novenario, non molto usato nella nostra tradizione lirica e letteraria e ripreso proprio da Pascoli, conferisce alla poesia un ritmo lento e spezzato determinato da pause e da una fitta interpunzione quasi che l’autore fosse alla ricerca di una musica franta, intima, espressione dolorosa dell’esclusione dell’io lirico dalla possibilità di un rapporto amoroso, esclusione simbolicamente rappresentata dall’ape tardiva che non è riuscita ad entrare nell’alveare, metafora della vita adulta. Il testo risulta diviso in sei strofe costituite da quartine a rima alternata(ABAB) ciascuna delle quali è scomponibile in due novenari dattilici e due trocaici sempre divisi, tra l’altro, dal segno di interpunzione. Si notino, inoltre, gli enjambement il cui uso conferisce un singolare rilievo alle parole divise che, isolate, dilatano il ritmo e creano una particolare atmosfera, e le sinalefi che contribuiscono a determinare quella situazione di immediata contiguità fra le immagini. Rispetto alla lingua della tradizione si rileva, da un alto un atteggiamento di evasione attraverso il preziosismo delle voci tecniche o popolari relative al mondo della natura, dall’altro, sebbene in misura minore, un atteggiamento di ritegno attraverso il ricorso a termini aulici ( crepuscolare, esala, tardiva, gualciti, urna): tuttavia, in entrambi è lo scarto dalla norma a valere da parametro in quanto l’esercizio del privilegio linguistico è espressione di quel privilegio conoscitivo teorizzato nel “ Fanciullino”. Da un punto di vista retorico occorre evidenziare una serie di figure di ordine: la frequente inversione (vv 1-3-5-7-11-12-19-20-21-22) che rovesciando il normale ordine sintattico, sottolinea la valenza semantica dei predicati; il chiasmo presente ai vv 7-8 che, collegando tra loro le ali e le ciglia e i nidi e gli occhi, produce una significativa modulazione musicale e sottolinea, dopo il riferimento alla casa, l’importanza che il luogo chiuso assume nell’immaginario poetico pascoliano che qui, tra l’altro, fa ricorso a figure di significato come la metonimia al v 7 e la sineddoche al v 8; l’anafora( là…là- sotto…sotto- si esala l’odore…si esala l’odore-passa…passa) che ha la funzione di rimarcare, enfaticamente alcune immagini; l’uso, infine, dell’asindeto che, sopprimendo i legami di congiunzione e sostituendoli con i segni di interpunzione, crea delle pause di carattere allusivo all’interno di un susseguirsi di sensazioni visive, olfattive e acustiche il cui movimento è dato dalla contiguità degli accostamenti e da un gioco di dissolvenza. Il  Gelsomino notturno risulta intriso di una serie di figure di significato in cui è predominante l’aspetto simbolico e metaforico ravvisabile nelle ipallagi ai vv 1-4(…fiori notturni…farfalle crepuscolari), nell’antitesi che si instaura tra il silenzio notturno e il bisbiglio degli sposi nella casa; nella metonimia del v 5 che sostituisce il contenuto con il contenente; nella sinestesia che si instaura tra il colore rosso delle fragole e l’odore dei fiori allo stesso modo in cui la visione del luccichio delle stelle si trasforma in un pigolio; infine nell’immagine tutta metaforica dell’ultima strofa che ruota intorno all’uso del termine urna. Ricorre, inoltre, l’antitesi nell’accostamento dentro/fuori, chiuso/aperto, vita/morte: in particolare quest’ultima coppia antitetica ci conduce ala considerazione della funzione inibitrice dei morti nella poesia pascoliana, espressione di un continuo pericolo che mette a repentaglio lo stesso soggetto individuale facendone un escluso ed impedendogli di realizzarsi, al di là del nido, attraverso una vita adulta di relazione.

sabato 2 novembre 2013

Analisi del testo: " Spesso il male di vivere ho incontrato" di Eugenio Montale




“ Spesso il male di vivere ho incontrato” di Eugenio Montale


Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.





Testo emblematico della produzione poetica montaliana la quale riflette, soprattutto nella sua prima fase, la consapevolezza di un mondo dominato dall’incertezza e dalla contraddizione, la lirica Spesso il male di vivere ho incontrato esprime il modo di una tipica condizione di malessere esistenziale. Inclusa nella raccolta “Ossi di seppia”, apparsa nel 1925, il cui titolo allude, quasi in veste di “correlativo oggettivo” d’apertura, all’aridità e all’estraneità del vivere dell’uomo contemporaneo, essa presenta non in forma concettuale o analogica, bensì in maniera emblematica il senso indecifrabile dell’esistenza. Tale operazione letteraria va collocata e intesa all’interno di un più ampio quadro storico-culturale che configura, agli inizi del Novecento, una situazione di crisi, peraltro già avvertita alla fine del secolo precedente, la quale, venuto meno il rapporto diretto con la realtà e la fiducia di stampo positivista, determina l’emergere di nuove e, per certi aspetti, “sovversive” tendenze letterarie. La conseguente sensazione di precarietà e insicurezza, connessa, sul piano culturale, alla “perdita d ’aureola” del poeta o di quello ideologo e mediatore, su quello storico, alla tragica esperienza della Grande Guerra e alla situazione di instabilità che, negli anni successivi alla sua conclusione, agevoleranno l’affermarsi del fascismo prima, del nazismo poi, determinano il momento rivoluzionario delle Avanguardie e la tendenza all’Espressionismo cui seguirà, negli anni Venti, un complessivo ritorno all’ordine, rappresentato in Italia dalla rivista “ La Ronda”. E’ significativo che proprio nel 1925, anno in cui il fascismo si trasforma in regime esca “ Ossi di seppia” di Montale, raccolta ispirata a un ripiegamento esistenziale di tipo post-espressionista. Le soluzioni stilistiche e formali e le scelte tematiche del poeta , in cui alcuni critici hanno rintracciato influenze di Camillo Sbarbaro e di Thomas Eliot (è quest’ultimo ad aver usato l’espressione correlativo oggettivo) , tra i contemporanei, la presenza di Leopardi tra i predecessori, dunque, riconducibili ad un senso di negatività assoluta e ad un “ male di vivere” che diventa una condizione storica ed individuale colta nel suo aspetto misterioso si estende all’intera dimensione dell’esistenza, colta nel suo aspetto misterioso e incomprensibile. Sottoposto a spinte di tendenze poetiche diverse, tra le quali è opportuno ricordare non solo quelle simboliste desunte sia da dalla poesia francese sia da quella italiana(da Pascoli e soprattutto da D’Annunzio) ma anche quella dantesca(sotto l’influenza di Eliot), il libro del 1925 è stato paragonato ad una sorta di “ romanzo di formazione” attraverso il quale l’autore, a partire dallo smemoramento nella natura cui segue il disincanto della maturità, perviene alla coscienza morale quale stoica accettazione della vita su una terra desolata in cui ognuno deve essere chiamato a compiere il proprio dovere al di sopra e al di fuori di ogni compenso. Le tappe di questo itinerario poetico, il cui approdo sembra non smentire l’influenza leopardiana, sono scandite dalle quattro sezioni  di Ossi di seppia che accoglie nella sezione omonima( la seconda) “Spesso il male di vivere ho incontrato”, lirica in cui domina il motivo dello scarto, dell’ osso di seppia, appunto, gettato dal mare sulla terra, escluso dalla natura e dalla felicità. La ripetizione anaforica del titolo al primo verso sembra, infatti, sottolineare questa condizione il cui concetto, il male di vivere, si materializza nell’opzione per un verbo, come “ incontrare”, il quale determina una identificazione diretta dell’oggetto, emblematicamente rappresentato attraverso una presenza reale e fisicamente tangibile: il rivo strozzato, la foglia riarsa, il cavallo stramazzato. Il “male di vivere”, essendo ormai stato posto in crisi il simbolismo, non viene evocato in senso metaforico e analogico, ma concretamente reso tramite il ricorso al correlativo oggettivo. Si conclude così il primo momento della poesia , coincidente da un punto di vista metrico con la prima quartina, cui segue, secondo una struttura binaria, la rappresentazione del “bene”, anch’esso individuato, nella seconda quartina, in immagini simmetricamente collocate rispetto a quelle precedenti: la statua, la nuvola, il falco. In opposizione al male di vivere non vi è per Montale altro bene che l’imperturbabilità( la statua), la distanza(la nuvola), la chiaroveggenza( forse espressa dal falco che vola al di sopra della miseria del mondo): la natura di tale bene è, allora, tutta pessimistica e, comunque, individuabile in un atteggiamento di stoico distacco, come quello proprio della divinità( “ la divina Indifferenza”) la quale, in senso leopardiano, resta passiva e insensibile di fronte alle gioie e ai dolori degli uomini. Gli oggetti sono, dunque, emblemi, moderne allegorie in cui è trascritto in un linguaggio cifrato, il destino dell’uomo e del poeta il cui malessere esistenziale è reso a partire dal livello fonico- timbrico in virtù di uno straordinario gioco di equivalenze sonore e di parallelismi fonici. Le allitterazioni delle liquide /r/l/( si noti anche la triplice assonanza di quest’ultima al v.9), spesso unite ad altra consonante, quasi a renderne più faticosa la pronuncia( per esempio “ rivo” v.2 “cavallo” v.4) oppure precedute dalle vocali /e/a/( come in “era”- “ incartocciarsi” v.3 , “riarsa” v.4); quella della /s/ al v. 7 ( “statua…sonnolenza”); l’assonanza ricorrente /e/o/ che accosta parole semanticamente opposte tra loro( come stramazzato-levato); la reiterazione del suono /f/( “foglia” v.3, “ Indifferenza” v.6, “falco” v.8)in parole tra cui si instaura un rapporto di progressivo allontanamento a livello di significato implicito; l’asprezza spigolosa di certi termini (“strozzato”- “gorgoglia”- “incartocciarsi”) determinano sul piano acustico, un effetto di tormento affannoso, di lentezza mortale, di ineluttabilità nonché il senso di una vita arida e scheletrica. Anche la rima, oltre a produrre echi e rimandi sonori immediatamente fruibili, svolge una funzione espressiva, arricchendo e potenziando, per analogia o opposizione, le parole “compagne di rima”  creando particolari effetti nel caso di rime interne al testo. Per quanto riguarda l’aspetto metrico occorre precisare che, anche in questo caso, è possibile cogliere un’evoluzione che, a partire da un’oscillazione tra le forme aperte e il verso libero, da un lato, e forme chiuse più consuete, conduca ad un recupero in chiave moderna della tradizione, evidenziabile in testi poetici come quello in questione.  Questo, infatti, risulta costituito da due strofe  o quartine di endecasillabi, con l’eccezione dell’ultimo verso, che presenta un metro martelliano o doppio settenario., il primo dei quali è sdrucciolo: tale combinazione, insieme all’alternanza di endecasillabi a maiore e a minore, alla presenza della sinalefe( vv. 1-2-4-6-8) ricorrente ben due volte in fine di strofa, alla simmetria costruttiva delle sue quartine, determinano un ritmo sostenuto e, tuttavia, aspro e discorsivo, segno della ricerca di un rigore e di un equilibrio formale che compensino l’esigenza di un equilibrio interiore, ma il cui raggiungimento, si rivela, inevitabilmente, precario. Anche a livello stilistico-retorico la sensazione percepita è di tale natura: concorre a determinarla un lessico che alterna termini di uso letterario ( come “rivo”, “incartocciarsi”, ”riarsa”, ”prodigio”) ad altri quotidiani e colloquiali(come “strozzato”, “cavallo”, “nuvola”); la presenza della paratassi quale struttura sintattica predominante ed il ricorso frequente all’interpunzione che determina effetti di rottura da un lato, e alla sinalefe che tenta di ristabilire il senso di disgregazione e frammentazione del “ male di vivere” dall’altro. La collocazione, in posizione incipitaria, dell’avverbio “spesso”  sottolinea la negatività di un’esperienza che si suppone reiterata nel tempo, mentre notiamo come le tre immagini di impedimento sono rese, nella prima strofa, facendo ricorso ad un doppio climax: dalla difficoltà di esistere( il “rivo”) alla vita sul punto di finire(la “foglia”) alla morte( il “cavallo”) e dall’esistenza inanimata a quella vegetale a quella animale. A tali immagini si contrappongono, attraverso l’antitesi male/bene, quelle della strofa successiva, anch’esse disposte in modo da determinare un climax, reso da un progressivo innalzamento, in contrasto con la terrestrità bassa dei tre esempi della prima quartina(la rima“ stramazzato…levato” sottolinea l’antitesi spaziale basso/alto). Alla luce di quanto detto risulta, dunque, evidente come la poesia di Montale, in particolare quella degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta si stagli nel variegato panorama letterario e artistico del tempo, restando ricca di cose, di oggetti, di particolari minuti nonché condensandosi in immagini emblematiche di carattere universale o esistenziale.

sabato 5 ottobre 2013

5 Ottobre GIORNATA MONDIALE DELL’INSEGNANTE


Nel 1994 l’UNESCO ha deciso di istituire la Giornata mondiale dell’Insegnante, celebrata il 5 ottobre in oltre 100 nazioni, per segnalare a governi ed opinione pubblica la necessità di valorizzare il ruolo dell’insegnante nel percorso di formazione, educazione e guida alle nuove generazioni. La scuola è ricominciata da qualche settimana e nulla è cambiato: classi scoperte, nomine ancora da completare, malattie, permessi studio, permessi di varia natura, fughe difficili da catalogare e la sensazione di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato che  pervade molti insegnanti quando sono a scuola. Mi piace, allora, sedermi al mio tavolo e riflettere, in una giornata così speciale, cercando di indagare a fondo su quali dovrebbero essere le condizioni ottimali per non sentirci sempre più spesso “guardiani” di un gregge e sempre meno DOCENTI. Questa volta non intendo polemizzare o attaccare un sistema che fa acqua da tutte le parti, ma semplicemente ricordare qual è il senso della scuola, quale la sua funzione istituzionale, quali gli obiettivi da perseguire e quale il valore sociale storicamente attribuitole. Nella Costituzione italiana all’articolo 33 si legge: ” L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.…” il principio istitutivo della scuola parte dall’affermazione della libertà dell’insegnamento, per arrivare a ricordare che è lo Stato che deve istituire le scuole di ogni ordine e grado per garantire quell’uguaglianza sociale per cui tanto si è combattuto e per cui tanti hanno sacrificato la propria vita e fare in modo che per ogni singolo cittadino siano messe in atto tutte le strategie per il conseguimento dei propri obiettivi e per arrivare, magari, ad essere realizzato e appagato. Basta questo semplice e chiaro principio per comprendere la straordinaria importanza della scuola e di coloro che ne fanno parte in qualità di docenti e di discenti. Piero Calamandrei ,nel discorso pronunciato al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale “ Facciamo l’ipotesi” 1950, ha detto:”…Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell'organismo hanno la funzione di creare il sangue[…]. La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla( e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall'afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l’alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società[…].” Un discorso , questo pronunciato da Calamandrei, di una imbarazzante attualità nonostante la distanza temporale che ci divide, un discorso ancora più drammatico se contestualizzato ai nostri giorni, monito ad una scuola che le riforme hanno privato di ogni valore, di ogni risorsa, addirittura del giusto e meritato ruolo sociale che da sempre le è stato riconosciuto e che oggi ha lasciato il posto ad una forma senza sostanza perché, nel tentativo di modernizzare, i ministri che si sono succeduti hanno perso di vista e ,quindi l’hanno snaturata, l’essenza profonda della scuola, la sua anima, la sua funzione sociale e di strumento riqualificante di una società degna di questo nome. Allora non ci stupisce certo il disfacimento morale della scuola: su di essa aleggia un senso di sfiducia, di cinismo, di stanchezza che ha fatto perdere di vista principi semplici come la serietà, la precisione, l’onestà, la puntualità, fare il proprio dovere, fare lezione. La scuola deve rivendicare nuovamente la sua funzione di scuola del carattere, di formatrice di coscienze, formatrice di persone oneste e leali, di persone che “sanno”, consapevoli che non si va avanti solo con gli appoggi, le raccomandazioni, le tessere del partito o l’appartenenza ad una parrocchia. E’ la disillusione il male dei nostri giovani e il male di noi adulti che non crediamo più a nulla, che non siamo più convinti del ruolo sociale che, a furia di riforme strampalate e portate avanti da ministri che la scuola non l’hanno frequentata che da studenti( spesso neppure eccellenti!), ci hanno privato della dignità del nostro lavoro,  ci hanno strappato il rispetto dei nostri alunni e delle loro famiglie. Allora , perdonatemi, ma voglio ribadire che nonostante uno stipendio indegno per dei professionisti, noi siamo formatori di coscienze e dobbiamo rieducare i nostri studenti al rispetto per una istituzione sacra e inviolabile, attraverso la quale passa il riscatto sociale di ciascuno nonostante le difficoltà, nonostante la corruzione morale e ideologica che dilaga. La scuola regala gli strumenti per essere realizzati nel proprio ambito lavorativo, la scuola educa alla legalità e alla consapevolezza del proprio essere cittadino con dei doveri che non vanno elusi o disattesi, ma rispettati con impegno e serietà. In occasione della giornata mondiale dell’insegnante voglio augurare a tutti i colleghi di ritrovare la giusta direzione, di vincere lo scoramento e la disillusione e di tornare a credere e a lavorare affinché la scuola si riprenda tutto ciò che mistificatori e ciarlatani le hanno rubato mentre era impegnata a tenere insieme le parti scollate di un sistema troppo fragile per opporsi.

venerdì 20 settembre 2013

Analisi del testo: L' "Infinito" di Giacomo Leopardi



L’Idillio, composto presumibilmente nel 1819, compare sempre all'inizio delle raccolte leopardiane  e rivela un tono meno soggettivo e autobiografico. Dopo una prima attenta lettura, si noterà che è possibile dividere il testo in quattro sequenze :vv. 1-3 indicazione, ma senza elementi descrittivi, di uno spazio concreto ( l’area ristretta delimitata dalla siepe) e di uno specifico personale( la consuetudine di salire sul colle e lo stato d’animo che ne deriva); vv 4-8 processo di astrazione e visione mentale dello spazio; vv 8-13 un semplice stormir di foglie segna un momento di passaggio dall'immaginazione spaziale a quella temporale; vv 13-15 il pensiero si smarrisce e lo smarrimento genera piacere. Il titolo del componimento introduce magistralmente il lettore in una atmosfera di vago, di incommensurabile, in una dimensione in cui i sentimenti, gli spazi e il tempo sono dilatati e senza limite alcuno. Tuttavia le nostre aspettative sembrano, in un primo momento, deluse dai primi tre versi dell’Idillio. Esso, infatti, si apre con l’avverbio  sempre che imprime al periodo un tono di calda consuetudine, rafforzato dall'uso del passato remoto fu. L’aggettivo caro ci lascia entrare in un mondo noto, amato e ben definito, mentre  ermo, uno studiato arcaismo per indicare la solitudine del luogo, nobilita il colle su cui il giovane Leopardi amava concludere le sue passeggiate. Il colle, da identificare col monte Tabor un’altura assai vicina alla casa dei Leopardi, diventa il centro dello spazio interno che i primi tre versi vanno configurando. Ma ciò che circoscrive con determinazione lo spazio del colle è la siepe: il termine, che sfrutta bene il suo valore denotativo e connotativo, è messo in rilievo sia dall'accento ritmico che cade proprio sulla prima sillaba che dalla sua posizione in chiusura di emistichio prima di un’enfatica cesura rafforzata dalla virgola. E’ la siepe che impedisce allo sguardo del poeta di andare oltre quello spazio finito in cui si trova a meditare, è la siepe che rende invisibile  tanta parte dell’estremo orizzonte: ancora un latinismo ad impreziosire il verso con il particolare valore semantico attribuito all’aggettivo ultimo. La siepe è l’ostacolo materiale che si frappone tra i due spazi, quello finito e quello infinito, essa è il limite di ciò che è noto e delimitato e preclude la possibilità di guardare oltre servendosi dei sensi. Il ritmo di questi primi tre endecasillabi è scandito dall'enjambement tra i vv. 2-3 e dalle sinalefi che, insieme, danno al periodo un ritmo lento e pacato. Il rapporto dialettico che lega il titolo all'esordio del componimento persiste anche tra la prima e la seconda sequenza di versi. La forte avversativa ma, posta enfaticamente all'inizio del v. 4, scandisce il passaggio dalla descrizione  di uno spazio chiuso e stretto ad uno spazio dilatato e senza confini. La seconda sequenza è contraddistinta dalla rappresentazione dell’infinito, cioè di quello spazio che sta oltre la siepe, di quello spazio che sembra impenetrabile( e lo sarebbe se ci si limitasse ai sensi), ma che si spalanca vasto e smisurato al pensiero che solo può superare l’ostacolo-siepe. Uno spazio “infinito” appunto in cui dominano sovrumani/silenzi (vv.5-6) e una profondissima quiete(v.6): il v. 6 racchiude i due elementi distintivi dello spazio infinito posti ad inizio e a fine verso, accompagnati da due aggettivi pregni di significato. La centralità del verso nelle sequenze è rafforzata dall’enjambement che lo lega al verso precedente, da una forte cesura che cade dopo il primo termine, isolandolo, e che coincide con la virgola e dalla dieresi che rende il termine quiete trisillabo. I quattro versi della seconda sequenza sono tutti legati dall’enjambement che non solo rallenta il ritmo dei versi, ma concorre a dare il giusto rilievo a termini come spazi (v.4), silenzi(v.6), quiete (v.6) e ad aggettivi come interminati (v.4) e sovrumani(v.5). Fra l’immensità e la ristrettezza dello spazio interno sembra che non ci sia la possibilità di contatto e di continuità, ma lo sguardo che è costretto ad arrendersi davanti ad un muro imperscrutabile trova il suo prolungamento nel pensiero che può vagare ed immaginare prescindendo dalle percezioni visive. La dicotomia tra spazio interno ed esterno è superata dal pensiero che può elevarsi e superare il limite, ma in questo sforzo il poeta si sente pervaso da un moto di paura. La voce del vento che fa muovere le foglie paragonata all’ infinito silenzio dello spazio esterno apre la riflessione sul tempo: la stridente contraddizione suscita il sentimento del tempo esterno, che coincide con l’eterno, con il passato e con la morte  e del tempo interno tutto rappresentato dalla vita. L’alternanza finito-infinito, interno-esterno è sintetizzata anche dall’assonanza che lega sia voce(v.9) e morte (v.12) che vento(v.8) ed eterno (v.10). Il passaggio dal tema dello spazio a quello del tempo è bruscamente scandito dalla cesura, che coincide con i due punti, al v.10: anche questa terza sequenza è marcata dall’enjambement che lega tutti i versi, dalla sinalefe e dagli iati che non solo conferiscono una particolare ricchezza al metro, ma contribuiscono a creare un’atmosfera di pacata e distesa riflessione. La sensazione lascia il posto al ricordo e crea i presupposti per un nuovo sentire: l’infinito che il pensiero va scrutando si identifica, nella dimensione temporale, con l’eterno e con il passato così diversi dalla caducità e dalla fragilità del tempo concesso alla breve vita dell’uomo. L’ultima sequenza è tutta percorsa da una dolcezza e da un abbandono ineluttabili cui si arrende il pensiero dopo questo vagare, un abbandono impreziosito dall'uso connotativo del significante naufragare. L’apertura dell’idillio così intima e conosciuta è ripresa, nel finale, del dolce abbandono all'infinito e il componimento risulta imperlato da una struttura ad anello. Le parole-chiave dell’idillio sono silenzio (termine che compare ben due volte nel componimento al v.6 e al v.10)e quiete al v.6: la loro funzione sta tutta nella definizione dell’infinito. Essi, infatti, non appartengono alla sfera umana e tanto connotano l’infinito in quanto nell'immaginario rimandano ad un contesto di morte. Due termini cari a Leopardi e sempre usati per il loro pregnante valore evocativo. Il polisindeto, l’uso ben articolato degli aggettivi questo e quello, visualizzano la dialettica che sottende al testo ed esprimono l’ondeggiare tra realtà ed immensità che termina con il dolce naufragio dell’anima che chiude magistralmente un componimento emozionante in ogni verso: la dolcezza dell’abbandono è messa in rilievo dalla predominanza di vocali aperte, dall'allitterazione e dalla scelta dell’aggettivo dolce che , quasi lascivo e molle, sottolinea il profondo bisogno di un momento di pace dopo aver vissuto un’esperienza così emozionante.






mercoledì 21 agosto 2013

MORIRE DI “ DIVERSITA’'.

" Sono omosessuale, nessuno capisce il mio dramma e non so come farlo accettare alla mia famiglia": sono le parole disperate che un giovane quattordicenne ha scritto prima di lanciarsi nel vuoto per porre fine ad un dolore che non riusciva più a sopportare, spaventato dalla sua diversità, soffocato dall'angoscia e dalla paura del giudizio di una società fintamente bacchettona e moralista. Si muore ancora per essere diversi…ma da chi? Quando si parla di omosessualità mi riaffiora il ricordo del mio migliore amico, Daniele, che dopo un percorso faticoso, sofferto e costellato di insidie mi chiamò per dirmi che doveva vedermi per confessarmi una cosa che mi avrebbe lasciato senza parole( cosa assai difficile!): era gay !!!!!! La mia reazione è stata di sorpresa in quanto io lo sapevo da un pezzo, ma poi gli ho chiesto in che modo questa sua consapevolezza avrebbe cambiato il nostro splendido rapporto. A distanza di quasi 25 anni so che non è cambiato nulla, che abbiamo camminato insieme condividendo momenti belli, difficili, assurdi amandoci teneramente come due esseri umani possono fare.Gli omosessuali hanno due occhi, due orecchie, due gambe, due braccia, bevono, mangiano, dormono e amano: perdonatemi, ma non riesco a capire in cosa siano diversi!!! Amiamo le persone e basta e credo davvero che nessuno di noi si ponga il problema di che tipo di rapporti sessuali abbia un amico o un’amica: in camera da letto, tra due persone che si amano e che sono consenzienti, può essere legittimo tutto, pertanto perché ci soffermiamo in maniera morbosa sul fatto che due uomini o due donne possano amarsi? Persino il Papa, sconcertando e lasciando basiti i suoi interlocutori, ha detto chiaramente:” Chi sono io per giudicare un omosessuale?” e noi chi siamo? Diversi sono gli uomini che picchiano e violentano le donne o i bambini, diversi sono gli assassini, i truffatori, coloro che offendono la dignità e i sentimenti dei loro simili, non gli omosessuali che di diverso, lasciatemelo dire, hanno il dolore che questa società meschina e ottusa gli provoca. Mi rattrista che questo tempo si lasci fagocitare da mille, inutili preoccupazioni e poi lasci morire suicida un adolescente schiacciato dalla paura di non essere accettato da una società sessista e macha oltre ogni limite. Oggi mi è capitato di leggere che in Germania propongono di non assegnare un sesso ai neonati, ma di indicare con una X l’attribuzione di un genere maschile o femminile, in attesa che il bambino abbia le idee chiare su ciò che vuole essere. Forse a ciascun essere umano dovrebbe essere garantita la libertà di scegliere e di seguire il proprio cuore senza dare un peso così rilevante alla categoria sessuale, in quanto ognuno vive la propria sessualità, che sia etero o omosessuale, nel chiuso della propria stanza, ma ciascuno deve essere garantito e tutelato nella libertà dei propri sentimenti. Provo un profondo senso di frustrazione pensando alla solitudine di questo giovinetto, spaventato e intimorito dalla cattiveria di un mondo che ancora non ha compreso una verità essenziale: siamo persone e nulla più e ognuno ha il diritto e il dovere di essere felice e di vivere secondo le proprie inclinazioni. Persino un mio alunno, qualche anno fa, sentì il bisogno di rivelarmi questo segreto: a lui riuscii solo a dare un caldo abbraccio, consapevole del percorso dolorosissimo che aveva dovuto compiere per giungere a quella consapevolezza, lui così bello, intelligente e speciale. Potrei fare bella mostra di omosessuali famosi o riferirmi alla storia antica, quando essere omosessuali era "normale", ma questa disquisizione potrebbe indurre a pensare che servono esempi unici e rilevanti per " normalizzare" ciò che è già normale. Mi piacerebbe una società in cui non fosse richiesto di esprimere la propria categoria sessuale, in quanto questo dato mi sembra irrilevante e superficiale, ma una società che assicuri a ciascuno di vivere la propria vita affettiva e sessuale in pienezza e con la riservatezza che è diritto di tutti. Non facciamo crescere i nostri figli con i paraocchi, ma insegniamo il rispetto per tutti gli esseri viventi, non demonizziamo gli omosessuali, non confondiamo omosessualità e pedofilia , mettiamo ordine semplificando i nostri rapporti con le persone che ci stanno intorno e che non possono morire di indifferenza o di “ diversità”. Gli omosessuali non sono più sensibili, più simpatici o più attenti alle persone, sono uguali agli altri e possono essere pure insensibili, strafottenti e idioti, proprio come tutti gli altri esseri umani. Non permettiamo a nessun giovane adolescente di vivere la propria sessualità come un macigno che potrebbe essere troppo pesante da portare da solo: educhiamo alla vita in tutte le sue forme e nella sua grandiosa diversità.

mercoledì 24 luglio 2013

E-BOOK: LA SCUOLA PUO' ATTENDERE

La decisione del Ministro dell’Istruzione Anna Maria Carrozza in merito alla necessità di differire di almeno un anno l’obbligatorietà dei libri digitali nelle scuole ha lasciato soddisfatti gli editori, meno l’opinione pubblica in generale. Le motivazioni di tale scelta, riferisce il ministro, poggiano sulla considerazione che serve più tempo per organizzarsi e per valutare le ricadute sulla salute dei giovani utenti esposti ad un uso prolungato di strumenti tecnologici, oltre che denaro per dotare le scuole e le case di banda larga e WI-FI. In realtà, su tutte, sembrano prevalere le ragioni degli interessi economici degli editori che nell'immediato dovrebbero mandare al macero moltissimi libri già stampati e, soprattutto, vedrebbero notevolmente ridotti i loro profitti!  La scuola italiana deve, purtroppo, fare i conti con l’accusa di recepire troppo lentamente i segnali di cambiamento e di non essere tempestiva nel realizzare l’ammodernamento richiesto a livello mondiale, deve essere più competitiva e fornire ai propri utenti strumenti più efficaci e al passo con i tempi, che rispondano in maniera mirata alle richieste di una società globalizzata e tecnologica e sembra che l’introduzione dell’e-book risponda a tutti questi diktat. La nostra scuola  così criticata, vilipesa, accusata di anacronismo, di immobilità culturale eppure così poco considerata dai diversi governi di destra e di sinistra che si alternano e che sistematicamente scelgono di non investire in uno dei nodi essenziali, se non vitali, di una società che si rispetti, ora sembra arrivata ad un bivio di fondamentale importanza: rendere obbligatorio l’e-book pare proprio che possa rivoluzionare la scuola italiana, una panacea a tutti i mali accumulati nel corso dei decenni!!! Francamente sorrido di fronte a tante parole spese tra coloro che sono a favore e coloro che, per difendere i propri interessi, oppongono motivazioni discutibili e poco credibili.
Da insegnante, neppure troppo avanti con gli anni, dico che non potrei rinunciare al piacere fisico dello studio, fatto dell’odore della carta, della matita che sottolinea e ferma immagini, pensieri, che riassume, commenta e lascia una traccia indelebile dell’incontro con il libro! Non nego certamente il valore e l’importanza della tecnologia, ma il nuovo deve convivere con la tradizione e con un modo di studiare che si è rivelato efficace e valido sempre e ovunque. I nostri laureati esprimono, in moltissimi casi, eccellenze e competenze qualificatissime, i nostri cervelli scappano all'estero per completare gli studi e cercare un lavoro che il nostro paese, non la nostra scuola, gli nega! Dobbiamo rivedere i programmi, forse persino il modo di insegnare, ma non mi pare che la scuola abbia questa priorità in questo momento!!!! Parliamo di e-book e in alcune scuole manca la connessione, parliamo di tecnologia avanzata e le strutture di alcune , la maggior parte delle scuole, sono fatiscenti, per usare un eufemismo! La riqualificazione della scuola passa prima di tutto dalla creazione di ambienti accoglienti, puliti e sicuri, poi dal sacrosanto e giusto riconoscimento del ruolo sociale  e professionale dei docenti corrispondendo loro uno stipendio europeo ( perché essere moderni significherà pure adeguare gli stipendi oltre che introdurre gli e-book!), infine dagli investimenti che il nostro paese, che non riesce a tagliare le spese della farraginosa macchina statale ma nega fondi alla scuola trasversalmente, non sembra intenzionato a fare!!!! Mi piace l’idea di far risparmiare denaro alle famiglie sempre più in difficoltà, ma non credo davvero sia questa la soluzione per ovviare ai troppi problemi della scuola. Peccato che per cose del genere si accendano polemiche esagerate, appassionate e mentre la scuola viene privata della dignità e dei mezzi minimi di sussistenza nessuno si lanci in battaglie in difesa e a tutela di un istituzione che rimane, per me e molti insegnanti, SACRA!!!!!!!!! Lavoriamo per una scuola al passo con i tempi, diamo alla tecnologia il giusto valore e il meritato posto nella vita di docenti e studenti, ma non perdiamo di vista, mai, che la scuola è fatta di contenuti, di conoscenze e di competenze che insieme istruiscono gli studenti e che sono assolutamente complementari e tessere imperdibili di un puzzle complesso da ultimare: la formazione  dei nostri giovani!

giovedì 11 luglio 2013

FERMIAMO QUESTA STRAGE

Un bambino di due anni seduto in lacrime su un divano e una giovane mamma dilaniata dalle coltellate inflitte sul petto, riversa sul pavimento della cucina: questa la scena agghiacciante che si è presentata sotto gli occhi di un nonno, costretto a prendere atto dell’ennesimo delitto annunciato.  Sono due le riflessioni da fare davanti all'ennesimo efferato episodio di violenza sulle donne: la giovane aveva lasciato il compagno violento tornando a casa dei suoi genitori, lo aveva più volte denunciato per le percosse e le minacce, ma nulla e nessuno ha potuto impedire la sua morte. Mi chiedo allora qual è il senso e l’utilità dell'introduzione del reato di stalking se questi maledetti uomini denunciati e segnalati riescono a portare a compimento i loro insani propositi? Siamo davvero in balia dell'ossessione di uomini sbagliati, malati, instabili o semplicemente non - uomini che, rifiutati, ci uccidono? Ancora una donna uccisa da un sistema che non l’ha difesa, che non l’ha tutelata eppure una donna che non ha avuto paura, che ha denunciato, che ha messo al sicuro il suo bambino e se stessa, ma non l’abbiamo salvata. Purtroppo accanto a questa tragedia si è consumata un’altra tragedia, quella dell’infanzia rubata a questo piccolo esserino indifeso i cui occhi hanno incontrato il Male, quello che non ti aspetti, quello che ti marchia a fuoco la pelle e che non puoi più dimenticare. Lui stesso vittima della violenza assurda di un padre contro la madre di suo figlio, di un uomo che doveva amarlo, proteggerlo, insegnargli ad amare e rispettare le donne, che doveva educarlo e farlo diventare un Uomo,  un bambino vittima di un mostro che non si è fermato neppure di fronte alla sua innocenza. Che cosa avranno registrato quegli occhi innocenti? Che ferita ha squarciato il cuore di questo piccolo? Tremo al pensiero del mostro che si insinuerà nel cuore di questo angelo e di tutti i mostri che dovrà combattere per vivere una vita serena e senza risentimento. La famiglia violata, la casa violata, la purezza degli affetti violata: il posto che dovrebbe essere il  più sicuro per antonomasia, diventa , invece, una fabbrica di orrore e morte. Mi viene in mente l’idea che Pascoli aveva della famiglia come luogo di amore, calore, protezione e sicurezza rispetto ad un mondo crudele, dominato dalla violenza e dalla sopraffazione. Oggi tutto è cambiato e i nemici li teniamo, spesso, con noi, li alimentiamo con il nostro amore e con la nostra incapacità di riconoscerli prima che sia troppo tardi. Certo riconoscerli…ma come? Come si può capire che in un uomo apparentemente amorevole, premuroso, innamorato si celi un mostro pronto ad uccidere se non ricambiato come pretende o come si aspetta? L’amore ha in sé un’essenza di abbandono, fiducia, rispetto senza cui non potrebbe esistere: come possiamo affrontare una relazione costruendoci barriere, vivendo nel terrore di diventare oggetto di ossessione per qualcuno o di rendere i nostri figli protagonisti involontari di violenza e dolore. 
Penso alla solitudine di questo bambino, al senso di vuoto con cui dovrà fare i conti, ai perché cui dovrà dare risposte, al senso di frustrazione che dovrà imparare a gestire, al senso di solitudine profonda e irrimediabile con cui dovrà imparare a convivere. Nel profondo, tuttavia, voglio sperare che questa società che non ha saputo proteggere la sua mamma tanto coraggiosa e forte, sappia offrire a questo bambino tutto l’aiuto possibile perché lui possa metabolizzare questa tragedia, perché non cresca nell'odio e nel desiderio di vendetta, perché si spezzi questa maledetta catena di male per male, perché lui abbia la possibilità di scegliere senza sentirsi segnato da un destino già scritto e che non si può cambiare. Mi piace credere che questo bambino sia messo in condizione di superare il dolore, il male, di comprendere che spesso non ci sono risposte esaurienti a tutto ciò che la vita ci pone innanzi, ma che c’è sempre la possibilità di prendere in mano il proprio destino e volgerlo al meglio. Questo bambino dovrà “perdonare” e non in senso cristiano, ma dovrà perdonare nel senso di accettare e lasciar andare i fantasmi che lo tormenteranno e non gli daranno pace. Spero che qualcuno ricorderà a questo bambino, una volta adulto che, come scrive M. Gramellini: “ I se sono il marchio dei falliti! Nella vita si diventa grandi nonostante”. Buona vita piccolo!!!!!



venerdì 5 luglio 2013

ESSERE INSEGNANTI OGGI

La mia riflessione nasce dall'urgenza di ridefinire e rinfrescare a certi colleghi quali sono i compiti precipui della scuola e quale è la grande responsabilità che ci assumiamo ogni volta che entriamo in classe. Una parola importante e un diktat per la scuola è orientamento, che sintetizza, a mio avviso, tutto ciò che il lavoro di un insegnante deve mirare a raggiungere al di là delle singole discipline. Il termine “orientamento” deriva dal latino oriens, orientis, participio presente del verbo oriri (“nascere”), che grazie al suffisso, esprime una decisa valenza strumentale: l’orientamento, dunque, è lo strumento per la nascita, aggiungerei, di sé. Tra gli obiettivi dell’orientamento scolastico va infatti riconosciuto, oltre alla volontà di agevolare i processi di scelta dell’alunno, il dovere di affiancarlo nella costruzione di un’immagine positiva di sé e nei primi passi di apertura verso il futuro. In una società in cui le parole d’ordine sono innovazione, flessibilità, adattabilità e riconversione, la scuola deve porsi come punto di riferimento stabile e costante, nonché assumersi la responsabilità di trasferire agli alunni progettualità ed autonomia decisionale come veri e propri stili di vita. Il compito orientativo della scuola si deve esplicare attraverso interventi, diversi per la loro specificità, che postulino un disegno unitario fondato sul criterio di continuità. L’orientamento deve esser un processo in fieri, caratterizzato da azioni coordinate e continuative che inizino dalla prima infanzia, individuino bisogni e aspettative ed indirizzino i processi verso una migliore qualità della vita, nella prospettiva finale di una crescita individuale ma anche, di riflesso, collettiva. Soltanto un processo orientativo così delineato potrà assicurare il diritto allo studio, cioè l’opportunità per ciascuno di raggiungere la propria maturazione, e sarà dunque allo stesso tempo un risolutivo strumento d’intervento contro la dispersione scolastica. Occorre, insomma, che la scuola continui a fornire i contenuti, essenziali per dare qualità e spessore agli studenti, ma nello stesso tempo tenga conto delle singole individualità. Ciascun docente ha il sacrosanto dovere di privilegiare la diversità e di mirare a rendere l’alunno consapevole dei suoi mezzi e promuovere la persona, privilegiando un insegnamento “strategico” e individualizzato nel rispetto della diversità del singolo. Il nostro obiettivo come insegnanti deve essere quello condurre gli alunni ad acquisire conoscenze concrete e spendibili ai fini di una scelta più consapevole e meno episodica ed emozionale. Perché insisto su questo tema? Perché “ fare orientamento” ci costringe a partire direttamente dal vissuto dei nostri studenti,  a conoscere le loro capacità, ad aiutarli ad avere stima di sé, a percorrere con loro una strada che li renda consapevoli delle proprie potenzialità, dei propri limiti, a guidarli a vivere la diversità come un valore che arricchisce gli strumenti di cui dispone un docente e avvia nuove e più efficaci strategie didattiche. In una scuola che sta cambiando, che punta ad una scolarizzazione di massa nell'apparente tentativo di elevare il livello culturale dei nostri giovani, non è più possibile insegnare guardando a standard predefiniti e impersonali, ma è diventato prioritario studiare strategie mirate, nel tentativo di stimolare e sfruttare le qualità, le attitudini e le disposizioni degli alunni. 

Non è più pensabile il docente che entra, si siede, spiega la sua lezione e assegna i voti non ponendosi il problema delle difficoltà degli alunni o, semplicemente, dei diversi tempi di apprendimento. Attenzione, però, a non lasciarci indurre in errore: la scuola non può e non deve essere privata dei contenuti che restano fondamentali per conservare e mantenere vivo tutto il nostro vastissimo patrimonio culturale del quale i giovani devono avere coscienza e consapevolezza, ma non può non adeguarsi ad una società che cambia e che le affida compiti sempre più disattesi dalle famiglie.  Che ci piaccia o no il ruolo dell’insegnate richiede un apertura al “counseling” e alla consapevolezza che per aiutare i nostri studenti non dobbiamo fornire loro soluzioni pronte e preconfezionate, ma aiutarli a comprendere la situazione in cui si trovano, a riconoscere le difficoltà e a gestire strategie di azione per superare gli ostacoli. Orientare, per me, significa insegnare ai giovani a vivere mettendosi continuamente in discussione, riconoscere punti di forza e di debolezza, sfruttando i primi e lavorando sui secondi per raggiungere una buona qualità di vita. Tutto il mio discorso ( alcuni storceranno il naso!) non punta a fare della scuola una succursale di Caritas o un centro di ascolto, ma ha come obiettivo la riflessione che il nostro lavoro non si può limitare alla trasmissione di contenuti senza passione e senza coinvolgere e lasciarsi coinvolgere dai ragazzi. Quella con i ragazzi è una relazione che, talvolta, dura anni e che implica un coinvolgimento emotivo e umano forte e difficile. Storicamente all'insegnante è sempre stato affidato il compito di educare, rendere consapevoli, trasmettere valori e contenuti e fornire esempi di vita ai giovani che gli vengono affidati: oggi più che mai davanti ad una società che non è attenta ai giovani, alle loro richieste, alle loro fragilità la scuola deve, nei limiti degli strumenti di cui dispone ma forte delle competenze e delle risorse umane e professionali dei docenti, diventare un punto di forza della nostra società e un riferimento sicuro per gli studenti. Credo che sia questa l’unica strada che abbiamo come docenti per riprenderci il posto che ci spetta e che meritiamo nella società: essere professionali, tenere il passo con una società che cambia e non avere paura di lasciarci coinvolgere dai ragazzi, non mordono, studiano poco ma sanno essere riconoscenti e dare affetto in modo inatteso…è la parte più bella di questo lavoro!!

martedì 2 luglio 2013

“ SOLO I COLTI AMANO IMPARARE, GLI IGNORANTI PREFERISCONO INSEGNARE”




Una frase lasciata su uno stato di facebook per esprimere il disappunto per un esame che non è stato soddisfacente, una frase lapidaria riferita ad un insegnante che, forse, non ha fatto bene il suo lavoro eppure, per me, questa frase astiosa rappresenta il dolore per l’ennesimo fallimento di una istituzione sacra e preziosa quale è la scuola. Ora sarebbe facile rimbrottare la studentessa, chiederle di riflettere e di cercare le cause di quanto le è capitato, la sua percezione dell’insegnante è stata, a dir poco negativa, e questa massima tanto vera per ciascun docente che ami e rispetti questo lavoro, diventa amaro sfogo e monito a recuperare la dignità di adulti e di docenti. Questa scuola che va alla deriva, questi insegnanti vilipesi, sottopagati, sviliti nel ruolo che da sempre gli ha richiesto la cura e la crescita delle nuove generazioni, che non sono più in grado di comprendere che di fronte ad una scuola che cambia, in meglio o in peggio non importa, bisogna tenere il passo. Che cosa abbiamo perso? Fanno male solo a me le parole di una giovane ferita, amareggiata e delusa non dalla sua prestazione , ma dall'atteggiamento ottuso, meschino e scorretto di un insegnante che in questi anni doveva lasciarle qualcosa di importante da spendere proprio in un momento delicato come l’esame di Stato? Tutti noi insegnanti sappiamo bene quanto sia difficile lavorare con questi ragazzi sempre più soli, sempre più fragili, sempre più demotivati, sappiamo quanta poca complicità ci sia tra noi e le famiglie che ci percepiscono come nemici da combattere e da cui proteggere i propri figli, ma siamo davvero sicuri di non aver perso la dignità del nostro ruolo, la consapevolezza del valore sociale, civile e umano del nostro lavoro? Lo stipendio non è gratificante, ci manca la tutela, il riconoscimento sociale, la forza per combattere un sistema che ci fagocita e ci spinge a diventare burocrati senza che possiamo ribellarci, ma in tutto questo, purtroppo, si fa largo l’indifferenza e la demotivazione di certi colleghi che non sono in grado di costruire una relazione formativa efficace con gli studenti, fatta di complicità, di serietà, di ore impiegate a spiegare, a raccontare attraverso le proprie conoscenze come si diventa uomini e donne, fatta di empatia, di rapporti personali che si devono cementare  per rendere accogliente l’ambiente formativo. Mi spiace che una giovane studentessa esca dalla scuola con tanta amarezza nel cuore e tanta rabbia, lei è l’ennesimo fallimento di un sistema che da una parte lotta per esistere all'interno di uno Stato che sembra puntare al livellamento culturale e favorisce l’appiattimento, dall'altra deve, invece, grazie ai propri valori e alle proprie consapevolezze rivendicare la propria funzione educativa, recuperando la giusta relazione con i ragazzi e, magari, con se stesso!!! Anche io ricordo una insegnante che non riusciva proprio a comprendere il caratteraccio di una studentessa curiosa, in cerca di un importante riscatto sociale, piena di voglia di imparare ma difficile da guidare: sento ancora le sue parole dure, umilianti e gratuitamente cattive rispetto ad una manifesta intenzione di fare l’insegnante da grande……Ripenso ancora a quell'insegnante che, attraverso la sua chiusura e l’incapacità di comprendere una giovane studentessa certo intemperante, irruenta, rompi scatole,  ha insegnato a quella giovane oramai donna che cosa non si deve fare mai con i propri studenti! Lei mi ha reso attenta ai bisogni dei ragazzi, mi ha insegnato che sono io l’adulto e che devo andare io incontro a loro e che devo essere io ad infrangere la loro diffidenza e a guadagnare il loro rispetto.  Porto nel cuore ancora quella delusione, quella umiliazione, ma so che da quel dolore è cresciuta l’insegnante che oggi ama questo lavoro per l’opportunità che le offre di stare a contatto con i ragazzi, di scambiare con loro sapere, vita, complicità e comprensione. Solo se riusciamo a costruire con questi giovani un rapporto proficuo fatto di rispetto e complicità, riusciremo a riprenderci ciò che la società odierna ci toglie ogni giorno: il ruolo fondamentale nella vita dei giovani che con noi devono imparare a conoscere, che con noi devono fare un percorso di crescita che li renda autonomi e pronti a costruire se stessi e la propria identità sociale e civile. Mi spiace per quei giovani che incontrano insegnanti non degni di questo nome ( di cui, purtroppo, la scuola è piena!!!) e dimentichi della responsabilità che hanno, ma so che anche dalle brutte esperienze si può partire per crescere ed essere migliore di chi non ha mantenuto fede all'impegno preso con i suoi studenti e, forse, con se stesso!!

giovedì 27 giugno 2013

Analisi del testo: LA CRISI DI UN'ANIMA NOBILE E IL RAPPORTO CON IL POTERE "ADELCHI"

ADELCHI  ATTO V SCENA OTTAVA  vv. 338-364


Adelchi Cessa i lamenti, /cessa, o padre, per Dio! Non era questo/ il tempo di morir? Ma tu, che preso/ vivrai, vissuto nella reggia, ascolta./ Gran segreto è la vita, e nol comprende/ che l’ora estrema. Ti fu tolto un regno:/ Deh! Nol piangere; mel credi. Allor che a questa/ ora tu stesso apprresserai, giocondi/ si schiereranno al tuo pensier dinanzi/ gli anni in cui re non sarai stato, in cui/ né una lagrima pur notata in cielo/fia contra te, né il nome tuo saravvi/ con l’imprecar de’ tribolati asceso./ Godi che re non sei, godi che chiusa/ all’oprar  t’è ogni via: loco a gentile,/ ad innocente opra non v’è: non resta/ che far torto, o patirlo. Una feroce/ forza possiede, e fa nomarsi/dritto: la man degli avi insanguinata/seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno/ coltivata col sangue; e omai la terra altra messe non dà. Reggere iniqui/ dolce non è; tu l’hai provato: e fosse;/ non dee finir così? Questo felice,/ cui la mia morte fa più fermo il soglio,/ cui tutto arride, tutto plaude e serve,/questo è un uom che morrà.




L’ Adelchi, la seconda tragedia di Manzoni, fu pubblicata nel 1822 e rappresentò un ulteriore approfondimento da parte dell’autore dei problemi connessi al genere tragico. Per intendere in che modo Manzoni giunse a certe conclusioni sarà necessario ripercorrere brevemente la sua formazione. Egli fu profondamente influenzato dalla cultura illuministica, sia negli anni della sua formazione giovanile nella Milano napoleonica, che pochi anni prima era stata la capitale dell’Illuminismo italiano, sia nel soggiorno parigino a contatto con gli ideologi (un gruppo di intellettuali che si opponevano al regime napoleonico ed erano gli eredi degli ideali rivoluzionari e del patrimonio di idee dell’Illuminismo, con aperture nuove di interesse verso la storia che preludono al romanticismo). Le posizioni liberali, il rigorismo morale di questi intellettuali esercitarono un influsso determinante nella formazione delle idee politiche , filosofiche, morali e letterarie del Manzoni. Il contatto con gli ideologi incise anche sulla conversione religiosa e letteraria di Manzoni, sul suo ritorno alla fede cattolica e sull’adesione ai principi romantici. Egli fu vicino al movimento romantico milanese, che cominciò a formarsi a partire dal 1816 e ne seguì attentamente gli sviluppi, anche se non partecipò vivamente alle polemiche e declinò l’invito a collaborare al “ Conciliatore”. L’adesione ai principi romantici si manifesta anche in un interesse per la storia, che prende corpo in due tragedie storiche. La prima fu il “Conte di Carmagnola” dedicata al condottiero condannato per tradimento dalla Repubblica di Venezia nel 1400, che fu iniziata nel 1816 e portata a termine, dopo lunghe interruzioni, nel 1820. Anche qui Manzoni rifiuta i modelli classicheggianti e si rivolge piuttosto alle tragedie storiche di Shakespeare, su cui i teorici europei del Romanticismo avevano puntato il loro interesse. Sulla scorta di tali teorici, Manzoni ripudia il caposaldo della tragedia classicheggiante: la regola delle unità. Mentre la tradizione classicistica, ancora seguita da Alfieri e Foscolo nel loro teatro tragico, prescriveva che l’azione della tragedia non superasse la durata di ventiquattro ore e si svolgesse tutta nello stesso luogo, senza cambiamenti di scena, nel  Conte di Carmagnola e nell’ Adelchi lunghi intervallo di tempo, anche anni, separano i vari momenti dell’azione e la scena si sposta di frequente. La regola delle unità era nata dal gusto classicistico del Rinascimento italiano e dal principio di imitazione dei classici che ne era il canone fondamentale. Secondo tale principio, ogni genere letterario doveva seguire precise regole ed imitare un modello antico. E poiché i grandi tragici greci usavano abitualmente concentrare l’azione nell’arco di una giornata e mantenere fissa l’azione, tali caratteristiche furono assunte come regole vincolanti assolute, valide per ogni tempo ed ogni luogo. L’obbligo delle regole fu poi rapidamente codificato dai trattatisti letterari del Cinquecento e seguito scrupolosamente dai poeti. Il principio delle unità fu consacrato definitivamente dal teatro tragico francese del Seicento e imposto come intangibile dai capolavori di Corneille e Racine. Furono i romantici tedeschi, tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, a rifiutare le regole opponendo ai classici il modello della tragedia di Shakespeare, che ignora completamente le unità. Il rifiuto dei romantici nasceva dal principio che il genio poetico deve creare liberamente, senza costrizione alcuna, come una forza della natura.
Le ragioni per cui Manzoni rifiuta le unità sono molteplici e minuziosamente esposte nella “ Lettre à M. Chauvet”: in generale non si possono dare regole astratte e assolute alla composizione poetica. La forma di un componimento deve risultare dalla natura del soggetto, dal suo svolgimento interiore e non da modelli esterni. Nessuna azione nella vita reale può svilupparsi nell’arco brevissimo di un solo giorno e in un solo luogo: il rispetto delle regole impedisce al poeta di riprodurre gli eventi quali si svolgono nella vita reale degli uomini e soprattutto nella storia, che è la fonte principale della bellezza poetica. La rigida distinzione, poi, di sublime e quotidiano, di tragico e comico esprimeva a livello letterario la rigida divisione della classe aristocratica dominante dalle classi inferiori, e la volontà di difendere il privilegio anche mediante l’imposizione di modelli di gusto. E’ naturale che la borghesia, nella lotta per affermare il proprio dominio in campo politico come in campo culturale, rifiuti anche questa “divisione degli stili” e affermi un gusto più democratico, proclamando il pieno diritto della vita quotidiana ad entrare nella poesia e ad essere rappresentata in tutta la sua importanza e serietà, al limite anche tragicità. Una nota merita anche la nuova funzione del coro: nella tragedia greca il coro era la personificazione dei pensieri che l’azione deve ispirare, una specie di spettatore ideale, che filtra e idealizza liricamente le impressioni provate dal pubblico reale; per Manzoni i cori sono degli squarci lirici che interrompono l’azione drammatica, ai quali l’autore affida l’espressione dei sentimenti e delle considerazioni destategli dall’azione stessa, in modo da salvaguardare l’azione da ogni intromissione soggettiva. In tal modo la tragedia può rispondere a quella poetica del vero, dell’aderenza all’oggettività dei fatti storici che è alla base della concezione manzoniana della letteratura. I cori rispondono anche , in Manzoni, alla funzione morale che la poesia, soprattutto quella drammatica, deve possedere. Il coro permette allo scrittore di intervenire a chiarire il significato dell’azione che si sta svolgendo, a rendere esplicito il messaggio che ad essa è affidato, e che lo spettatore può travisare o non cogliere addirittura. Sulla base di questi principi, Manzoni si accinse ad un’altra tragedia di argomento storico, Adelchi, che rappresenta la fine del dominio longobardo in Italia nell’ VIII e che viene redatta tra il 1820 e il 1822. Per ben comprendere lo svolgimento del pensiero manzoniano fino all’Adelchi va ricordato che Manzoni, legato ancora all’Illuminismo, ha ancora fiducia nella forza riformatrice delle idee e crede che sia necessario mettere ordine nella coscienza degli uomini per fare ordine nella società; un altro abito mentale tipicamente illuministico è la fede nel valore civile ed educativo della letteratura. La conversione “cattolica” e romantica di Manzoni costituisce, poi, un abbandono delle giovanili posizioni di rivolta astratta e aristocratica, di tipo alfieriano e foscoliano, e segna una visione più moderata che tende ad una sostanziale accettazione della realtà storica. Si tratta, però, di un’accettazione condizionata, che deve sempre fare i conti con il pessimismo cristiano dello scrittore, il quale, nonostante ogni proposito progressista, resta convinto che la storia è il prodotto del peccato originale e della “caduta” dell’uomo e quindi non potrà mai essere riscattata dal male mediante una semplice azione umana. Il rifiuto della storia ricompare nella tragedia Adelchi  e si esprime attraverso la figura del protagonista e di Ermengarda. Adelchi è un eroe intimamente diviso e contraddittorio, in perenne conflitto con la realtà, condannato a soffrire proprio per la sua nobiltà spirituale che non è adatta alla realtà del mondo. In una variante cattolica incarna il tipo di eroe negativo, sconfitto e infelice caro alla mitologia romantica ed ha le sue radici negli eroi tragici alfieriani, nello Jacopo Ortis di Foscolo e nella stessa immagine di sé come “giusto solitario” che Manzoni costruiva nel giovanile carme In morte di Carlo Imbonati. Nutrito di alti ideali e di sogni eroici, Adelchi è costretto a compiere azioni meschine e inique nell'ambiente in cui vive, dominato dalla legge dell’utile e della forza. Il suo rifiuto della negatività del mondo non si esprime in un gesto clamoroso di rivolta, come avviene in tanti eroi ribelli del Romanticismo, ma si isterilisce nel chiuso della sua interiorità. Ermengarda è l’esatto equivalente femminile del mito proposto da Adelchi: come Adelchi esprime il rifiuto della realtà, del rapporto tra gli esseri umani in campo politico e pubblico, essa esprime il rifiuto  della realtà in campo privato, sentimentale e sessuale. Ermengarda è la fanciulla-angelo pura ed infelice cara alla mitologia borghese tra ‘700 e ‘800, che è contaminata dal contatto con il mondo e rifugge da esso verso la sua patria vera che è il cielo. Sebbene Adelchi ed Ermengarda esprimano questo radicale pessimismo e la soluzione estrema della fuga dal mondo, proprio nell’ Adelchi si può individuare in atto quella dialettica tra rifiuto e accettazione della storia. Metricamente il brano presenta endecasillabi sciolti con una misura uguale di endecasillabi  a maiore ( vv 27, 28,32,34,38,39,41,42,43,44,45,46,48) e a minore: prevale il ritmo ascendente con una forte predominanza di emistichi giambici. Il pathos e la drammaticità del momento sono messi in rilievo da un periodare spezzato da continui segni di interpunzione, che spesso coincidono con le cesure, e che sembrano quasi suggerire la volontà di Manzoni di dare rilievo all’espressione dolorosa di Adelchi condannato a non poter agire. L’incipit del brano è segnato da un imperativo( cessa) che per anadiplosi, è ripreso nel verso successivo: in Manzoni l’uso dell’imperativo fa sempre riferimento all’intervento costrittivo sulle cose, definisce l’ambito concluso delle possibilità esaurite. Un posto rilevante occupano anche gli aggettivi che, grazie all’inversione o all’enjambement ( 17 in soli 27 versi) si collocano a fine o ad inizio verso: in Manzoni l’aggettivazione è una costante operazione di carattere qualificativo nel senso che intende imprimere una scelta di carattere morale, una definizione di positivo o di negativo senza possibilità di diversa interpretazione. In Manzoni l’aggettivo, fortemente caricato di intenzioni impositive e costrittive, costituisce l’ultimo anello di una stilizzazione tutta rivolta a definire un ambito di discorso interamente calcolato, definito, dove tutto è accaduto per sempre. Adelchi prega suo padre di non pensare alla sua sorte, ma di concentrarsi solo sulla sua condizione di prigioniero: l’allitterazione “ vivrai, vissuto” scandisce splendidamente il passaggio, per Desiderio, dalla vita regale sino ad allora condotta e il futuro da prigioniero che lo attende( si noti che “preso” è posto a chiusura di verso e in enjambement). Le riflessioni che seguiranno saranno caratterizzate da un pessimismo cupo, ma che vuole essere di consolazione al padre: l’emistichio è dominato dall’inversione( gran segreto è la vita) e da un ritmo anapestico e prelude all’affermazione successiva cioè che solo quando si avvicina l’ora della morte si comprende il grande mistero che è la vita. Perdere il regno non deve essere motivo di dolore o di tristezza, perché solo in punto di morte Desiderio capirà che gli anni senza comando saranno stati i più lieti per lui, perché neppure una lacrima, che per causa sua sia stata sparsa, sarà registrata in cielo contro di lui, né il suo nome vi sarà salito con le imprecazioni della gente da lui tormentata. L’iperbato( giocondi…anni) sembra quasi accompagnare la riflessione che Desiderio dovrà fare in punto di morte, mentre gli enjambement legano strettamente tra loro i versi. La ripetizione dell’imperativo “godi” sembra rafforzare la convinzione dello stato di grazia che conoscerà Desiderio lontano dagli affanni del potere, tanto più che non c’è nessuna strada aperta per chi vuole agire, non c’è posto per un’azione nobile o innocente e l’unica soluzione è fare del male o subirlo. La iunctura allitterante(feroce/forza), impreziosita dall’enjambement, conferisce all’aggettivo un rilievo particolare: Manzoni riscatta in termini cattolici il suo eroe “ problematico”, trasformando il tormento dell’aristocratica “anima bella” in una fuga dal mondo verso la pace consolatrice di Dio. Adelchi morente enuncia una visione del mondo radicalmente pessimistica: la storia è dominata dalla violenza e dall’ingiustizia, ed è impossibile agire per contrastare il male senza compiere altro male. Però la condizione del potente, colui che ha maggior peso nella storia, ed è costretto dalla logica della realtà a seminare sofferenze e ingiustizie, è totalmente negativa. Ancora un’inversione per spostare in ultima sede un aggettivo, in un verso dal caratteristico andamento dattilico: la mano “ insanguinata” dei primi Longobardi invasori ha seminato l’ingiustizia e non si può raccogliere un frutto diverso da quello che si è seminato. Quanto all’aggettivo “iniqui” bisogna dire che può essere sia predicativo del soggetto che dell’oggetto: nel primo caso intenderemo” governare ricorrendo alla forza”, come pare più probabile, nel secondo caso “ governare uomini iniqui”. Adelchi sa bene che suo padre comprende, per esperienza, le sue parole e che seppure fosse dolce governare con la forza, tutto dovrebbe finire comunque nella morte. Persino Carlo che fonda sulla sua morte un potere più solido, che in questo momento è ben voluto dalla sorte, osannato e servito da tutti come vincitore, persino lui dovrà morire e non potrà sfuggire il suo destino. Si noti come l’anafora del pronome relativo dà rilievo alla figura di Carlo e crea una dicotomia tra la sua grandezza presente e il destino a cui non può sottrarsi. Se Adelchi rappresenta l’impossibilità di agire nella storia, e proclama le ragioni ideali di questa rinuncia, l’essenza stessa di Carlo è il realismo dell’agire politico, Carlo non ha mai né problemi né esitazioni dinanzi all’agire; è convinto che l’interesse del regno giustifichi ogni azione, anche quelle che provocano sofferenze e ingiustizie, ma soprattutto è convinto di essere il “ campione di Dio”, l’esecutore delle sue volontà sulla terra, e di essere chiamato da Dio stesso alla missione di invadere l’Italia per salvare il Papa. In realtà le parole che rivolge ai suoi soldati, magnificando la preda che li attende in Italia, rivelano come sia spinto essenzialmente dal desiderio di conquista e di potenza. Nonostante questa demistificazione del potere e della forza che si ammantano di ragioni ideali, nell’economia complessiva dell’opera, Carlo non appare come un personaggio negativo. Nel Discorso che accompagna la tragedia, Manzoni osserva che tutti coloro che agiscono nella storia sono inevitabilmente spinti da interessi privati di dominio. Visto che il bene assolutamente non esiste, bisogna adottare un altro criterio per giudicare le azioni politiche: vedere se quelle azioni, perseguendo altri fini, tendano anche ad alleviarle le sofferenze delle masse che ne subiscono le conseguenze, oppure tendano ad aumentarle. Carlo, anche se è colui che ripudia Ermengarda e la condanna a morire di dolore, che distrugge il regno dei Longobardi approfittando cinicamente del tradimento dei duchi, che impone il suo dominio sui Latini sostituendosi ai Longobardi, è pur sempre il grande imperatore con cui camminano la storia e la civiltà, colui che restaurerà l’impero romano chiamandolo “sacro” e piegando il potere politico all’ossequio verso la Chiesa: di qui deriva quel carattere sostanzialmente positivo del personaggio. L’azione politica, anche se non obbedisce a ragioni ideali e disinteressate, ma alla legge del realismo e all’affermazione di potenza, viene accettata e, in una certa misura, riscattata all’interno del disegno provvidenziale visto che ne possono scaturire effetti positivi nel corso della storia.  Ne risulta che la storia non è dominata dalla logica feroce della forza e della sopraffazione, come appare dalle parole di Adelchi morente, e che non è impossibile agire politicamente per attenuare il male del mondo. Prescindendo dal protagonista Adelchi, il nucleo centrale della tragedia non è la negazione totale della storia, ma quell’accettazione condizionata che tornerà poi accentuata e approfondita nel romanzo. La tragedia non riesce a soddisfare pienamente Manzoni che anzi non è contento dei suoi personaggi, come per esempio di Adelchi, di cui sottolinea il colore romanzesco, cioè sostanzialmente la falsità. Solo nel romanzo Manzoni concretizzerà a pieno i principi del moderno realismo borghese: si pensi alla profonda serietà con cui sono rappresentate le vicende quotidiane di personaggi delle classi inferiori, alla mancanza di idealizzazione dei protagonisti della vicenda, all’organico collegamento dei personaggi, della loro psicologia, del loro comportamento con il terreno storico del Seicento lombardo. L’Adelchi è più vicino, ideologicamente, ai Promessi sposi di quanto si sia soliti affermare. Con una differenza essenziale: nel romanzo i potenti che agiscono positivamente nella storia sono figure cariche di intenzioni pedagogiche ed esemplari; nell’Adelchi, invece, Manzoni è più sottilmente problematico e riesce a darci con Carlo Magno la figura singolare e complessa di un campione della fede che agisce per poco nobili interessi politici; mentre dall’altro lato un rappresentante della “rea progenie” degli oppressori, Adelchi, diviene il portatore della coscienza critica dinanzi al negativo della storia e della società.