venerdì 31 maggio 2013

L' AMORE CHE UCCIDE: la violenza contro le donne.

L' AMORE CHE UCCIDE




Carolina e Fabiana sono solo le ultime vittime dell’ennesimo efferato  episodio di violenza. Due storie diverse, due giovanissime diverse, due regioni italiane diverse, eppure due vittime della stessa violenza cieca, figlia di una mentalità maschilista e amorale.Viviamo in una società iper tecnologica, ipad, iphone, smartphone, connessioni velocissime, e-book,  passeggiamo persino nello spazio, ma siamo rimasti primitivi nei sentimenti e non abbiamo curato, con lo stesso impegno, l'evoluzione della nostra anima. La nostra società è ormai talmente incapace di educare e trasmettere valori che autorizza un gruppo di ragazzini a catturare “tecnologicamente” un momento di debolezza di una bambina per farne un’arma letale: le immagini di Carolina immesse in questa incontrollabile e impietosa rete, diventano il suo incubo, la sua umiliazione, la sua vergogna e, infine, la sua morte. E ci ritroviamo a chiederci per quale motivo i nostri figli, i nostri nipoti, gli uomini del nostro tempo non sanno proprio rispettare l’identità, la sensibilità e la personalità delle donne, perché in un attimo finiamo vittime di una gogna mediatica che non perdona, ti fagocita e ti consuma fino ad ucciderti. Anche Fabiana è la giovanissima vittima di un ragazzo adolescente, che confessa l’efferato crimine con un tale distacco da lasciare costernati persino gli inquirenti. Un rifiuto si può pagare con la vita? Qual è il senso del progresso, dei traguardi impensabili che l’uomo ha raggiunto, se nel 2013 stiamo ancora parlando di donne che muoiono per mano di uomini malati? Non siamo una società civile se i nostri figli, i nostri fratelli, i nostri mariti, i nostri compagni non sono in grado di accettare un “no”, se troppi  uomini non ci riconoscono come persone e presumono di poter prendere con la forza ciò che ritengono sia di loro proprietà. Non stiamo parlando di donne-oggetto, perché un oggetto acquistato con sacrificio si cura e si preserva,  stiamo parlando dell’invisibilità delle donne, dell’immaterialità che autorizza ogni crimine, ogni scelleratezza, ogni infamia. Abbiamo condotto lotte per ottenere un adeguato riconoscimento sociale, abbiamo lottato per il voto, per il lavoro, per difendere il nostro diritto alla maternità, ma forse, non abbiamo adeguatamente riflettuto sulla necessità che tutte queste conquiste dovevano passare attraverso un grande e  rivoluzionario cambiamento culturale! Ciò che abbiamo ottenuto è solo facciata, solo fumo se ancora gli uomini ci ammazzano quando non li amiamo più, se ci violentano nel corpo e nell'anima per sottomettere la nostra volontà. Ora ci dobbiamo fermare, perché è davvero evidente che c’è un problema grande da affrontare e risolvere, è un problema di educazione ai sentimenti, è un problema culturale e di valori fondamentali da recuperare. Riflettiamo su un dato semplice: la follia di questi uomini esplode di fronte al rifiuto, i nostri uomini non sanno gestire la possibilità che una donna non sia accondiscendente, che gli neghi ciò che chiedono. Cercando di dare risposte ai mille interrogativi che mi angosciano come madre, ma anche come insegnante,  oltre che come donna, mi sono ricordata che qualche anno fa è uscito un saggio “ I no che aiutano a crescere” di Asha Phillips in cui si sosteneva l’importanza  della prassi del rifiuto nel rapporto genitori-figli come strategia per delineare quei limiti necessari ad uno sviluppo armonico della personalità infantile ed evitare un ego autocentrato e onnipotente. Forse la risposta è drammaticamente semplice, forse spiegare questa spirale di assurda violenza e cieca follia è troppo facile: abbiamo fallito, educhiamo i nostri figli con superficialità, distrazione e poco amore, non abbiamo tempo per dire no, concediamo, riempiamo i loro vuoti affettivi ed emotivi con la tecnologia, assecondando ogni richiesta, anche quelle più improbabili, più inutili fino a fargli perdere il giusto rapporto con la realtà e poi con la vita stessa. I nostri figli non sanno, perché non glielo abbiamo insegnato, che non è possibile ottenere sempre ciò che si desidera, non è possibile calpestare gli altri per affermare se stessi e i propri  bisogni.
Questi giovani hanno agito, hanno materialmente colpito, ma li abbiamo armati noi, con la nostra incapacità di educare affettivamente i nostri ragazzi. Il padre di un baby assassino ha affermato:” Mio figlio non è un cattivo ragazzo, va bene a scuola”. E’ possibile che dobbiamo ancora capire che cultura e umanità, intelligenza, tolleranza, rispetto non sono, purtroppo, sempre consequenziali? Non abbiamo compreso, perché comprendere comporterebbe un investimento in termini di tempo che non abbiamo, che prima di riempire i nostri figli di giochi, di vacanze, di auto, di case, di soldi dobbiamo insegnargli ad amare, l’educazione affettiva è più importante di qualunque altro bene materiale! Galimberti, diversi anni fa,sul  Corriere della sera ha scritto un lungo, splendido articolo sull’”analfabetismo sentimentale” dei giovani, richiamando le istituzioni preposte alla cura e allo sviluppo dei ragazzi, a non tralasciare  questo aspetto essenziale, anzi vitale, della loro crescita. Sono passati anni dalla pubblicazione di quell’articolo, eppure ci ritroviamo ancora a parlare di giovani senza anima, senza la capacità di discernere tra il bene e il male, uomini che di “ maschio” non hanno veramente nulla. Non è da uomini uccidere una ragazzina con la propria superficialità, non è da uomini violare e usare la debolezza di una adolescente per ferirla e umiliarla, non è da uomini picchiare, abusare, bruciare viva una giovane bambina. Non è da uomini, è da vigliacchi, è da deboli, è da meschini senza cervello né cuore. Essere uomini significa amare, proteggere, accogliere, accettare, difendere fino allo stremo delle forze chi ci ha amato, chi ha condiviso con noi un pezzo di strada che non si potrà cancellare, anche quando ciò che abbiamo non è esattamente quello che desideriamo.



mercoledì 29 maggio 2013

"IL BAMBINO INVISIBILE" Un libro che consiglio




Il Bambino invisibile è un libro avvincente che racconta la storia di Manuel, un bambino di soli cinque anni che vive una esperienza forte e al di fuori di ciò che può essere per noi "normale". Un'amica mi ha consigliato di leggere questo libro e, devo dire in tutta onestà, è stata un'emozione straordinaria che ho subito voluto condividere con i miei studenti. Essere insegnante di italiano in un istituto professionale è una sfida continua, è un cercare strategie efficaci per insegnare ai ragazzi ad amare la lettura, a scoprire che tipo di soddisfazioni derivino dalle belle storie e quanta ricchezza si possa guadagnare a livello culturale, emozionale e personale. Ho chiesto ai miei alunni di leggere “ Il bambino invisibile” perché ho trovato in questa storia una carica di energia straordinaria, perché di questo racconto non mi resta la tristezza dell’ennesima storia di degrado e dolore, ma la speranza che si rinasce anche se tutto sembra dire il contrario. L’immagine del racconto impressa nella mia mente è proprio quella di un bambino che osserva entusiasta come si costruisce un aquilone e, sebbene escluso dal gruppo, sa guardare, osservare, ha il dono dell’intelligenza e può, una volta rimasto solo, costruire con estrema soddisfazione il suo aquilone!!!!! Questo passaggio mi ha fatto pensare alle tante storie difficili, di disagio, di sofferenza che nel corso degli anni ho ascoltato dai miei studenti, alle parole che a volte ho dovuto trovare per consolarli, per non farli sentire soli….ora non una parola ma una storia!!! La storia di chi ha fatto del dolore un punto di forza, di chi ha saputo non piangersi addosso, ma ha fatto della sofferenza un momento di costruzione di una vita gioiosa e aperta alla speranza. Il messaggio che resta, o che a me è rimasto, è proprio la certezza che ognuno ha infinite risorse dentro di sé per ricominciare dieci, cento, mille volte. Non credo si cancelli il dolore, ma l’immagine di questo bambino tenace, ostinato, che non ha ceduto alla vendetta e all’odio, ma ha scelto l’amore, ha scelto la positività, ha scelto di non farsi piegare da una vita che sembrava avversa e ostile e ha vinto, è di una forza straordinaria.

Non la solita storia triste, ma una storia che insegna, educa e lancia un messaggio positivo: la storia di Manuel è la storia di tutti, l’energia di Manuel è l’energia di tutti, non un uomo fuori dal comune, ma un uomo come tanti, che ha sofferto come tanti e che ha saputo usare quel potenziale straordinario che ogni uomo ha dentro di sé! Una storia di speranza, una storia di vittoria che può essere di stimolo per una riflessione sul fatto che in qualsiasi momento e quando meno ce lo aspettiamo la vita può cambiare e riservare delle grandi sorprese: a noi la scelta di lottare o di lasciarci sconfiggere senza tentare l’impensabile!
 Ho avuto il piacere di conoscere il protagonista di questa incredibile storia, in occasione di un incontro organizzato proprio per parlare di questa insolita vicenda. E’ stato un incontro emozionante, l’uomo che ci ha parlato è un uomo semplice, diretto, senza troppe sovrastrutture e ancora incredibilmente capace di emozionarsi e di emozionare. Non il solito protagonista in cerca di pietà, ma in lui ho trovato una grande dignità nel dolore e una voglia di vivere coinvolgente. Mi piacerebbe davvero invitare a leggere questo libro semplice nella struttura, limpido nella forma e denso nei sentimenti, che fa riflettere a qualunque età: possono riflettere i giovani su quanto siano fortunati ad avere un tetto, delle persone che si curano di loro e gli garantiscono un futuro, ma anche i genitori perché ricordino il ruolo fondamentale che hanno nella vita dei propri figli e la responsabilità di assicurare ai propri figli amore, amore, amore come mamma Isabel. Infine possono leggerlo gli educatori, tutti coloro che aiutano i giovani a crescere affinché ricordino l’importanza del ruolo che rivestono e il compito di “ vedere” le persone che hanno di fronte ogni giorno. Il prossimo autunno Manuel Antonio Bragonzi incontrerà i miei studenti e so che ci regalerà nuove emozioni!

domenica 26 maggio 2013

IL BANCHETTO NELL'ANTICA GRECIA


Già nella società omerica, la mensa del banchetto era il centro dell'istituzione sociale; nella Grecia classica, i banchetti pubblici riunivano i cittadini attorno a interessi comuni e favorivano la gestione democratica degli affari; nella società spartana era obbligatoria, in base alla codificazione di Licurgo, la partecipazione degli uomini a pasti comuni .Dalla socialità conviviale (oltre che da quella simposiaca) erano comunque escluse le donne e i bambini, essendovi ammesse solo le etere che godevano di un particolare status.I banchetti tra amici avevano per i greci grande importanza; potevano essere offerti da uno di loro oppure indetti dai componenti di un tiaso che ne condividevano le spese. Spesso i convitati portavano con sé una canestro di vimini contenente dei cibi pronti, lo spyris che, in tante pitture vascolari, fa bella mostra di sé, appeso al muro, insieme al nodoso bastone da passeggio e al sybène, l'astuccio per aulòs. Questi banchetti erano perciò detti apò spyrìdos, cioè alla cesta, un'espressione che oggi possiamo tradurre con al sacco.Una volta riuniti a casa dell'ospite, i convitati si toglievano i sandali, si facevano lavare i piedi dagli schiavi e, dopo essersi posti sul capo corone di fiori o di foglie, si disponevano a due a due sui letti collocati attorno alle rispettive mense.Il banchetto si componeva di due parti: la prima (detta pròtai tràpezai = prime tavole), coincideva all'incirca col tramonto ed era il pasto vero e proprio, all'inizio del quale si faceva passare tra i convitati, che vi bevevano a turno, una coppa di vino. Il banchetto si teneva nell'arco di tempo in cui solitamente si consumava il pasto principale della giornata (gr. deípnon; lat. coena), tra il pomeriggio e il tramonto del sole. Col nome di banchetto o convito, s'intende, se ci si riferisce all'antichità classica, la forma più complessa e ricca del pasto comune; esso occupava una non piccola parte della giornata; non era esclusivamente sede di baldoria, ma modo usuale di convegno e di ricevimento, periodo di riposo dopo le faccende della giornata, occasione d'informarsi, di conversare, di discutere. Nell'età omerica il pasto principale è posto a metà della giornata; la colazione della mattina (ἄριστον) e lo spuntino serale (δόρπον) si consumano senz'alcun apparato, fornendosi dalla dispensiera (ταμίη) di quel poco che è necessario a una breve refezione. Il pasto principale, se ha un carattere più modesto (δεῖπνον), è apprestato dalle ancelle (Od., XV, 93-4); quando invece s'intende che abbia maggior consistenza e apparato (δαΐς), è servito da schiavi, talvolta da araldi. I commensali sono riuniti nella stanza principale del palazzo (μέγαρον), nella quale abitualmente stanno gli uomini, e i preparativi si fanno o nel μέγαρον stesso o nella corte (αὐλή) che vi dà accesso e dove gli animali sono uccisi e cotti. Gli animali che servono da cibo sono buoi, pecore, capre e porci. Il pollame non appare ancora conosciuto. Modo usuale di cottura è l'arrosto (un'allusione al lesso si ha in un'immagine dell'Il., 362-364). Prima dell'inizio del banchetto gli intervenuti si lavano le mani con l'acqua versata da ancelle o da araldi; un'abluzione simile avveniva alla fine del banchetto; tale abluzione non era suggerita soltanto da evidenti ragioni di pulizia personale, ma anche da quel carattere sacrale che ebbe il banchetto primitivo e di cui si conservarono tracce in tutta l'antichità. L'ospite che giunge da lontano, prima di essere introdotto nella sala del banchetto, è condotto a fare il bagno (Od., IV, 38-40, VIII, 424 segg. e passim).I commensali stavano seduti davanti a una piccola tavola (v. fig. 1; e cfr. Od., XXII, 19-21, 74) sulla quale venivano deposti i cibi e le coppe. Talvolta, invece, si facevano sedere i commensali davanti a un'unica tavola, naturalmente più grande (Il., IX, 216); ma anche in questo caso ciascuno aveva innanzi a sé porzioni separate. Non appartiene all'età omerica l'uso di cenare sdraiati, né d'incoronarsi durante il banchetto. Sulla piccola tavola individuale o sulla grande tavola in comune i servi, o gli araldi, o l'ospite stesso distribuivano a ciascuno dei commensali il pane, entro un cestino (κάνεον), e, su piatti (πίνακες), le carni già prima preparate dallo scalco (δαιτρός). Le donne non partecipavano al convito, ma v'intervenivano a farvi gli onori di casa, purché fosse presente il marito, come fa Elena a Sparta nella reggia di Menelao (Od., IV, 216 segg.) ed Arete, moglie di Alcinoo, nell'isola dei Feaci (Od., VII, 136-141; 231); al contrario Penelope, nell'assenza del marito compare solo raramente, accompagnata da ancelle e con i veli abbassati sul volto (Od., XVI, 413-416) sulla soglia del μέγαρον, dove i Proci stanno banchettando. Oltre al convito, che risponde al desiderio di riunirsi con i familiari e alle esigenze dell'ospitalità, troviamo menzionati in Omero:
1. il banchetto solenne che segue il sacrificio (Il., I, 458-474);
2. il banchetto nuziale celebrato fastosamente, con larghi inviti, canti, suoni (lira o flauto) e spettacoli di giuochi d'acrobazia;
3. il banchetto funebre (Il., XXIII, 29; XXIV, 802), prima o dopo la cremazione del cadavere, che può esser seguito da una gara agonistica;
4. il banchetto fra ἑταῖροι, cioè fra uomini appartenenti a uno stesso sodalizio (ἑταιρία) e uniti, in pace e in guerra, da vincoli di solidarietà.
Questa forma d'organizzazione, che in Omero appare propria della nobiltà, imponeva periodici banchetti nei quali gli intervenuti conducevano i figli maschi. L'essere esclusi o tollerati in tali riunioni significava non essere trattati da pari a pari dalla nobiltà del luogo (Il., XXII, 492; Od., XI, 185-187).Nell'età storica i costumi conviviali greci appaiono profondamente cambiati. Ci mancano gli elementi per una compiuta ricostruzione di tali usi che permetta di tener conto, per ciò che concerne il banchetto, della diversità di tempo, di luogo e di stirpi. Per giunta nell'età romana il banchetto romano e il greco si andarono uniformando, per cui le copiose informazioni che in questo periodo gli scrittori greci, e particolarmente Plutarco, ci forniscono sull'argomento, non possono servire a stabilire con sicurezza differenze fra il convito greco e il romano. I Greci dell'età classica pranzano stando sdraiati; i commensali di uno stesso letto talvolta si volgono le spalle, altre volte son posti l'uno di seguito all'altro. Le suonatrici stanno o in piedi (fig. 4), o sui letti degli uomini ora sdraiate, ora sedute . Si mangia, al solito, con le dita; raro il coltello, men raro il cucchiaio (μύστρον, μυστίλη). Va notato come greco, l'uso di pulirsi le mani, invece che con salviette, con pallottole di mollica di pane (ἀπομαγδαλίαι), che si gettavano ai cani. Il pasto maggiore (δεῖπνον) si fa la sera: semplici refezioni son quelle della mattina (ἀκράτισμα) e del mezzogiorno. Biasimevole raffinatezza è considerato il far due pasti forti nella giornata. Il tenore della vita greca nell'età classica e tra i Greci della madre patria generalmente è modesto; frugalissimo è il vitto anche presso i popoli tra i quali non vi è, come fra i Dori, l'obbligo del pasto in comune (συσσίτια), garanzia severa di sobrietà. Insolito risalto ha ,quindi, il convito che interrompe la quotidiana abitudine di un pasto modesto in famiglia e senza apparato; ne è occasione, come sempre, o un avvenimento importante che si suole solennizzare con il banchetto, o la consuetudine di riunioni periodiche fra amici; in quest'ultimo caso, ognuno contribuisce per la sua parte (ἀπὸ συμβολῶν o anche ἀπὸ σπυρίδος, dal panierino che i commensali portavano con sé e che talvolta vediamo rappresentato appeso alla parete. Anche in ciò che concerne il banchetto sembra a noi moderni che spiri quell'aria provinciale e borghese, caratteristica della vita privata greca, e a cui dà risalto, con il confronto, la signorile larghezza dei Romani. Agli ospiti gli schiavi di casa tolgono i calzari  e lavano i piedi facendoli poi adagiare nei letti (κλῖναι) secondo l'ordine predisposto dal padrone, di regola due per ogni letto (non tre come presso i Romani); quindi viene offerta l'acqua per l'abluzione alle mani, si avvicinano le tavole una per ogni letto e il banchetto comincia. Il convito greco constava di due momenti: il δεῖπνον e le δεύτεραι cioè il dessert; solo nell'età imperiale s'introdusse l'uso romano dell'antipasto. Terminato il δεῖπνον si facevano abluzioni e s'invocava l'ἀγαϑὸς δαίμων, libando vino puro; dopo di che venivano cambiate le tavole. Il dessert era formato di seccumi, cacio, sale, cibi atti a eccitar la sete; si usava anche leccare delle gallette salate (ἐπίπαστα λείχειν).Col dessert aveva principio il simposio(συμπόσιον).Gl'intervenuti, coronatisi di fiori e cosparsi di abbondante unguento, eleggevano con i dadi o per acclamazione il re del simposio (ἄρχων, βασιλεύς), secondo le cui ingiunzioni si beveva. Normalmente la preparazione dei crateri e le libazioni si facevano a suon di flauto  e bruciando incenso. Oltre alla conversazione, intramezzata da libazioni e da brindisi, allietavano il simposio i canti (σκόλια; anche il peana fu in origine un canto simposiaco), o la recitazione di antichi poeti per lunga tradizione accetti ai simposî; qualche volta si assisteva a spettacoli di equilibrio e di acrobazia (Senof., Symp., II, 7 segg.). Vi era anche l'uso di giocare, non esclusi i giuochi d'azzardo; di gran voga fu per secoli (VI-III a. C.) un giuoco d'abilità, detto il cottabo (κότταβος: cottabo).I preparativi per la lussuosa imbandigione del banchetto affaccendano molti servi; sono cucinate le carni del bue, del capretto, della lepre, del pollame e della cacciagione. Il carattere rituale del banchetto appare dalla presenza del flautista. Anche il pane è impastato a suon di flauto (cfr. Alcimo, in Ateneo, XII, p. 518 b).

COME SI PRESENTAVANO I PIATTI.

A partire dal secondo secolo a.C. si usava servire pietanze artisticamente impiattate su preziosi vassoi di argento. Le pesanti portate arrivavano sorrette a volte da più schiavi che le appoggiavano su elegantissimi supporti mobili, sostegni che venivano sistemati dopo che tutti i commensali avevano preso posto e venivano rapidamente tolti alla fine del banchetto. A volte nelle case ricche ve ne erano diversi, ognuno disegnato e creato per uno speciale vassoio, così che li si cambiava ad ogni portata. Si trattava generalmente di oggetti di valore, costruiti con legni rari ed intarsiati di avorio. Alcuni erano addirittura in argento come alcuni bellissimi sostegni di vassoi che si vedono rappresentati negli affreschi dell'epoca. Vediamo infatti la descrizione del vassoio che appare nel Satiricon, mirabolante e con un coperchio emisferico che veniva tolto per rivelare una complessa presentazione. E questo vassoio descritto da Petronio non è soltanto un invenzione: oggetti del genere esistevano nel mondo romano. Uno simile è persino affrescato sulle pareti di un piccolo triclinio della villa di Oplontis. Se si tiene a mente che negli affreschi pompeiani si usava rappresentare gli oggetti più preziosi della famiglia, si realizza che probabilmente esso faceva parte della suppellettile della casa. Nella presentazione di questo vassoio che si trova nel Satiricon, il trionfo centrale, circondato da pollastre ed altre delicatezze, era costituito da una lepre guarnita di ali in modo da rappresentare Pegaso, il mitologico cavallo alato. Attorno a questa parte centrale vi era poi una canaletta nella quale erano stati impiattati pesci che sembrava nuotassero nella salsa. Altri modi di impiattare spettacolari, consistevano nel portare a tavola animali cucinati interi: grossi pesci, cinghiali, maiali e persino vitelli. Dato che la gente mangiava con le dita e non aveva posate essi andavano tagliati a pezzi di dimensioni possibili. Per questo esistevano gli scalchi, servitori che seguivano speciali scuole, come quella tenuta alla Suburra da un tal Trifero. Era da lui che essi venivano addestrati su come tagliare in modo perfetto e rapido qualsiasi arrosto. Essi, travestiti a volte da personaggi mitologici, venivano al seguito del vassoio, e si scagliavano sull'animale da affettare come se fosse un pericoloso nemico, facendo dell'operazione di dividerlo in pezzi uno spettacolo. Ormai qualsiasi portata veniva presentata con molta ricercatezza. Anche i pasticceri ricorrevano a presentazioni spettacolari per i loro dolci. Nel banchetto di Trimalcione il dessert è addirittura una statua di pasta dolce rappresentante Priapo mentre sorregge nel grembo della veste ogni genere di frutta, un tipo questo molto frequente nella statuaria. Tutto questo naturalmente non era limitato al banchetto di Trimalcione. Anche se in esso tutto è forzato e caricaturato per poter far ridere il lettore, il tipo di presentazione dei cibi doveva comunque esser simile a quello descritto da Petronio e queste portate dovevano far parte di molti banchetti compreso quello imperiale. Ormai in tutte le case quando si offriva una cena si seguiva il tipico schema del banchetto romano che partiva dalle uova sode, passava attraverso gli antipasti più complicati, gli arrosti più saporiti ed approdava infine ai dolci, alla frutta, ai fiori ed ai profumi distribuiti durante il simposio. Dopo la cena c’era poi il dopo cena, quel simposio che ha sempre fatto parte di tutti i banchetti dell'antichità. A Roma era molto più morigerato di quello dell'epoca d'oro greca. Ma questo era da prevedersi, in quanto ai banchetti romani, a differenza di quelli greci, partecipavano spesso mogli e figlie dei convitati e quindi bisognava comportarsi bene. Lo spettacolo più spinto che poteva aver luogo nella riunione romana era quello che veniva offerto dalle ballerine gaditane, graziose fanciulle spagnole che danzavano agitando i fianchi a suon di nacchere mentre attorno a loro tutti battevano ritmicamente le mani, più o meno come si fa ancor oggi in Andalusia. Anche se ogni tanto qualche poeta le criticava trovandole troppo spinte non sembra che le povere figliole offrissero ragione di scandalo e, infatti, pare che molti mariti vi assistessero con a fianco le proprie spose. Per il resto si chiacchierava e si beveva secondo uno speciale cerimoniale. I vini che venivano serviti erano ormai squisiti. I Romani potevano permetterselo perché erano senza discussione i padroni del mondo. I migliori erano sempre quelli che si importavano dalla Grecia, ma ormai anche in Italia se ne produceva di eccellenti. Li elencano i poeti quando descrivono i lunghi dopo cena romani. Anche a Roma come ad Atene si eleggeva uno dei convitati che dirigesse il simposio: in latino egli veniva chiamato magister bibendi , ossia "direttore del bere" e dava disposizioni sul come si dovesse preparare la mistura di vino ed acqua decidendo poi a chi bisognasse brindare. Ciò voleva anche dire che egli finiva con lo stabilire quanto si dovesse bere: infatti quando i Romani brindavano alla salute di qualcuno tracannavano tante coppette quante erano le lettere che componevano il nome del festeggiato ed i nomi romani era particolarmente lunghi. Grazie al cielo il vino era solitamente molto diluito: si usava mettere tre parti di acqua per una di vino. D'inverno si aggiungeva acqua bollente e, a volte, per averla sempre pronta si usavano interessanti bollitori che funzionavano con lo stesso sistema dei samovar russi. D'estate il vino veniva invece allungato con la neve raccolta d'inverno sulle cime dei monti ed immagazzinata in depositi sotterranei dove, coperta di paglia, si conservava per tutta l’estate. I più belli tra questi depositi sono quelli principeschi di Villa Adriana, che, scavati nel tufo, sono costituiti da una serie di gallerie messe ortogonalmente a quinconce ai lati di un canale di servizio. Questo ha un fondo a sezione concava ed un'inclinazione verso settentrione necessaria per il deflusso dell'acqua di fusione. La neve, una volta immagazzinata e ben stivata nei bracci laterali, veniva sigillata con paglia e fieno. Dato che si intaccava un braccio per volta, gli altri lasciati chiusi ed intatti potevano durare moltissimo, soprattutto perché l'intonaco, che rivestiva questi speciali depositi, era leggerissimo, e formava una sorta di enorme thermos nel quale la neve si conservava bene. Nell'antica Roma se ne usava molta: essa serviva per preparare speciali piatti ghiacciati; per confezionare sorbetti e, quando d'estate il sole faceva riscaldare l'acqua nelle piscine delle terme, era sempre con la neve che la si faceva freddare. Ma l'uso più diffuso era, come sempre, quello di far gelare le bibite durante il periodo caldo. In quella stagione non c'era triclinio e cena elegante che ne facessero a meno e con vino ghiacciato si chiudeva il banchetto estivo. Era quasi sempre buio quando i convitati sazi e leggermente brilli salutavano il loro ospite. Quasi sempre la cena prendeva fine al tramonto, ma quando ci si avviava al tetto domestico si aveva spesso bisogno di torce o di lanterne e, quando non si era ricchi ed accompagnati da forti ed atletici schiavi, bisognava pregare tutti gli dei di esser salvati dai cattivi incontri: le strade erano piene di banditi e di rissosi ubriaconi. Era fortunato colui che riusciva ad arrivare sano e salvo al proprio letto. A volte però era proprio a casa che iniziava la battaglia. Qui ad attendere l'amato compagno vi era spesso una moglie od un'amante: comunque una donna amareggiata che si sentiva offesa e che pensava di esser stata abbandonata e trascurata.


LE DONNE E IL BANCHETTO


Non tutte le donne partecipavano alle allegre cene Greche e a quelle di famiglia era addirittura proibito porre piede nel grande salone destinato ai festini maschili: l'andron, ossia "l'appartamento degli uomini", posto vicino all'ingresso. Alcune etere furono famose. Erano donne belle, intelligenti ed istruitissime. Esse infatti seguivano anche le scuole dei filosofi celebri e, dormendo con essi, finivano con l'avere anche un ottimo doposcuola. A volte esse si legavano con un contratto a tempo determinato a qualche ricco gaudente: si impegnavano così ad accompagnarlo per un certo numero di anni a tutti i banchetti e, sempre per lo stesso periodo, si astenevano dall'avere relazioni con altri uomini. Sia per questi impegni a lunga scadenza, sia per le prestazioni occasionali le loro tariffe erano altissime e una volta raggiunta l'età matura e, con essa, la chiusura della loro carriera attiva, diventavano pie donne, dedite alla religione ed arricchivano i templi con i loro voti, statue e donazioni. Le etere in pose e situazioni spinte compaiono spesso nelle scene di banchetto rappresentate sulla ceramica greca. Si trattava ovviamente di suppellettili da simposio, sempre scollacciata e suggestiva in quanto destinata a quelle riunioni per uomini soli nelle quali donne di quel tipo coprivano logicamente una parte di primo piano. Dato però questo loro ruolo è chiaro che al banchetto greco non potessero intervenire le altre donne, quelle per bene: mogli, figlie, sorelle e madri. Queste partecipavano esclusivamente alle cene di famiglia che venivano apparecchiate nelle parti più intime della casa. Durante questi pasti familiari gli uomini non stavano più come nell'andron nudi con soltanto un leggero drappo posto a velare la parte inferiore del loro corpo, ma si sdraiavano sul letto tricliniare correttamente vestiti di tutto punto, mentre le loro donne prendevano posto su seggiole. Cenare seduti era segno di sottomissione e lo facevano tutti i sottoposti. Quindi sedeva la donna che era legittima proprietà del maschio dominante ed oltre a lei sedevano anche tutti gli inferiori. A questo modo cenavano i ragazzi anche se di famiglie di ceto elevatissimo e non soltanto questi: in Macedonia un uomo non poteva mangiare sdraiato fino a che non avesse infilzato con la sua lancia e senza l'aiuto di reti o di trappole un cinghiale selvaggio e probabilmente inferocito. Perciò all'età di 35 anni Cassandro, un cacciatore, che pur essendo bravo e coraggioso non era ai riuscito ad infilzare con una lancia il suo cinghiale, mangiava ancora su una seggiola. 

IL VINO E IL SIMPOSIO

Bevanda di elezione del banchetto antico in epoca classica era naturalmente il vino. Euripide nella sua Bacchica scriveva "Il vino, antidoto di ogni dolore, venne donato ai mortali: senza vino l'amore non vive ed ogni altra gioia muore". Tutti gli altri poeti annuivano limitandosi a suggerire una certa moderazione perché, come diceva Antifane "Se un uomo beve continuamente si istupidisce. Solo se beve moderatamente si riempie di nuove idee”. Anticamente si pensava che il vino andasse sempre diluito perché puro avrebbe portato alla distruzione del corpo. Nonostante questo c'era chi lo beveva così e ne beveva anche molto. Alessandro Magno, ad esempio, lo aveva sempre fatto ed era uso ad esagerare. Si sussurrava, anzi, che questa fosse la ragione di quella sua frigidità che sempre tanto aveva preoccupato i suoi genitori, ma che non doveva poi essere tanto terribile visto che nelle sue campagne si era sempre portato appresso la famosa Thais e con quello che un'etera di lusso costava a quell'epoca doveva pur in qualche modo sfruttarla. Sempre per il vino puro si diceva che fosse impazzito Cleomene, lo Spartano il quale, essendo vissuto molto con gli Sciti, aveva da loro presa l'abitudine di berlo così. Questa abitudine degli Sciti era tanto nota nell'antichità che i Greci con "bere alla scita" indicavano il bere vino puro ed a questo attribuivano ogni male. Perciò tutti lo bevevano annacquato. Quando si doveva annacquare il vino si usava prima mettere l'acqua e poi aggiungere il vino (Xenofane, Anacreonte, ecc.). Nella sala del triclinio vi era sempre una tavola sulla quale veniva disposta tutta la suppellettile del simposio: le brocche per il vino dette oinochoe, quelle per l'acqua, gli attingitoi, i misurini, le coppe ed il grande recipiente nel quale si preparava la mistura. Questi corredi per il simposio erano a volte ricchissimi e foggiati in materiale prezioso. Le proporzioni nelle quali bisognava mescolare l'acqua con il vino venivano stabilite volta per volta da uno dei convitati eletto dai suoi commensali alla carica di simposiarca. Questo direttore del simposio fissava anche il numero e la modalità dei brindisi. Le diluizioni preferite, dopo aver scartato quella metà acqua e metà vino, che era ancora giudicata pericolosa per la salute, erano quelle che venivano chiamate a cinque ed a tre. La proporzione di cinque era formata da tre parti d'acqua e due di vino; quella a tre era invece formata di due parti di acqua per una di vino. Esisteva anche quella a quattro, ma questa mistura, molto annacquata, veniva da Plutarco definita come buona soltanto per saggi magistrati. D'inverno il vino veniva diluito con acqua calda; d'estate con quella fredda. Quando faceva molto caldo si usava la neve che Simonide diceva raccolta sulle pendici dell'Olimpo. Si consigliava pure di non bere molto. Eubulo fa dire a Dioniso che le persone morigerate bevevano soltanto tre coppe: una per il brindisi, una per l'amore ed una per il sonno. A questo punto il saggio doveva terminare la serata ed andare a casa. Se restava, infatti, e continuava a bere avrebbe fatalmente scoperto che :
·         la quarta coppa apparteneva alla violenza,
·         la quinta al chiasso, la sesta all'allegria dell'ubriachezza;
·         la settima alla rissa (agli occhi neri, come si diceva in greco);
·         l'ottava al tribunale;
·         la nona all'attacco di fegato;
·         la decima alla follia ed alla distruzione del mobilio. 

Dati gli effetti su elencati che si avevano nonostante la forte diluizione, il vino prodotto a quelle epoche doveva avere una forte gradazione alcoolica. Quello che è certo è che il vino greco era considerato il migliore del mondo antico e spesso si cercò di imitarlo. Catone, Varrone e Columella e tutti gli scrittori antichi che si occuparono di agricoltura diedero ricette e consigli per "fare vino greco" il quale, pare, si ottenesse mescolando al mosto una certa quantità di acqua di mare: a quel che si diceva questo rendeva il vino più dolce. Trattato a questo modo era il Myndio, tanto che il cinico Menippo chiamava gli abitanti di Myndo, bevitori di acqua marina; c'era poi il vino di Alicarnasso ed anche quello di Coos nel quale l'aggiunta era notevole mentre meno se ne metteva in quello di Rodi. Si diceva che i vini trattati con acqua di mare non causassero mai mal di testa, fossero lassativi, ridestassero i succhi gastrici ed aiutassero la digestione. Insomma avrebbero dovuto essere un vero e proprio toccasana. Uno dei migliori vini greci era il rosso di Chio. C'era poi il Thasio che doveva essere particolarmente buono se Antidoto scriveva "Riempi la mia coppa di vino thasio, poiché non importa quale sia la cura che tortura il mio animo; quando lo bevo il mio cuore guarisce istantaneamente”. Molto quotato era il Pramnio di Lesbo. Il vino di Lesbo, secondo Archestrato, era un vino superlativo: egli poteva anche ammettere che esistessero altri vini buoni, ma affermava che nessuno di essi reggeva il suo confronto. Molto buono pare fosse anche il vino di Nasso ed Archiloco, che di vino se ne intendeva, lo paragonava al nettare. Il poeta scriveva: "Dalla mia lancia dipende il mio pane; dalla mia lancia il vino ismarico ed appoggiato alla mia lancia io lo bevo" . Di altri vini si registrano caratteristiche assurde e stravaganti. Così Teofrasto nella sua storia delle piante raccontava che ad Erea in Arcadia si produceva un vino che causava pazzia negli uomini che lo bevevano mentre metteva incinte le donne che si azzardavano a gustarlo. E’ vero che vi era poi un altro vino, il Trezenio, che teneva il posto della moderna pillola antifecondativa ed uno che faceva abortire; anzi pare che bastasse mangiare un grappolo dell'uva con la quale esso si produceva per ottenere questo effetto. A Tasos gli abitanti erano persino riusciti a produrre un vino che teneva svegli ed un altro che faceva dormire e può darsi che col potere della suggestione tutto questo funzionasse.

IL CIBO E GLI ALIMENTI

L'alimentazione del mondo ellenistico fu molto più raffinata ed elaborata di quella che ebbe vigore in un mondo ancora ristretto nei confini dei secoli precedenti. Gli ingredienti non variarono molto da quelli già in uso anche se vi poté essere l'importazione di qualche pianta o spezia proveniente dai lontani paesi raggiunti dall'esercito macedone. Quella che cambiò fu invece la gastronomia grandemente influenzata dai costumi alimentari persiani e babilonesi che da quelli della Magna Grecia dove molte città avevano raggiunto un grado di civiltà ed opulenza molto elevato. Nell'Edifagetica Archestrato, indicava quali pesci, crostacei o molluschi convenisse comprare in una data città o isola, quale fosse la migliore stagione per mangiarli e come andassero cucinati. Brevemente poi Archestrato soffermava la sua attenzione anche sui consigli in generale: sul banchetto, sul menu e soprattutto su cosa offrire con gli aperitivi o cosa dare da sgranocchiare durante gli interminabili simposi: "Incorona sempre il tuo capo con corone di ogni genere di fiore che la felice terra produce - cantava in esametri Archestrato -, ed orna i tuoi capelli con profumato unguento distillato. Durante tutto il giorno (del banchetto) spargi senza sosta mirra e incenso, frutti della olezzante Siria, sulle soffici ceneri del fuoco. Poi, mentre sorseggerai il tuo vino fatti portare questo: pancetta di maiale e matrice di scrofa bollita da immergere in una salsa di cumino, aceto e silfio. Con questo ti venga anche servita arrosto tutta la tribù degli uccelletti di stagione. Non fare come quei Siracusani che bevono come ranocchi senza mangiare niente. Non imitarli e mangia quello che ti ho detto. Tutte le altre cose che si servono col vino - ceci, fave, mele e fichi secchi - sono indice di nera miseria. Accetta soltanto quella pancetta che si fa ad Atene; o, se non la trovi e te ne portano una fatta da qualche altra parte, chiedi almeno che essa ti venga servita con un po’ di miele attico, poiché questo la renderà deliziosa”. Dopo questi preliminari Archestrato entra nel vivo del suo argomento che riguarda i prodotti del mare ed ormai nel III secolo a.C. il pesce aveva assunto un'importanza fondamentale nell'alimentazione. I nomi dei pesci che il poeta consiglia di assaggiare sono moltissimi. Certamente molti più di quelli che si possano oggi trovare su un mercato moderno per quanto ben fornito esso sia; molti saranno addirittura sconosciuti alla maggior parte dei lettori. Ad esempio la torpedine che Archestrato consiglia di mangiare stufata. Un altro pesce che affascina Archestrato è stranamente il pescecane del quale scrive un'appassionata  difesa, inoltre vanta la bontà dei bianchetti di Atene che egli consiglia di friggere misti con anemoni di mare. Loda i tranci di pesce spada ed il trancio del tonno  che si mangia alla fine della primavera e che consiglia di arrostire semplicemente in graticola con olio e sale, spruzzandolo poi con quell'aceto che noi oggi usiamo sostituire col limone. E’ interessante notare che in tutte le sue ricette Archestrato usa come condimenti soltanto olio, aceto, vino, odori freschi, erbette, semi di cumino e di sesamo e sale puro. A volte usa il silfio, ma moderatamente e non impiega mai il garum.

“IL GALATEO” DEL BANCHETTO

Nel periodo immediatamente successivo al VI secolo che la mensa subisce una vera e propria rivoluzione e nasce quella che sarà poi la forma tradizionale della cena classica: i clinai divengono lussuosi, i materassi e cuscini morbidi, i drappi per coprirli eleganti. La suppellettile che si ritrova nelle tombe è spesso ricca e preziosa e nei musei si ammirano le graziose fialette per i profumi che venivano offerti ai convitati nel corso di tutti i banchetti compreso quello eterno della morte e troviamo quelle corone conviviali foggiate con l'immortale oro che nella realtà della vita quotidiana erano più spesso intrecciate con corolle profumate. Nel banchetto erano ammesse volgarità e comportamenti mai esistiti in epoca omerica. Ad esempio, come nota anche Ateneo, ogni qual volta durante le antiche cene nasceva un disaccordo tra gli eroi di Omero, essi si scagliavano l'uno contro l'altro come tigri e fra loro nascevano liti furiose, ma la scena non degenerava mai nello scurrile: quei colossi cercavano al massimo di ammazzarsi tra loro, astenendosi correttamente da atti volgari e di cattivo gusto come quelli che in epoche posteriori verranno loro attribuiti dagli scrittori del V sec. a.C., incidenti che a questi dovevano sembrare normali dato che chi li riferiva doveva avervi frequentemente assistito. Così Eschilo in una commedia satirica, attribuendo i costumi della sua epoca agli eroi omerici riuniti a cenare, li immagina talmente ubriachi da cominciare a rompersi sulla testa i loro vasi da notte. Sofocle anche lui si compiace nel descrivere una simile scena e nel Commensale Acheo scrive " Ma in un attacco d'ira mi gettò il maleodorante vaso e non mancò il bersaglio!". Questo nei poemi omerici non capita mai: persino quando gli scostumatissimi Proci ubbriachi fradici si infuriano con Ulisse, l'unica cosa che gli scagliano contro è un piede di bue. Non c'è dubbio che, se i Proci avessero avuto il costume di portarsi a cena i vasi da notte, li avrebbero usati e magari con entusiasmo, ma evidentemente a quei tempi questo non si faceva ancora. Non c'è però dubbio alcuno che nel V sec. a.C. questi utili, ma certamente poco profumati recipienti, erano divenuti un accessorio indispensabile della mensa. Alla domanda di Eupolis che si chiede "Chi fu per primo colui che a metà del simposio gridò "Ragazzo! Portami il vaso da notte!" non si può rispondere altro che fu certamente un contemporaneo di Sofocle e che, sfortunatamente, questo tale riuscì a lanciare una moda. Nella ceramica dell'epoca troviamo persino la rappresentazione di questi recipienti e su una coppa viene presentato un tale che ad un banchetto soddisfa i suoi bisogni adoperando l'apposito arnese: un recipiente di forma particolare. Una bella flautista, praticamente nuda sotto il drappo che veniva usato quando ci si sdraiava sul letto tricliniare per coprire la parte inferiore del corpo, si appoggia a lui suonando un gaio motivo conviviale e non sembra affatto interessata o scandalizzata dalla scena. L'usanza del vaso da notte passò poi nel resto del mondo classico greco e romano e continuò fin nelle epoche più tarde interrotta soltanto dal raffinatissimo Adriano che risolse il problema circondando i suoi triclini di eleganti latrine individuali, mantenute scrupolosamente pulite dall'acqua che vi scorreva in continuazione. Ma anche il geniale imperatore non poté far scomparire l'uso di questi utili ma indecenti arnesi e dopo di lui i vasi da notte ripresero trionfalmente il loro posto nelle cene eleganti.Naturalmente per queste riunioni gli artigiani dell'epoca crearono recipienti molto eleganti ed in metalli preziosi. Ci fu chi se li fece foggiare in onice ed Eliogabalo arrivò persino ad usare per essi la murrina, la misteriosa pietra dura nella quale si intagliavano le preziosissime e costosissime coppe murrine: tutti materiali che sembrano davvero sprecati per tale uso anche se si capisce che, dovendo usarli in pubblico, la gente preferisse vasi da notte speciali e, per così dire, da parata. E’ probabile che di materiale prezioso venissero  fatti soltanto quelli destinati agli uomini e quindi quelli che venivano usati anche durante il banchetto. Infatti non vi fu mai bisogno di particolare eleganza per gli scaphia a forma di barchetta destinati alle donne: essi non venivano mostrati coram populo o almeno non lo furono nel mondo greco dove mogli e figlie non parteciparono mai alla cena con estranei.





sabato 25 maggio 2013

"Quando i Professori impazziscono" : sindrome da burnout o logorio da insegnamento.


Vi sentite frustrati, demoralizzati e stanchi del vostro lavoro? Un tempo lo si chiamava esaurimento, ma nuovi studi hanno individuato un nuovo nome, moderno ma allo stesso tempo inquietante, che ricorda un fiammifero consumato dalla fiamma: 'burnout', bruciarsi.La sindrome del burnout è una condizione caratterizzata da affaticamento fisico ed emotivo,emicrania,insonnia ansia, irritabilità, rapporti interpersonali.La sindrome colpisce le persone che esercitano professioni d'aiuto (medici, infermieri, poliziotti, educatori) che non riescono a sopportare i carichi eccessivi di stress che il loro lavoro porta ad assumere.Se non opportunamente trattati, questi soggetti sviluppano un lento processo di 'logoramento' o 'decadenza' psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato.Il soggetto colpito da burnout si assenta spesso dall'ambiente lavorativo e lavora senza entusiasmo; la sua frustrazione si trasforma in una ridotta empatia nei confronti delle persone delle quali dovrebbe occuparsi e spesso trova una valvola di sfogo nell'abuso di alcol e di droghe.


Tra le categorie più esposte al burnout c'è quella degli insegnanti. Al di là degli stereotipi che li descrivono come privilegiati o - nel peggiore di casi - come fannulloni, maestre e professori sono soggetti a una frequenza di patologie psichiatriche due volte superiore a quella degli altri impiegati.La natura della loro professione li costringe infatti a un costante rapporto interpersonale in situazioni spesso delicate e difficili: in poche parole, con il proprio lavoro l'insegnante mette quotidianamente in discussione se stesso.Recenti studi hanno confermato che la categoria degli insegnanti è sottoposta a numerosi stress dovuti al rapporto costante con studenti e genitoriclassi troppo numerose, situazione di precariatoconflittualità tra colleghi, disorganizzazioneindisciplina degli studenti.Oltre a questi fattori 'classici', il burnout da insegnamento subisce l'influsso delle nuove problematiche socio-culturali, come l'avvento dell'informatica (che costringe molti insegnanti a dover imparare ad usare nuovi strumenti - quali Internet e il computer - e li fa sentire spesso in condizioni di inferiorità rispetto ai propri allievi) e di una società multietnica, la totale delega educativa da parte di famiglie sempre meno presenti nella vita dei ragazzi, le continue riforme istituzionali, lo scarso prestigio del ruolo d'insegnante (collegato alla bassa retribuzione e quindi a una considerazione sociale in declino).


La sindrome si manifesta generalmente seguendo quattro fasi: la prima è quella 'dell'entusiasmo idealistico'; nella seconda ci si rende conto di come le sue aspettative non coincidano con la realtà lavorativa; nella terza fase subentrano la frustrazione e sentimenti di inutilità, inadeguatezza e insoddisfazione; la quarta fase coincide con l'apatia, l'indifferenza e lo spegnersi dell'interesse e la passione per il proprio lavoro.Per difendersi dalla sindrome da burnout - che spesso è l'anticamera per patologie fisiche e psichiatriche ben più gravi - gli insegnanti possono affidarsi a un approccio psicoterapeutico personalizzato, possono imparare a gestire lo stress e a organizzare meglio il lavoro in classe e migliorare la comunicazione con colleghi e studenti.Il bornout degli insegnanti non è un problema solo italiano, ma interessa tutti i paesi del mondo ed è un tema particolarmente sentito in quelli anglosassoni (USA,Gran Bretagna, Francia,Australia ). Un fenomeno di grosse dimensioni, dunque, ma ancora sottostimato, forse per la paura di dover ammettere la presenza di un problema che interessa una categoria professionale di forte rilevanza sociale.

venerdì 24 maggio 2013

Ancora Manzoni: perle di conoscenza. Tema liberamente tratto da una evidentemente non nota edizione dell'opera manzoniana.....

Manzoni nasce a Milano il 7 Marzo 1785. Poi in seguito si trasferi' dal suo padre. Manzoni affronta una vita difficile, e allora decise di scrivere i promessi sposi. I promessi sposi è un romanzo che parla di due amori, di Renzo e Lucia che scoprono di amarsi. Un giorno pur sapendo che non dovevano frequentarsi vengono scoperti che si mandavano dei biglietti. All'ora presero Lucia e la rimproverarono, perchè non si doveva vedere con Renzo. Nell'800 bisognava essere daccordo con i genitori per frequentare una persona, ma i genitori di Renzo e Lucia non erano daccordo ma loro si amavano, e Lucia si prese una rimproverata solo per dei bigliettini, ma loro non si erano baciati, però venne rimproverata comunque. Secondo me non era giusto perchè, se a uno piace una donna non deve essere condizionato dai genitori, le scelte si possono condividere ma la scelta tocca al figlio, perchè la donna in futuro è del figlio che poi diventa marito. I romanticismo: è una forma letteraria che usa Manzoni e anche un motivo culturale, il romanticismo si oppone all'illuminismo, con questo Manzoni riesce ad ispirare il senso romantico.

Versione originale non corretta

giovedì 23 maggio 2013

Analisi del testo " VOI CHE PER LI OCCHI MI PASSASTE "L CORE"




VOI CHE PER LI OCCHI MI PASSASTE ‘L CORE  
di Guido Cavalcanti

Voi che per li occhi mi passaste ’l core
e destaste la mente che dormia,
guardate a l’angosciosa vita mia,
che sospirando la distrugge Amore.

E’ vèn tagliando di sì gran valore,
che’ deboletti spiriti van via:
riman figura sol en segnoria
e voce alquanta, che parla dolore.

Questa vertù d’amor che m’ha disfatto
da’ vostr'occhi gentil’ presta si mosse:
un dardo mi gittò dentro dal fianco.

Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto
che l’anima tremando si riscosse
veggendo morto ’l cor nel lato manco.







Composto dalla personalità più rilevante di quel gruppo di rimatori che la critica, valendosi della nota formula coniata da Dante nel canto XXIV del Purgatorio, indica come esponenti dell’esperienza del “ dolce stil novo”, il sonetto  Voi che per li occhi mi passaste ‘ l core sviluppa, delle due tematiche fondamentali di tale “ scuola ”, ovvero la lode della donna e l’esame degli effetti dell’amore sull’amante, la seconda.
Sebbene si tratti di temi desunti dalla poesia amorosa dei secoli precedenti, il carattere fortemente innovatore di questa esperienza va, invero, rintracciato nella possibilità di far scaturire dalla vecchia tradizione una realtà intima e nuova connessa ad un’idea di gentilezza non più riferita alla nascita o al titolo ereditario, bensì ad un dato di natura, ad una superiore nobiltà d’animo che può pienamente essere intesa solo nel quadro delle mutate condizioni storiche e sociali che caratterizzano gli ultimi decenni del XIII secolo.
La novità e la dolcezza di cui parla Dante sono dunque da ricondursi alla scoperta di una nuova verità e autenticità psicologica e sentimentale la prima, alla scelta di uno stile più limpido e piano la seconda, nel comune allontanamento, da parte dei poeti stilnovisti, dalle tendenze della lirica toscana, di ascendenza guittoniana, nonché dalla precedente tradizione siciliana e provenzale. Se Guittone riprendeva la maniera del trobar clus provenzale, costoro possono essere accostati alla maniera del trobar leu così come, sul piano contenutistico, all’omaggio feudale rivolto alla dama, si sostituisce una visione della donna che viene esaltata come dispensatrice di gentilezza, ma anche considerata come fonte di turbamento interiore per il soggetto amante vinto dalla passione d’amore. E proprio quest’ultimo aspetto viene ripreso nel sonetto in questione in cui emergono sia ascendenze e interessi filosofici di stampo averroista, sia una più profonda introiezione sentimentale e un approfondimento della componente psicologica dello stilnovismo. L’amore è, infatti, concepito come una forza cieca che genera angoscia e sofferenza nel poeta, il quale si rivela capace di un pathos doloroso ed efficace nel momento in cui chiama la donna a vedere (v. 3) la distruzione di ogni sua facoltà vitale determinata dall’ effetto devastante del sentimento amoroso da lei generato. Il testo, partendo probabilmente da un’esperienza reale da cui scaturisce un uso metaforico del “ vedere” , si articola in una serie di microsequenze sapientemente scandite e simmetricamente riprese nelle quartine e nelle terzine. Il riferimento alla donna che trafigge con il suo sguardo l’amante al punto di risvegliare l’animo prima tranquillo, l’aggettivazione metaforica dell’amore allegoricamente rappresentato nell’atto di colpire col ferro della sua saetta, la sua successiva raffigurazione nelle vesti di un guerriero che combatte con forza i difensori, ossia gli spiriti vitali del poeta, l’immagine dell’amante soggiogato il quale, ormai privo delle sue forze, null’altro può fare che esprimere il proprio dolore, scandiscono il sonetto in quattro momenti che vengono poi ripresi, con qualche variazione, nella sequenza narrativa delle terzine. Qui, infatti, l’autore ripropone il motivo della forza d’amore che, proveniente dagli occhi “ gentili” della donna, lo distrugge( m’ ha disfatto v.9); poi quello del ferimento, da parte della virtù d’amore, attraverso una freccia; a questo segue la rappresentazione dell’anima che, immediatamente colpita, subisce come una scossa per cui il poeta avverte un tremito dentro di sé; infine l’anima contempla il cuore ( cioè le forze corporee, gli “ spiriti” ad esso collegati) morto nel lato sinistro.
E’ evidente come si tratti di un testo poetico che nasce da premesse culturali filosofiche e raffinate, nutrite della cultura universitaria bolognese con cui Cavalcanti fu in strettissimo contatto: il sentimento è, pertanto, descritto in tutta la sua drammaticità, colto e analizzato nelle sue molteplici componenti e manifestazioni per cui il poeta passa dall’invito alla donna chiamata a un  “ vedere” metaforico(v.3) ad un “vedere” tutto psicologico della propria interiorità(v.14). Tuttavia, non è l’interiorità soggettiva ad interessare l’autore, bensì quella oggettiva, cioè l’avvenimento rappresentato con procedimenti allegorici attraverso una serie di personificazioni( Amore, l’anima, il cuore, gli “ spiriti”, la figura, la voce), che agiscono come autentici personaggi sui quali piomba, ad esclusione della prima, la violenza devastante della “ vertù d’amor”. L’oggettivazione dei moti interiori, propria della poesia cavalcantiana, scaturisce, quindi, dalla volontà di rappresentare sentimenti generali pur ambientandoli nello spazio dell’introspezione psicologica e in un atmosfera rarefatta ed evanescente.
Se l’assenza di spezzature, di pause, di inversioni sintattiche, di enjambement contribuisce a rendere tale atmosfera in sintonia con quello stile “ dolce” e leggiadro che connota la poesia stilnovistica, da un punto di vista fonico il testo presenta una serie di assonanze, consonanze e allitterazioni i cui effetti musicali evocano lo stato d’animo del poeta sofferente e spiritualmente dilaniato. L’aspetto fonico-timbrico potenzia, in tal senso, il dramma interiore del poeta-amante: l’assonanza ricorrente sei suoni /o/e/( core-amore-valore-voce-dolore-mosse-riscosse)la disseminazione iterata del suono /r/ ( sospirando-distrugge- spiriti-segnoria-dardo-tremando-morto..); le consonanze fra parole di versi successivi( disTRugge- denTRo- Tratto- Tremando); infine le allitterazioni che evocano sensazioni e stati d’animo( v.5..ven…valore; v.6 van via; v.7 sol…segnoria; v.11 dardo…dentro) contribuiscono a sottolineare l’intensità del sentimento amoroso e la violenza distruttiva nello scontro tra Amore e amante. Anche la rima, incrociata nelle quartine, instaura parallelismi e analogie semantiche( core/amore- valore/ dolore-disfatto/tratto ecc). Da un punto di vista metrico-ritmico il sonetto presenta lo schema più classico ABBA ABBA CDE CDE, mentre la disposizione degli accenti, la presenza di un numero limitato, ma significativo, di sinalefi( vv. 1.3.4.12.14) e l’assenza di pause( tranne che al v.8) conferiscono alla poesia un ritmo lento, continuo e fluido. Per quanto riguarda il livello stilistico-retorico, l’autore utilizza un lessico elevato, aulico, desunto dalla tradizione e di ritegno rispetto ad essa; frequenti sono, inoltre, i latinismi( per li occhi-core- dormìa- dardo-manco ecc) mentre la struttura sintattica predominante è di tipo coordinativa. Le figure retoriche rilevabili sono essenzialmente di significato e connesse alla rappresentazione del sentimento amoroso attraverso il ricorso alla prosopopea( vv. 4-6-7-8-9-12) nonché all’uso insistente della metafora presente in ciascuna delle microsequenze narrative che costituiscono il sonetto. L’immagine del risveglio della “ mente che dormia”, quella dell’Amore che “ ven tagliando, “ il “ dardo” scagliato nel “fianco” del poeta, l’anima che, “ veggendo morto ‘l cor”, riceve una scossa, evidenziano, solo per fare alcuni esempi, i tratti distintivi di un nuovo modo di far poesia, per alcuni aspetti elitario, ma nel contempo capace di coniugare, come alcuni studiosi hanno sostenuto, umanesimo e classicismo. Per quanto nella poetica stilnovistica coesistano ancora alcuni aspetti tradizionali della sensibilità medievale( si pensi, per esempio, all’annullamento della personalità del soggetto amante che ricorda gli effetti dell’amore mistico), tuttavia, essa determina il passaggio dal vecchio al nuovo, soprattutto, in relazione alla nuova dimensione spirituale e valoriale dell’uomo in quanto tale. Tale umanesimo, scaturito da una necessità storica connessa alla rivendicazione dei ceti emergenti nel contesto urbano i quali si contrappongono alla vecchia aristocrazia, non rinnega le verità religiose, ma rappresenta un tentativo di esplorazione, affidata all’esperienza e alla ragione, nei confronti di aspetti umani, terreni e naturalistici. La volontà di introspezione manifestata, come nel caso del sonetto cavalcantiano, pur portando a maturazione gli elementi di poetica offerti dalla tradizione, non conduce, tuttavia, ad un’intima manifestazione della soggettività individuale, cosa che avverrà nella letteratura romantica, ma sfocia, come si è constatato, nella rappresentazione oggettivata della vita interiore del poeta-amante.

L’operazione letteraria cavalcantinana apre, peraltro, la strada al successivo sviluppo della lirica italiana in quanto delinea aspetti che saranno ripresi e magistralmente rielaborati da Petrarca e , attraverso questi, giungeranno fino alla tradizione ottocentesca.



domenica 19 maggio 2013

Quando un insegnante si interroga su quanto ha spiegato....

Le verità nascoste di Alessandro Manzoni


Spunti di riflessioni da verifiche svolte in classe

  • ......nato dalla madre Giulia Beccarla e il padre Pietro Manzoni.

  • Manzoni nacque a Milano nel 1785 da un matrimonio fasullo con genitori separati e  il genitore faceva il conte.

  • Alessandro raggiunge la madre a Parigi dove conosce gli ideologi che lo spingeranno a convertirsi al cristianesimo.

  • Nell’edizione definitiva, l’autore, trova una lingua adatta,sia per i ceti più elevati, sia per quelli più bassi, questa lingua è un insieme tra dialetto parlato dai borghesi e quello parlato dagli aristocratici e viene chiamato “Fiorentino”.

  • Uscito dal colleggio dopo la morte del compagno della madre avvenuta nel 1805 egli scrive un poema e, non contento degli ideali di rivoluzione francese, si trasferisce a Parigi con la madre.

  • Egli è figlio di Pietro Manzoni un ricco mercante…L’illuminismo ha sede a Milano e Napoli, si sviluppa in seguito in tutta Italia grazie al quotidiano “Il Caffè” scritto da Cesare Beccarla.In Manzoni è forte il pensiero copulistico nel quale il popolo appartenente alla classe povera, essendo ignorante, si deve affidare ad una guida.

  • Nasce a Milano come scrittore e poeta figlio di Giulia Beccarla e di Pietro Manzoni anche se la paternità è indiscussa.

  • …conosce Enrichetta Blondel con lei si convertisce nel 1810 al cristianesimo  rifiuta le opere scritte da ragazzo per dedicarsi solo all’arte cristiana, da qui iniziò a scrivere diverse opere il più importante furono “I promessi sposi”.Per questo tipo di opera si inspirò ad una corrente letteraria il Romanticismo nato in Germania e con questo tipo di genere letterario volle colpire sopratutto le donne  dando più importanza ai sentimenti.

  • ….il romanzo partì con una donna Madam the  Stal che accusò l’Italia di essere chiusa e campagnola e una volta pubblicato l’articolo ottenne subito una risposta , scritta su un libretto dove veniva sottolineato il valore dal popolo.

  • …I promessi sposi è ambientato nell’Italia del 600 perché volle far risaltare le diversità della società antica con quella attuale, anche se non era popio molto diversa la società del 600 con quella dell’800. Manzoni venne nominato senatore a vita e ottenne la cittadinanza ordinaria di Roma

  • Don Abbondio è il classico esempio di uomo di fede,pronto ad aiutare il prossimo.Egli non è né nobile né coraggioso ma è un personaggio assai buono, che grazie alla sua governante di fiducia Perpetua, riesce ad affrontare i problemi con quasi completa tranquillità perché, ella oltre ad aiutarlo nelle decisioni riesce a tranquillizzarlo nei momenti difficili…


  • …dalla madre Giulia Beccarla in cui padre era un famoso illuminista francese.


  • ..in questi anni concilio anche il secondo movimento”il Romanticismo” che nasce in Germania ad opera di “Intellettuali” e si basano sul sentimento, ed era caratterizzato da romanzi e racconti cavallereschi scritti in lingua neolatina.




  • Renzo faceva il tramaglino e Lucia la mondella........


Riflessioni in classe sul mito di Amore e Psiche






AMORE E PSICHE




Il percorso proposto agli studenti prevedeva il racconto del mito di Amore e Psiche effettuato dall’ insegnante con la richiesta di imparare ad andare oltre il testo, a cercare i rimandi e i significati più nascosti per affrontare il lavoro sulla poesia previsto dal programma disciplinare.La reazione degli studenti è stata positiva in quanto, come la mia esperienza mi insegna, amano moltissimo sentire l’insegnante raccontare storie.Dopo aver raccontato la storia, omettendo alcuni dettagli volutamente e invitando gli studenti a cercare il mito e a leggerlo in versione integrale, ho chiesto loro di scegliere se stare dalla parte di Amore o di Psiche e di creare due schieramenti contrapposti dividendo a metà la classe. Contrariamente alle mie attese la classe si è spaccata a metà, anche se alcuni studenti hanno espresso un’ enorme difficoltà a compiere una scelta netta. Sono rimasta colpita dal fatto che i maschi della classe si siano tutti schierati dalla parte di Amore, mentre le ragazze si sono divise.A questo punto ho chiesto agli alunni di spiegare uno alla volta le ragioni della loro scelta a partire dal gruppo schierato dalla parte di Psiche. Una delle studentesse ha associato, per prima, Amore alla passione e Psiche alla ragione e ha chiesto il significato di Voluttà, le altre ragazze hanno insistito sulla fragilità di Psiche per nulla esecrabile, anzi tanto umana e tanto femminile, ritenendo che se è vero che Psiche ha sbagliato, è altrettanto vero che ha lottato strenuamente per ritrovare Amore sottoponendosi a umiliazioni e a prove difficilissime, senza contare che la richiesta di Amore era davvero impossibile da esaudire.
Il gruppo schierato dalla parte di Amore non è riuscito a trovare motivazioni se non nella debolezza di Psiche e nel suo cedere alla curiosità, tranne due studenti che hanno, invece, apprezzato la capacità di Amore di perdonare per ben due volte la sua amata.
A questo punto ho cercato di rispondere alle loro numerose domande, partendo proprio dalla nascita di Voluttà e spiegando come il piacere nasca proprio dall’incontro di ragione e abbandono. Un’altra domanda ricorrente riguardava la scelta di Giove di convocare tutti gli dei per concedere la divinità alla giovane Psiche e legittimare il suo legame con Amore, lo stupore riguardava la posizione di Giove, capo degli dei, e l’inutilità di avere un “permesso”. Prima di tutto ho fatto riferimento alla rigidità sociale caratteristica dei Romani che non prevede un matrimonio tra classi sociali differenti, figuriamoci tra una mortale e un dio, poi ho cercato di far capire che Giove vuole che il concilio degli dei approvi la sua decisione e la condivida tanto che offre diverse spiegazioni per la sua decisione e invita la bella Venere a rinunciare al suo risentimento in quanto ormai Psiche era una dea. La discussione è proseguita ed ha abbracciato diversi aspetti del racconto , non ultimo il ruolo perfido delle sorelle di Psiche, con le quali la giovane è stata persino generosa e amorevole: ancora una volta ho cercato di far riflettere gli studenti sul fatto che ognuno di noi è responsabile delle sue scelte e, per quanto indotto o persuaso a fare qualcosa, asseconda sempre e comunque una spinta interiore personale. I ragazzi hanno di nuovo portato il discorso su Giove e sul ruolo importante che ha avuto nella storia e, scherzosamente, hanno paragonato il padre degli dei a me in quanto impongo spesso loro delle cose, ma sempre spiegandone i motivi o le ragioni ultime, ma imponendo. La discussione si è ulteriormente spostata sul loro perenne timore di essere “giudicati” e non “valutati” dalle insegnanti, sulla paura di esporsi troppo rendendosi vulnerabili:come in altre occasioni, ho ribadito che la valutazione di un insegnante riguarda la loro conoscenza di un determinato argomento e non vuole assolutamente essere una condanna della persona e delle sue qualità e che un brutto voto non deve mettere in crisi loro stessi, ma solo la qualità del loro studio. Al termine dei tre moduli ci siamo lasciati con l’impegno , da parte loro, di cercare il testo integrale del mito e di riprendere la discussione.
Questa volta gli elementi su cui si è focalizzata la loro attenzione sono stati diversi: intanto la necessità di Psiche di” vedere”e poi il ruolo dei diversi aiutanti della giovane nel superamento delle difficili prove. Riguardo al primo punto ho aiutato i ragazzi a riflettere sulla “debolezza” di Psiche: la necessità di vedere il suo uomo, un uomo che la rendeva felice e appagata, il padre del suo bambino, che la riempiva di ogni gioia e di ogni bene. La riflessione li ha spinti verso la consapevolezza che la conoscenza di una persona passa attraverso la vista, che ci sembra essere il senso più affidabile, meno ingannevole e che rappresenta proprio la razionalità, il bisogno di sicurezze e di conferme. Per amare bisogna prima di tutto vedere ed essere certi: la loro perplessità riguardava la stoltezza di Psiche che giaceva accanto ad Amore e non poteva non capire che fosse bello e prestante. E’ emersa la loro difficoltà a leggere nelle ali di Amore l’irrazionalità, l’istinto e la difficoltà  a leggere i rimandi , i simboli delle cose. Il ruolo degli aiutanti è stato spiegato come inevitabile, perché tutti hanno trovato ingiusto l’accanimento di Venere sulla ragazza, ma soprattutto meritato perché aveva dimostrato un sentimento intenso e puro per il suo uomo e aveva diritto ad avere un’altra possibilità per ricongiungersi all’amato in vista della futura nascita della loro bambina.