sabato 18 maggio 2013

IL BANCHETTO NELL'ANTICA ROMA




















Il termine banchetto  si riferisce ad un pasto collettivo contrassegnato da un carattere di ritualità. Il pasto costituiva spesso, già in origine, un atto dotato di valenza rituale e religiosa: conservavano tale carattere non solo i banchetti rituali delle divinità, dei morti, delle cerimonie pubbliche, ma anche i pranzi privati cui assistevano gli dei onnipresenti.
Al significato comunitario del banchetto si associavano quelli dell'ospitalità (
ξενία) e del dono.
Il pasto principale presso i Romani è la cena (o coena); il ientaculum, colazione della mattina, e il prandium, refezione di mezzogiorno, sono pasti alla buona che si fanno usualmente in piedi. Anticamente si pranzava nell'atrium, dove cioè la famiglia stava riunita la maggior parte della giornata; più tardi in un appartamento al piano superiore , uso di cui rimase traccia nel nome cenaculum, soffitta; solo col diffondersi del lusso si cominciò a destinare per la cena stanze appositamente costruite, i triclinia; nelle case signorili vi era il triclinio d'estate e il triclinio d'invernò e potevano esservene altri ancora. Nelle città meridionali era largamente diffusa l'abitudine di pranzare all'aperto, sotto pergolati o tende (cfr. Plaut., Most., v. 363 segg.). Nel triclinium, come dice il nome stesso (da κλίνη "letto") si cenava stando sdraiati; l'uso primitivo di cenar seduti è attestato solo per i tempi più antichi. Anche le donne di casa prendevano parte alla cena: il che non era considerato sconveniente a Roma come in Grecia; nella età repubblicana stavano a mensa sedute, nell'età imperiale sdraiate. I bambini, invece, siedono davanti a tavole separate. Quando la cena veniva allestita con maggior fasto e solennità e vi erano molti invitati, si chiamava convivium. Offrono occasione al convivio ricorrenze o avvenimenti familiari ovvero le feste del calendario, fra le quali in modo particolare i Saturnali.


La tradizione del banchetto nell’antica Roma

Dopo aver in un primo tempo mangiato seduti presso il fuoco, i Romani presero l’abitudine di cenare nell’atrio delle loro domus, ambiente in origine attiguo alla cucina, tanto che il suo nome era derivato dal colore nero provocato dai fumi del focolare (da atramentum, inchiostro). Più tardi questo locale centrale fu spostato all’aperto e in seguito venne chiuso, isolato e prese il nome di tablinum mentre la sala da pranzo fu situata di preferenza al piano superiore. Nelle grandi case le sale da pranzo erano più di una, occupate secondo la stagione dell’anno e l’orientamento del sole: se ne costruirono persino sopra piscine e canali affinché gli invitati potessero scegliere direttamente il pesce che desideravano mangiare e in grotte naturali o artificiali per l’estate.

A banchetto

La consuetudine di mangiare distesi su di un letto si diffuse a Roma e poi in tutta Italia e nelle province dell’Impero in età repubblicana, in particolare sotto l’influenza greca e orientale, anche se già gli Etruschi mangiavano sdraiati. Anche presso le classi più modeste, l’usanza voleva che almeno nelle grandi occasioni si mangiasse coricati. Questa posizione, apparentemente non confortevole, permetteva però di ingerire una maggiore quantità di cibo e consentiva ai convitati sazi oltre misura di assopirsi tra una portata e l’altra. Si sdraiavano gli uomini ma non le donne, i bambini e gli schiavi. In un primo tempo le uniche donne ammesse ai banchetti furono solo le cortigiane. In seguito anche le altre cominciarono a prendervi parte ma da sedute poiché non considerate in grado di partecipare alle conversazioni di politica, letteratura e filosofia (anche se sembra certo che almeno nelle cene intime, potessero coricarsi sullo stesso letto del marito).
Solo molto tempo dopo gli uomini, in età imperiale, furono autorizzate a consumare i loro pasti sdraiate. I bambini e gli adolescenti che non avevano assunto la toga virile mangiavano, ancora ai tempi dell’Impero, seduti su sgabelli davanti al letto del padre e della madre. In certe occasioni particolari e con l’autorizzazione dei loro padroni, anche gli schiavi potevano mangiare coricati. Ai convitati era inoltre consentito portare commensali non invitati dal padrone di casa: questi, chiamati umbrae, erano bene accetti ma non potevano prendere posto sul letto triclinare al pari degli altri ospiti e partecipavano al banchetto anch’essi da seduti.
Intorno alla tavola, esistevano generalmente tre letti, andando da destra a sinistra, chiamati
·         summus
·         medium 
·         imus
da tre posti ciascuno per un totale di nove posti. Le fonti, infatti, ricordano che il numero ideale di commensali era dai tre ai nove, come le Grazie e non più delle Muse. Questo letto da tavola era chiamato triclinium termine che in breve tempo finì per identificare l’intera sala da pranzo.Il posto d'onore (locus consularis) era l'imus in medio, che permetteva a chi l'occupava di ricever messaggi dal lato esterno del letto. Al padrone di casa era riservato il summus in imo:  egli veniva così a trovarsi accanto a chi occupava il posto d'onore. Nell'età imperiale venne in uso di sostituire i tre letti con un unico letto arcuato, chiamato sigma per la somiglianza con la forma lunata del sigma maiuscolo, usata accanto a Σ; esso offriva posto a un numero di commensali variante fra sei e otto; il posto d'onore era alle due estremità (cornua). In ogni letto stavano usualmente tre commensali, seduti di sbieco col gomito appoggiato al cuscino di sinistra e i piedi volti verso destra; i posti erano separati mediante cuscini. Durante il pasto i commensali tenevano i piatti nella sinistra e vi prendevano con la destra il cibo per portarlo alla bocca. Solitamente i triclini venivano addossati contro le pareti della sala e disposti attorno ad una tavola con tre piedi (inizialmente di forma quadrata, successivamente circolare). Sul letto il convitato stava coricato di sbieco sul lato sinistro appoggiando il gomito su di un cuscino. Tutti gli invitati erano rivolti nello stesso senso verso la tavola; i posti venivano separati da cuscini sistemati sotto la coperta e la loro assegnazione era stabilita in base al prestigio dei presenti: il padrone in genere veniva a trovarsi alla destra dell’ospite d’onore ma col tempo non si fu più così rigorosi. Delle tavole che ornavano il triclinio si debbono distinguere quelle piccole che venivano poste vicino ai letti tricliniari, in modo che i commensali potessero, allungando il braccio, prenderne o depositarvi le stoviglie, e quelle più grandi in cui erano esposti vasellami, argenterie, ecc. A volte tanto le une quanto le altre erano sostenute da un unico piede artisticamente lavorato (trapezophorum ).
Le tavole di maggior pregio erano ricoperte di un panno, gausape (tappeto da tavola), che durante il banchetto poteva esser cambiato più volte; l'uso di una tovaglia simile alla nostra (mantele) è abbastanza tardo; se ne ha la prima menzione in Marziale (XII, 29, 11). La salvietta, mappa, fa parte dell'apparecchio del banchetto, e appartiene alla biancheria del padrone di casa. Ma anche i commensali ne recavano con sé, perché l'uso consentiva che vi s'involgesse dentro e si portasse a casa una parte della cena.


Piatti e posate

Il piatto era sorretto dal convitato con la mano sinistra. Poiché si ignorava l’uso della forchetta, che fece la sua apparizione solo in tarda età imperiale, si adoperavano le dita per mangiare. I grandi forchettoni con tre o quattro denti, visibili su raffigurazioni e affreschi, erano semplicemente utensili da cucina o strumenti utilizzati dagli schiavi, chiamati carptores o scissores, che per maggiore comodità dei commensali tagliavano gli alimenti a piccoli pezzi.Il coltello veniva usato nei ritrovi quali tabernae o popine, mentre non era presente nei banchetti a causa della posizione sdraiata assunta dai commensali : esso era pressoché inutile, poiché le pietanze venivano tagliate in piccole porzioni o in cucina, o nel triclinium stesso da uno scalco (scissor), al quale si richiedeva oltre all'abilità del taglio anche l’eleganza di gesti. Del cucchiaio si conoscevano due diversi modelli: un primo inizialmente realizzato in legno ma con il tempo fabbricato anche in metallo, chiamato ligulae; un secondo, il cochlear (da cui è derivata la parola “cucchiaio”) con le estremità utilizzate rispettivamente per estrarre le lumache dal guscio, come dice il nome, e come portauovo. Uno schiavo portava acqua fresca e profumata per lavare mani e piedi dei commensali. Per non macchiare la coperta sulla quale erano distesi, gli invitati avevano l’abitudine di portare un tovagliolo personale che serviva loro anche per avvolgere gli avanzi del pasto talora offerti dal padrone di casa o, nel caso di clienti perennemente affamati, per nascondere quello che arraffavano nel corso della cena. Numerosi resti alimentari cadevano sotto il triclinio e, alla fine del convivio, questi venivano fatti mangiare dai cani oppure degli schiavi provvedevano a pulire il pavimento con della segatura.

Rituale del banchetto

Partecipare ad un banchetto era un vero e proprio rituale e iniziava già con la scelta dell’abbigliamento. Molto indicata era la vestis coenatoria o synthesis, tunica piuttosto ampia in lino colorato e leggero che garantiva una certa libertà di movimento e che occorreva talora cambiare tra una portata e l’altra per mantenerla pulita; ai piedi si toglievano i sandali ordinari e si calzavano le solae, riservate all’uso domestico e costituite da una suola particolarmente confortevole e da sottili strisce di pelle intrecciate sul dorso del piede e legate alla caviglia.
La tavola quadrata veniva chiamata cilliba (“tavolo a tre piedi”) mentre quella successiva e rotonda mensa (dal greco mesa) perché, secondo Varrone, essa era posta al centro . Accanto a queste ne esisteva una per il vino, anch’essa rotonda e con un solo piede, chiamata cilibantum e l’urnarium, riservata ai recipienti contenenti acqua chiamati urnae. Le tavole erano coperte da una tovaglia detta mappa, diffusa già dall’età augustea, che durante lo svolgimento del pasto viene pulita dai servitori con la gausape, un panno di lana grezza a pelo lungo. Su una tavola apparecchiata con cura non dovevano mai mancare la saliera (salinum), l’ampolla dell’aceto (acetabulum) e, talvolta, uno scaccia mosche (muscarium pavoninum). Sempre presenti anche gli stuzzicadenti (dentiscalpia) costituiti da una lunga spina di legno, da una piuma o da altro materiale idoneo sia per funzionalità che per igiene e sicurezza.

Uso dei piatti

Riguardo all’impiego dei piatti è necessario distinguere tra quelli utili per la presentazione delle portate e quelli usati per mangiare. Langula di forma ovale e paropsides rettangolari o quadrati, appartenevano alla prima categoria: potevano essere molto grandi, di varie forme e a volte costruiti appositamente in funzione della dimensione delle vivande da presentare. I piatti usati per mangiare erano invece molto semplici: leggermente incavo il catinus (per le carni), a scodella il tryblium ogabata (per i passati o le minestre). Vi era comunque chi consumava uova, formaggi o funghi direttamente sopra una vera e propria focaccia. Più numerosi dei piatti erano i bicchieri, più correttamente detti “vasi da bere”: semplice era il poculum, calice privo di piede inizialmente in legno o terracotta, successivamente in metallo; quello invece di maggior utilizzo era la phiala, una sorta di coppa priva di manici. Il calix, infine, non di rado fornito di manici, aveva una funzione simile alla nostra coppa da spumante.

Illuminazione

L’illuminazione era garantita da lucernae, candelabri e lampade ad olio a uno o più becchi poste su treppiedi o sospese al soffitto mediante catene; vasi di fiori freschi regalavano un tocco aggraziato alla sala e particolarmente apprezzate erano le rose, soprattutto quelle di Paestum . Gli anfitrioni più raffinati collocavano nell’ambiente anche dei bruciaprofumi per mitigare i pesanti effluvi provenienti dall’attigua cucina e quelli, ancora più sgradevoli, dei convitati stessi la cui igiene personale lascia spesso a desiderare. L’arredamento della sala da pranzo era completato da scanni (sedilia, solia, sellae), da panche ad un posto (subsellia) e due posti (bisellia). I piatti necessari al banchetto erano tenuti in disparte, in prossimità della tavola su una specie di credenza chiamata repositorium, a uno o più piani e lì rimanevano a disposizione dei commensali.

Personale di cucina e di servizio

Competente e ben strutturato era il personale di cucina e di sala. Uno schiavo detto nomenclator era addetto a ricordare il nome delle persone incontrate, assisteva l’anfitrione nell’assegnazione dei posti e accompagnava gli ospiti. A capo della cucina vi era l’archimagirus, responsabile dei viveri. I domestici destinati alla sala, detti ministratores ,erano scelti in base all’abilità e all’avvenenza. I più accattivanti erano addetti a versare il vino: selezionati tra gli adolescenti di bell’aspetto con lunghe chiome, indossavano leggere tuniche di colori diversi, mentre quelli adibiti ai lavori più grossolani vestivano con maggiore semplicità ed avevano la testa rasata. Gli schiavi che recavano le portate erano talora abbigliati in rapporto al tipo di piatto che veniva presentato sulla tavola (ad esempio cinghiale e cacciatore). Gli scoparii pulivano il mosaico che rivestiva il pavimento. I commensali durante il convito vestivano una breve tunica (vestis cenatoria,synthesis). Al servizio erano addetti gli schiavi più giovani e più belli, accuratamente pettinati e con abiti eleganti dai colori vistosi, che facevano servizio di scalco o di coppiere. Altri, rasati e vestiti di tuniche grezze, erano occupati in faccende più grossolane, come gli analectae, che pulivano fra una portata e l'altra il pavimento. Ogni commensale, poi, conduceva con sé uno schiavo (puer ad pedes), che rimaneva presso di lui per tutto il banchetto, pronto ai suoi cenni.


Antipasto del banchetto romano: gustatio o promulsis


L’usanza di aprire un pasto con particolari alimenti è diffusissima e rientra nella tradizione sia dell’alta gastronomia che di quella popolare. Un menù descritto nel pranzo di Filossene, ci permette di conoscere alcune delicatezze della cucina greca del IV sec. a.C. Tra queste troviamo anche una “specie” di antipasto, e leggiamo che per stimolare l’appetito furono servite pasticcerie leggere. 

Il "gustatio", vero e proprio antipasto, veniva offerto dagli antichi Romani all’inizio della cena. Queste vivande erano chiamate da Cicerone “promulsis”, in relazione al fatto che all’inizio dei conviti c’era l’usanza di bere il mulsum, ossia il vino mielato. Gli antipasti erano rappresentati da cibi appetitosi e stimolanti, specialmente ortaggi, accompagnati da salse acri e piccanti. Sin dai quei tempi, si era capito che se il convivio era aperto con insalate miste di vegetali crudi, questi aiutavano il sistema digestivo a ricevere gli altri alimenti. Secondo Cicerone, gli antipasti si potevano chiudere anche con salsiccia, ostriche e ricci di mare, comunque piatto di rito era l'uovo servito sodo. In seguito alle invasioni barbariche, durante l’alto Medioevo, si perse l’uso dell’antipasto, ed i banchetti iniziavano direttamente dalle carni. La voce "antipasto" figura per la prima volta nel '500, in uno scritto del Firenzuola, e successivamente presso altri autori. Nella lista delle vivande, tale dicitura non ha alternativa nel trattato del Messisbugo, mentre in quello dello Scappi e nei seguenti, ciò che è antipasto viene denominato "primo servizio di credenza". Grande la varietà delle portate incluse, sia dolci che salate: radicchio, carote, capperi, insalate, salsicce, mortadelle, polpette, ecc. Successivamente nella "Grande Cuisine" (XIX sec.) il concetto di antipasto fu assorbito nel temine francese "hors d'oeuvre" (fuor d'opera), a indicare che si considerava una portata fuori del menù.

Seguiva la prima mensa, durante la quale venivano servite diverse portate, chiamate fercula, di maiale, agnello, pollame, selvaggina e pesce. La lista delle vivande si completava con la secunda mensa, termine derivato dall’antica usanza greca di cambiare l’apparecchiatura della tavola. In questa parte venivano offerti frutti freschi o secchi, dolci, e a volte cibi salati come salsicce ( Marziale) o focacce al formaggio ( Petronio).
L’abitudine romana di aprire il banchetto con l’uovo e chiuderlo con frutti quali la mela diede vita al proverbio riportato da Orazio «ab ovo usque ad mala», riferito a qualcosa fatto «dal principio alla fine».  Durante il pasto veniva bevuto il vino ma con moderazione, per non interferire con l’offerta rispettosa fatta ai Lari fra la prima e la seconda mensa. Durante il pasto si era autorizzati, con editto imperiale, a emettere qualunque rumore corporale. “Si evitino quanto possibile le liti e si procrastinino odiosi battibecchi, altrimenti è meglio tornarsene a casa!” si legge sui muri della Casa del Moralista a Pompei, e si tratta di una raccomandazione largamente condivisibile anche ai nostri tempi.  Meno accettabile per noi contemporanei era l'emissione di "rutti" di gradimento alla fine dei pasti. Lo stesso imperatore Claudio emanò un editto in cui autorizzava tutti i convitati al banchetto ad emettere ogni tipo di rumore in assoluta libertà. “Assumi i cibi appena con la punta delle dita (mangiando ci vuole grazia), non sporcarti la faccia con le mani bisunte”. Queste le ulteriori raccomandazioni di Ovidio per le donne che desiderano rendersi attraenti e piacevoli; tuttavia chi proprio non riesce a non ungersi il volto può rimediare pulendosi con molliche di pane o con un apposito tovagliolo, che oltre a proteggere dalle macchie vesti e biancheria svolge anche un altro compito: alla fine della serata viene utilizzato per raccogliere, a mo’ di fagotto, gli avanzi della cena che gli ospiti portano a casa, secondo una consuetudine tranquillamente accettata. Né questo è l’unico cadeau che allieta i commensali: al momento del commiato il padrone di casa gratifica i suoi ospiti con apophoreta, cioè piccoli doni, come unguenti, olii ed essenze profumate, a ricordo del banchetto. Sovente per rallegrare l’atmosfera si ricorreva alla presenza di un comico (scurra o derisor), di professione o no, incaricato di creare una situazione vivace con battute di spirito e racconti di storielle.
Comissatio
I grandi convivi si concludevano con la comissatio e con una bevuta generale di vino sottoposta a regole ferree, accompagnata da cibi più leggeri ma fortemente speziati atti a stimolare la sete e da piatti più sostanziosi: si trattava sostanzialmente di una sorta di dopo cena al quale si potevano aggiungere anche ospiti non presenti fino a quel momento della serata. La comissatio poteva protrarsi a lungo nella notte. Caratteristica della comissatio è il graeco more bibere, introdotto fra i Romani in tempi ancora primitivi; non vi si beveva a volontà, come durante la cena, ma agli ordini di un rex convivii o magister bibendi al quale spettava anche determinare in qual proporzione dovesse esser mescolata l'acqua col vino e  stabilire il numero di coppe che i convitati avrebbero dovuto bere.
I Romani d'un tempo celebravano in canti conviviali le gesta degli antenati; ma già all'età di Catone (Cic., Brut., 19, 75) questa antica usanza era scomparsa. Trattenimenti usuali durante il banchetto erano le letture, le esecuzioni musicali, i giuochi d'azzardo. Vi si davano anche spettacoli che l'età moderna ha relegato nei caffè-concerto o nei teatri di varietà: sonatrici di nacchere (crotalistriae), che eseguivano danze lascive, effemminati e sfacciati ballerini (cinaedi), nani (pumiliones), buffoni (derisores), scelti di preferenza fra gli scemi (moriones), acrobati (petauristarii), ecc.
L’atmosfera era decorosa o volgare a seconda delle regole imposte dal magister bibendi alla serata. Normalmente le mogli non assistevano a questa parte del banchetto e rimanevano soltanto le cortigiane. Nel caso, però, il banchetto rispettasse certe regole di decoro e buon gusto e il programma delle attrazioni fosse di livello garbato, le mogli potevano fare compagnia ai mariti. I brindisi erano alternati ad attrazioni la cui importanza variava a seconda della natura del pasto. Oltre ai vasi che servivano ai commensali per bere (pocula ) vi erano i recipienti nei quali si portava il vino puro (oenophorum), o si teneva in caldo l'acqua per mescolarla, com'era uso corrente, nel vino (caldarium), e il cratere (κρατήρ, crater, cratēra, craterra), dove si versava in determinate proporzioni acqua e vino; la mescolanza era attinta mediante un piccolo recipiente con lungo manico, il cyathus, il contenuto del quale era unità di misura per i liquidi (45 centilitri). I coppieri mescevano nelle coppe ai commensali un certo numero dicyathi, facendo passare il liquido attraverso a un piccolo staccio (colum) o un filtro di lino (sacculus), giacché sembra che i Romani non riuscissero mai a ottenere naturalmente un vino limpido. Chi non desiderava bere caldo faceva mettere nel filtro della neve.



Apophoreta
Alla fine del convivio il padrone di casa offriva ai commensali degli apophoreta, piccoli doni come unguenti, oli ed essenze profumate che venivano sorteggiati tra gli invitati: da questo usanza potevano derivare talvolta situazioni curiose o comiche (ad esempio: un pettine assegnato a un calvo), come riferisce anche Marziale divertendo i suoi lettori.
Per gli antichi Romani la cena banchetto, che si protraeva fino a tarda notte, era il pasto più importante della giornata. Ad esso erano invitati tutti e cinque i sensi: oltre a vedere, toccare e gustare si parlava e si ascoltava. Se la cerimonialità trovava il suo culmine nella condivisione della carne, la spettacolarità era garantita da scene di danza, musica e teatro.

Lucullo e il banchetto per Cicerone

Lucullo fu un importante rappresentante del ceto aristocratico che si distinse per la profonda cultura e le qualità di comandante militare. Per uno strano paradosso quest'uomo è passato alla storia soprattutto per la sua grande passione verso il cibo e l'arte del banchettare. Ancora oggi ad un pasto particolarmente ricco e abbondante viene assegnata la definizione di pranzo "luculliano", in ricordo dei banchetti fastosi con cui il ricchissimo aristocratico intratteneva i suoi amici. 

Viene quindi spontaneo pensarlo come un uomo grasso intontito da cibo e vino. Ma questa tipica associazione è lontana dalla verità, visto che Lucullo, in virtù di un'attenta alimentazione e un intenso addestramento militare, fu un uomo dal fisico asciutto e dalla mente lucida: era rinomata la sua padronanza sia della lingua latina che di quella greca. 

Dopo la vittoria su re Mitridate (69 a.C.) visse tra la villa di Roma e quella di Baia, dove fu un vero innovatore della pescicoltura di specie pregiate come aragoste, murene e gamberi. 

Fra le storie riguardanti la fama di buongustaio di Lucullo, oltre a quella secondo la quale avrebbe introdotto in Italia il ciliegio, riportiamo l’episodio che lo vede protagonista con Cicerone. L'oratore insinuava che se qualcuno fosse andato a casa dell'aristocratico senza preavviso, avrebbe trovato sì e no un misero pasto da plebei. Per smentire questa insinuazione, Lucullo invitò seduta stante Cicerone e gli amici a cenare da lui, senza avvertire i cuochi. Chiese soltanto di mandare un servo a pregare i camerieri di apparecchiare "nella sala d'Apollo". I camerieri capirono con quella parola d'ordine che bisognava allestire un banchetto per gente importante e numerosa. Così avvenne, e con incredula sorpresa dei commensali fu servito un menù di frutti di mare, asparagi, scampi, pasticcio d'ostrica, porchetta, pesce, anitra, lepre, pavoni, pernici frigie, murene, storione di Rodi, dolci e vini.

Lucullo, che sembra avesse una predilezione speciale per la carne di tordo, pranzava in grande stile anche quando era solo; a lui verrebbe attribuita la frase: "Lucullo cena da Lucullo", rivolta al suo schiavo per rimproverarlo della semplice cena imbandita sapendo che il padrone non aveva ospiti.
La sontuositâ del banchetto romano è proverbiale: i Romani ponevano una gran cura nell'assicurare alla mensa i cibi più delicati e più rari; si faceva anche dell'arte per l'arte, cercando di sorprendere il commensale col dare a un cibo l'aspetto di un cibo diverso (p. es. uccelli con carne di porco; cfr. Petr., 69-70) o riempiendo e cucinando un animale con altri animali (Macr. III, 13, 13) o creando dei piatti a sorpresa (p. es. un uovo di struzzo con beccafichi o un cinghiale pieno di tordi vivi; cfr. Petr., 33,40). Con tutto ciò l'opinione che comunemente si ha sul lusso della tavola romana è esagerata. Non devono infatti aver valore di regola generale e costante gli eccessi individuali. Se uno scellerato alimentava le murene con le carni degli schiavi (Sen., Declam., I, 18), se dei crapuloni si valevano dell'ἐμετική (vomito procurato artificialmente), che era un mezzo usuale di purga, per raddoppiare le gioie del pasto (Sen., Dial., XII, 103: vomunt ut edant, edunt ut vomant), se vi furono dei malati di follia gastronomica come gl'imperatori Vitellio ed Elagabalo, non dobbiamo dare alla stranezza del particolare il valore di un sicuro indice dei tempi.
Nell'età repubblicana senatoconsulti e leggi (leges sumptuariae) cercavano di frenare il lusso dei banchetti limitando la spesa relativa, o i generi di cibi usati, o anche l'accettazione dell'invito di parte di alti magistrati (Aulo Gellio, II, 24), ma l'ultima di queste leggi si ebbe sotto Augusto, ed erano leggi tali da andar presto in disuso. Nel periodo imperiale il lusso dei banchetti aumentò: i signori erano circondati da uno stuolo di clienti che il miraggio di un buon pranzo rendeva disposti ai servigi più umili e alla più sciocca adulazione: sfarzo smodato raggiunse soprattutto l'ostentazione dei liberti arricchiti. Deplorata dalle persone più fini (Plin., Ep., II, 6), ma molto diffusa, sembra essere stata l'abitudine di non fare a tutti i commensali il trattamento che il padrone di casa riservava a sé e alle persone di maggior riguardo.
Ciò che sappiamo circa il banchetto greco e romano consente alcuni rilievi generali e comuni. Più rumoroso, più scomposto del nostro, fu tuttavia più intimo e gioioso: poeti di ogni tempo hanno celebrato, fra i piaceri della vita, la letizia del convito e il banchettare insieme fu,presso gli antichi, pegno sicuro di amicizia. Antico è l'uso di ricordare durante il banchetto, di goderne la gioia fugace, l'inesorabilità della morte che  tutti sovrasta e non solo fra i Greci e i Romani. Racconta Erodoto (II, 78) che gli Egiziani facevano portare in giro ai commensali la piccola riproduzione in legno di un morto nella bara con la scritta: "guardando questo bevi e divertiti, perché morto sarai come lui". Non appare che un uso simile sembrasse di buon gusto ai Greci dell'età classica, che fosse diffuso presso i Romani lo rileviamo da un passo della cena di Trimalcione, durante la quale, dopo la gustatio, viene mostrato, in varî atteggiamenti, uno scheletrino d'argento con le articolazioni snodate (Petr., 34) e da alcune tazze d'argento rinvenute a Boscoreale, presso Pompei, dove con finissimo lavoro di cesello sono riprodotti degli scheletri .
Diverso dal nostro è anche il galateo conviviale degli antichi, la cui libertà metterebbe nell'imbarazzo il più spregiudicato fra gli uomini moderni, solo che avesse un po' di educazione. Numerose rappresentazioni figurate ci pongono sotto gli occhi giovani a banchetto abbracciati strettamente con facili donne seminude . In questo i giovani romani non erano da meno dei greci (Cic., Catilinaria, II, 5, 10); il triclinio assiste a scene d'amore d'ogni genere e in ogni tempo (Platone,Symp., 217 b; Petr., 85 segg.). La cortigiana nuda mollemente sdraiata nel letto tricliniare e in atto di libare, bere, giocare al cottabo, è un motivo di ceramica conviviale. È da supporre che le violentissime baruffe fra amanti di cui si parla così spesso negli autori, o gli scherzi brutali contro i parassiti, consistenti, per esempio, nel rompere sulla loro testa delle pentole, non avvenissero che nei banchetti di giovanotti scapati; ma un moderno non troverebbe tollerabili altri usi ben radicati presso i Greci (Aristoph., Ran., 543) e presso i Romani (Plaut., Most., 386; Mart., III, 82, 15-18; XIV, 119; Horat., Sat., I, 3, 90). Né sembrerebbe bella l'abitudine di gettare a terra sotto la tavola gli avanzi di quel che si mangia.
Sfatiamo alcuni miti
In primo luogo occorre puntualizzare che gran parte della popolazione non avendo a disposizione tutte le comodità di cui disponevano le famiglie dei ricchi, per mangiare doveva arrangiarsi e molto spesso i pasti venivano consumati per strada; molto diffuse erano le taverne (caupona) e i venditori ambulanti, i quali vendevano un po’ di tutto e per lo più olive, pesci in salamoia, pezzetti di carne arrosto, uccelli allo spiedo, polpi in umido, frutta, dolci e formaggio. Di solito il pasto medio di un povero era composto da un pezzo di pane e da piccoli pesci in salamoia accompagnati da un bicchiere d'acqua o di vino tra i più scadenti. I momenti della giornata dediti al soddisfacimento dei bisogni della gola erano in linea di massima tre: il Jentaculum o prima colazione; il prandium, o pranzo di mezza giornata e la cena,  ovvero il pranzo di fine giornata.. Il Jentaculum e il prandium di solito erano ridotti a un misero spuntino consumato in fretta e furia durante le varie attività che caratterizzavano la giornata lavorativa e la loro importanza era talmente minima che frequentemente uno dei due veniva addirittura saltato. Il pasto più importante della giornata era la cena; era in questa occasione che l'uomo romano poteva assaporare i vari piatti più o meno elaborati, comodamente disteso sul triclinae e conversare con i suoi convitati. Alla cena ci si recava di solito dopo aver fatto il bagno alle terme, dove, tra l'altro si aveva l'occasione di incontrare i propri conoscenti e invitarli alla propria mensa, infatti le terme erano anche il ritrovo di molti sfaccendati che vi si recavano con la speranza di ricevere un invito da qualche amico. La cucina degli antichi romani era assai semplice e con pasti molto frugali. Il nutrimento essenziale era rappresentato dalla polenta di frumento (puls o pulmentus), da legumi (fave, ceci, lenticchie), da farro e da ortaggi. Nella preparazione della polenta, veniva utilizzato principalmente il farro (far) che era in linea di massima il cereale più coltivato in quel periodo; più tardi vennero utilizzati anche miglio, orzo, la farina di fave o di ceci. In ogni caso il prodotto più utilizzato restava il farro che poteva essere cotto sia in grani interi, sia macinato o frantumato nel mortaio e ridotto in polvere assumendo l'aspetto di ciò che noi chiamiamo farina (da far, farro). La polenta era preparata in un contenitore di terracotta detto pultarium dove al farro trattato si aggiungeva acqua, sale e un po’ di latte e a seconda dei gusti veniva arricchito con fave (puls fabata), cavoli, cipolle, formaggio (puls caseata) ed anche con alcuni pezzi di carne o di pesce; tutto ciò per darle un sapore più ricco, fino ad arrivare ad un vero e proprio miscuglio che conteneva un'infinità di ingredienti chiamato satura o satira ( da cui l'utilizzo moderno di queste due parole: saturazione e satira nel senso di battute o scherzi pesanti), che portava in breve tempo alla sazietà di chi lo mangiava. Con l'arrivo del pane sulle tavole, la polenta, che era stata l'alimento base per molto tempo, vide diminuire la sua importanza. Vi erano tre tipi di pane: il pane nero o pane dei poveri (panis plebeius o rusticus), il pane bianco anche se poco migliore del primo (panis secundarius) e il pane bianco di farina finissima o pane dei ricchi (panis candidus o mundus); il grano con cui era fatto arrivò ad avere un'importanza primaria, e i Romani arrivarono perfino alla promulgazione di leggi che regolavano la corretta distribuzione di questo prodotto ( cura annonae, lex Clodia, lex Sempronia frumentaria); furono organizzati speciali servizi di approvvigionamento, facendo arrivare il grano via mare da zone lontane, depositandolo in magazzini speciali per la successiva distribuzione alla popolazione sotto forma di grano in chicchi oppure come avvenne in un secondo momento, direttamente in pani già cotti.
Il pesce era un cibo molto diffuso, sia di fiume che di mare, sia quello allevato in grandi vivai (vivaria). I pesci utilizzati nella cucina romana erano di circa 150 specie, si andava da quelli delle tavole dei ricchi (orate, triglie, sogliole, dentici, trote ecc.) a quelli delle tavole dei poveri, più piccoli, di basso prezzo, di solito conservati in salamoia (menae, gerres ecc.). Molto richiesti erano anche aragoste, polpi, datteri, gamberi e ostriche. Le ostriche (ostrea) che Plinio definiva il "vanto delle mense opulente" erano molto ricercate, infatti molti ricchi avevano allevamenti personali, in modo che questo prezioso alimento non mancasse mai alla loro mensa. Per frutti di mare era stato fabbricato uno speciale cucchiaio a punta (cochler) con cui si aprivano e si vuotavano.
Anche se nella mensa romana erano più frequenti piatti a base di pesce, anche la carne aveva una sua importanza. Le carni più utilizzate erano quelle di bue e di maiale, ma non era raro trovare anche carne di cervo, di asino selvatico (onager), di cinghiale e di ghiro; di quest'ultimo, molto ricercato nelle tavole dei ricchi, esistevano anche alcuni allevamenti (gliraria) e veniva servito di solito disossato e farcito.
Molto utilizzata anche la carne di uccelli. Oltre alle specie classiche ancora da noi utilizzate (tordi, piccioni ecc.), venivano cucinati anche alcuni trampolieri in gran parte importati dalle varie regioni dell'impero, come i fenicotteri (se ne gustava in modo particolare la lingua), le cicogne e le grù. Piatto molto ricercato era quello a base di carne di pavone e di fagiano. In quanto al pollo, di cui oggi facciamo molto uso, era considerato carne poco pregiata e la si trovava per lo più nell'alimentazione dei poveri.
La carne veniva cucinata in moltissimi modi: arrosto, in umido e ripiena, con salse di vario genere. Le uova , di cui si preferiva la chiara al tuorlo, erano come si è detto molto apprezzate come antipasto o consumate rapidamente durante la giornata (Jentaculum e prandium). Dal latte si ricavavano formaggi freschi e secchi e dolci con aggiunta di miele, farina e frutta; il burro era poco utilizzato in cucina in quanto era usato come medicinale o come unguento per il corpo. Nelle opulente mense dei ricchi, in occasione di grandi banchetti i piatti di carne o di pesce, venivano preparati nei modi più fantasiosi; era in queste occasioni che i cuochi sfoderavano la loro arte culinaria, servendo in tavola piatti a base di carne camuffati in modo che avessero l'aspetto di uno stupendo pesce alla griglia o sotto forma di vere e proprie sculture a tema mitologico. Molto famosi sono i piatti serviti nell'ormai epica cena di Trimalcione, descritta da Petronio nel "Satiricon" e rievocata alcuni secoli dopo da Macrobio. Qui vengono serviti alcuni piatti dall'aspetto esageratamente fantasioso che però rispecchia il modo a volte sfacciato di alcuni ricchi romani, di ostentare la loro magnificenza; fra questi piatti viene servita una lepre con le ali in modo da raffigurare Pegaso, il cavallo alato di Bellerofonte, e una scrofa di cinghiale ripiena di tordi vivi con tanto di cinghialini, fatti di pasta, nell'atto di succhiare alle mammelle della madre.

IL GARUM
L'arte del saper cucinare non consisteva solo nel saper mascherare l'aspetto di un cibo, ma anche il suo sapore (anche perché i cuochi dell'epoca non disponendo dei moderni frigoriferi dovevano mascherare il sapore un po’ rancido di alcuni cibi non proprio freschi), questo veniva ottenuto con l'utilizzo di varie salse composte con ingredienti che avevano poco a che vedere con la pietanza principale del piatto; ad esempio l'aggiunta di salse di pesce o di frutta spiaccicata su ricette a base di carne. Fra queste la più importante era il garum (dal greco garon che era la specie di pesce utilizzata) o liquamen, una sorta di salsa ottenuta dalla macerazione sotto sale di interiora di pesce con olio, vino, aceto e pepe; lasciata a riposo per una notte in un recipiente di terracotta e messa all'aperto, al sole, per due o tre mesi, rimescolata ogni tanto in modo da farla fermentare. Quando la parte liquida si era ridotta per effetto del sole, si inseriva un cestino, il liquido che filtrava era la parte migliore e cioè il garum, la restante parte, lo scarto, era l'allec, la salsa secondaria. Il garum, avrebbe sicuramente avuto, per i nostri gusti, un odore e un sapore nauseabondo, anche se questo era già riconosciuto da personaggi dell’epoca, infatti Marziale, per descrivere un certo Papilo, un individuo repellente, in uno dei suoi Epigrammi dice: “  Unguentum fuerat, quod onyx modo parua gerebat: olfecit postquam Papylus, ecce garumst.” ( era un unguento profumato quello contenuto fino a poco fa in un vasetto di onice: dopo che l'ha annusato Papilo, ecco, è garum). Il garum era di solito un liquido chiaro dall’aspetto dorato, che si conservava bene in anfore e veniva utilizzato per aggiungere gusto saporito alle pietanze. Esso era presente in quasi tutti i piatti e, se saputo dosare, faceva la fortuna di molti cuochi. L’industria del garum era molto sviluppata nel Mediterraneo, quello più pregiato veniva prodotto in Spagna e aveva un prezzo molto elevato, tanto da essere paragonato al più caro dei profumi nonostante il suo acre odore. Veniva importato via mare in anfore con tanto di marchio del produttore e di anno di produzione. Una grande produzione veniva effettuata anche nella nostra penisola, di ottima qualità era quello prodotto a Pompei ( officina del garum degli Ombrici).




FRUTTA E VERDURE

Per quanto riguarda le verdure, si consumavano: lenticchie, fave, ceci, piselli, lattughe, cavoli, carote, rape, cipolle, zucche, carciofi e asparagi (più rari), cetrioli, erbe lassative come malve e bietole, menta e funghi (boleti) i quali erano molto ricercati. Le olive erano sempre presenti sia sulle tavole dei ricchi che su quelle dei poveri. L'olio di oliva fu una delle maggiori componenti dell'alimentazione dei Romani, usato anche per la medicina e per l'illuminazione; se ne trovava di varie qualità: l'olio vergine di prima spremitura (oleum flos), l'olio di seconda qualità (oleum sequens) e l'olio comunemente usato (oleum cibarium). Il consumo medio di olio di un cittadino romano era di circa 2 litri in un mese, Roma faceva la parte del leone in quanto è stato verificato che il Monte Testaccio ( un'autentica montagna artificiale formata da frammenti di anfore) è composta essenzialmente da resti di anfore olearie, in gran parte provenienti dalla regione della Betica (Spagna meridionale) che era il più grande esportatore di olio dell'epoca. La frutta era costituita da mele(mala),pere(pira), ciliegie(cerasa),susine(pruna),noci, mandorle( nux amygdala), castagne, uva( fresca e passa) e pesche. Dall’Armenia giungevano le albicocche che venivano usate spesso spiaccicate, ricavandone una salsa che accompagnava molti piatti di carne, dall’Africa arrivavano i datteri. La frutta oltre che consumata fresca veniva utilizzata anche per ricavarne marmellate ed era un componente importante per la preparazione di dolci. Il vino aveva un’importanza particolare per i Romani in quanto era la bevanda più amata e concludeva tutte le cene.


Veniva prodotta sia la qualità rossa (vinum atrum), sia la qualità bianca (vinum candidum), e commerciato in larga scala e addirittura si formarono anche alcune cooperative per la vendita di questa bevanda ( collegium); a Roma è stata verificata l'esistenza di un porto e di un mercato attrezzati essenzialmente per la vendita del vino ( portum vinarium e forum vinarium).Il vino era raramente limpido e veniva di solito filtrato con un passino (colum), si beveva quasi sempre allungato con acqua calda o fredda (in inverno a volte anche con neve) in modo da ridurne la gradazione alcolica di solito da 15/16 a 5/6 gradi. I tipi più pregiati erano il Massico e il Falerno (dalla Campania), il Cecubo, il Volturno, l' Albano e il Sabino (dal Lazio) e il Setino; i più scadenti erano il Veietano (come tutti i vini dell'Etruria era considerato di qualità scadente), quello del Vaticano e quello di Marsiglia ( i vini della Gallia narbonese venivano affumicati e spesso contraffatti ); vi erano anche alcuni vini resinati, ma considerati di cattiva qualità in quanto la resina si aggiungeva ai vini più scadenti in modo che si conservassero più a lungo. Sulle anfore utilizzate per il trasporto era impressa in una targhetta (pittacium) l'origine e la data di produzione per tutelare l'acquirente, anche se già in quell'epoca esistevano casi di adulterazione; ad esempio in una ricetta di Apicio si insegna a trasformare il vino rosso in bianco. I vini aromatizzati sono indicati sotto il nome di Aromatites, di Mirris, uno dei più apprezzati. Si aveva infatti l'abitudine di fare un vino aromatico, preparato all'incirca come i profumi, prima con mirra poi canna, giunco, cannella, zafferano e palma. Il Gustaticium è un vino aperitivo che si beve a digiuno prima del pasto, era un vino al quale si aggiungeva miele. Infine erano ricchi di vini medicinali, si mescolava vino e miele e il prodotto era chiamato Mulsum. Il Passum era un vino fatto con uve secche ma che serviva per i malati. Certe famiglie pompeiane si erano specializzate nella viticoltura e facevano invecchiare nelle cantine le anfore di mulsum. I vini invecchiati (quelli che avevano passato l'estate successiva alla data di produzione) erano di grande pregio sulle tavole dei ricchi Romani, i quali li ostentavano nei loro banchetti. Esistevano anche surrogati del vino come la lora, ricavata dalla fermentazione delle vinacce con acqua subito dopo la vendemmia e la posca, formata da acqua e vino inacidito (acetum). Il consumo del vino ebbe la sua espansione in epoca imperiale per lo più nelle zone di produzione e nelle grandi città come Roma dove per le enormi esigenze dovute all'alta densità della popolazione portarono anche ad una distribuzione gratuita di questa bevanda (imperatore Aureliano, ultimi decenni del III sec. d.C.) e al conseguente afflusso di grandi quantità di vino sia italico che di importazione. I prezzi andavano dai 30 denari al sestiario (0,54 l) per i vini pregiati (Falernum,Sorrentinum,Tiburtinum), ai 16 denari al sestiario per i vini di media qualità, agli 8 denari per i vini di basso pregio. Il consumo medio di vino in un anno è stato calcolato in 140 - 180 litri a persona, questo grande consumo si pensa che sia dovuto anche al grande apporto calorico che dava alla dieta romana costituita in gran parte da cereali e vegetali.


 

 

 

 

I RITI DEL CIBO NELL'ANTICA ROMA
Simbologia del banchetto

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 I discorsi negativi devono essere evitati o almeno prontamente esorcizzati: "Incendia inter epulas nominata aquis sub mensam profusis abominamur" (Plinio, Naturalis historiae libri, XXVIII, 26) Così l’aver parlato di incendi, può essere scongiurato versando acqua sotto il tavolo. Senza contare i pessimi auguri determinati dal fatto di spazzare il pavimento, quando qualcuno si allontana dal banchetto, o di togliere il portavivande, mentre un commensale sta bevendo: "Recedente aliquo ab epulis simul verri solum aut bibente conviva mensam vel repositorium tolli inauspicatissimum iudicatur". (Plinio, ibidem).
Nel contesto della mensa alcuni oggetti assumono valenze magiche, perciò, prima di accostarsi alla tavola, vige l’usanza di togliersi anelli e cinture, che simboleggiano i cerchi magici a delimitazione degli spazi posseduti dalle presenze demoniache. Le lucerne non devono essere spente a conclusione del pasto, per non disperdere la sacralità del fuoco. Scopae è strumento bivalente: purifica, ma allo stesso tempo rischia di allontanare i geni protettori della casa. Oltre tutto gli avanzi servono da nutrimento alle anime dei morti e nei tempi più antichi i resti del cibo erano portati in offerta sulle tombe. Nella dimensione simbolica del dono si spiega dunque la rappresentazione musiva pavimentale di certe nature morte, che effigiano proprio gli avanzi.
Molte delle credenze romane affondano le loro radici in paure talmente profonde, ma inconsciamente condivisibili da parte dell’animo umano, da essere tramandate anche a distanza di secoli. Ad esempio, l’avvertenza di sminuzzare sempre i gusci delle uova, dopo averle consumate, ha un singolare riscontro in un timore superstizioso diffuso in alcuni paesi dell’Italia: agli inizi del XX sec., si attribuiva alle "streghe" il sinistro potere di compiere sortilegi proprio con i gusci delle uova.
Ogni gesto dell’uomo romano aspira a stabilire una perfetta armonia con le forze del cosmo, pertanto le sale tricliniari devono essere ubicate in modo da seguire un corretto orientamento rispetto al sole: esposte ad ovest d’inverno, per sfruttare la luce pomeridiana; rivolte ad est in primavera e autunno, per catturare i raggi diretti del sole nascente e risultare perciò temperate al momento del pranzo; posizionate a nord in estate, allo scopo di offrire frescura e piacevolezza ai commensali. "Triclinia verna et autumnalia ad orientem; tum enim praetenta luminibus adversus solis impetus progrediens ad occidentem efficit ea temperata ad id tempus, quo opus solitum est uti. Aestiva ad septentrionem, quod ea regio, non ut reliquae per solstitium propter calorem efficiuntur aestuosae, ea quod est aversa a solis cursu, semper refrigerata et salubritatem et voluptatem in usu praestat" (Vitruvio, De architectura, VI, 4, 2).





7 commenti:

  1. Professoressa,lo trovo molto dettagliato,intenso e interessante. Non si finisce mai di imparare, grazie a lei sono riuscita a soddisfare molte delle mie curiosità riguardo i Romani. Distinti Saluti

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  2. Grazie Consuelo, sono lieta che tu abbia apprezzato il mio lavoro e, soprattutto che ti sia stato utile. Buon lavoro e..continua a seguirmi!!!!

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  3. Molto interessante. Grazie professoressa.

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  4. Molto bene fatto Interessantissimo

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  5. Complimenti! Bellissimo articolo con tanti rimandi.
    Ma la coena nelle tabernae, e quella del soldato?
    bravissima
    Federico Manzini

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  6. Davvero bello, ed anche divertente....grazie!

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  7. Molto interessante, grazie mille!

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