domenica 26 maggio 2013

IL BANCHETTO NELL'ANTICA GRECIA


Già nella società omerica, la mensa del banchetto era il centro dell'istituzione sociale; nella Grecia classica, i banchetti pubblici riunivano i cittadini attorno a interessi comuni e favorivano la gestione democratica degli affari; nella società spartana era obbligatoria, in base alla codificazione di Licurgo, la partecipazione degli uomini a pasti comuni .Dalla socialità conviviale (oltre che da quella simposiaca) erano comunque escluse le donne e i bambini, essendovi ammesse solo le etere che godevano di un particolare status.I banchetti tra amici avevano per i greci grande importanza; potevano essere offerti da uno di loro oppure indetti dai componenti di un tiaso che ne condividevano le spese. Spesso i convitati portavano con sé una canestro di vimini contenente dei cibi pronti, lo spyris che, in tante pitture vascolari, fa bella mostra di sé, appeso al muro, insieme al nodoso bastone da passeggio e al sybène, l'astuccio per aulòs. Questi banchetti erano perciò detti apò spyrìdos, cioè alla cesta, un'espressione che oggi possiamo tradurre con al sacco.Una volta riuniti a casa dell'ospite, i convitati si toglievano i sandali, si facevano lavare i piedi dagli schiavi e, dopo essersi posti sul capo corone di fiori o di foglie, si disponevano a due a due sui letti collocati attorno alle rispettive mense.Il banchetto si componeva di due parti: la prima (detta pròtai tràpezai = prime tavole), coincideva all'incirca col tramonto ed era il pasto vero e proprio, all'inizio del quale si faceva passare tra i convitati, che vi bevevano a turno, una coppa di vino. Il banchetto si teneva nell'arco di tempo in cui solitamente si consumava il pasto principale della giornata (gr. deípnon; lat. coena), tra il pomeriggio e il tramonto del sole. Col nome di banchetto o convito, s'intende, se ci si riferisce all'antichità classica, la forma più complessa e ricca del pasto comune; esso occupava una non piccola parte della giornata; non era esclusivamente sede di baldoria, ma modo usuale di convegno e di ricevimento, periodo di riposo dopo le faccende della giornata, occasione d'informarsi, di conversare, di discutere. Nell'età omerica il pasto principale è posto a metà della giornata; la colazione della mattina (ἄριστον) e lo spuntino serale (δόρπον) si consumano senz'alcun apparato, fornendosi dalla dispensiera (ταμίη) di quel poco che è necessario a una breve refezione. Il pasto principale, se ha un carattere più modesto (δεῖπνον), è apprestato dalle ancelle (Od., XV, 93-4); quando invece s'intende che abbia maggior consistenza e apparato (δαΐς), è servito da schiavi, talvolta da araldi. I commensali sono riuniti nella stanza principale del palazzo (μέγαρον), nella quale abitualmente stanno gli uomini, e i preparativi si fanno o nel μέγαρον stesso o nella corte (αὐλή) che vi dà accesso e dove gli animali sono uccisi e cotti. Gli animali che servono da cibo sono buoi, pecore, capre e porci. Il pollame non appare ancora conosciuto. Modo usuale di cottura è l'arrosto (un'allusione al lesso si ha in un'immagine dell'Il., 362-364). Prima dell'inizio del banchetto gli intervenuti si lavano le mani con l'acqua versata da ancelle o da araldi; un'abluzione simile avveniva alla fine del banchetto; tale abluzione non era suggerita soltanto da evidenti ragioni di pulizia personale, ma anche da quel carattere sacrale che ebbe il banchetto primitivo e di cui si conservarono tracce in tutta l'antichità. L'ospite che giunge da lontano, prima di essere introdotto nella sala del banchetto, è condotto a fare il bagno (Od., IV, 38-40, VIII, 424 segg. e passim).I commensali stavano seduti davanti a una piccola tavola (v. fig. 1; e cfr. Od., XXII, 19-21, 74) sulla quale venivano deposti i cibi e le coppe. Talvolta, invece, si facevano sedere i commensali davanti a un'unica tavola, naturalmente più grande (Il., IX, 216); ma anche in questo caso ciascuno aveva innanzi a sé porzioni separate. Non appartiene all'età omerica l'uso di cenare sdraiati, né d'incoronarsi durante il banchetto. Sulla piccola tavola individuale o sulla grande tavola in comune i servi, o gli araldi, o l'ospite stesso distribuivano a ciascuno dei commensali il pane, entro un cestino (κάνεον), e, su piatti (πίνακες), le carni già prima preparate dallo scalco (δαιτρός). Le donne non partecipavano al convito, ma v'intervenivano a farvi gli onori di casa, purché fosse presente il marito, come fa Elena a Sparta nella reggia di Menelao (Od., IV, 216 segg.) ed Arete, moglie di Alcinoo, nell'isola dei Feaci (Od., VII, 136-141; 231); al contrario Penelope, nell'assenza del marito compare solo raramente, accompagnata da ancelle e con i veli abbassati sul volto (Od., XVI, 413-416) sulla soglia del μέγαρον, dove i Proci stanno banchettando. Oltre al convito, che risponde al desiderio di riunirsi con i familiari e alle esigenze dell'ospitalità, troviamo menzionati in Omero:
1. il banchetto solenne che segue il sacrificio (Il., I, 458-474);
2. il banchetto nuziale celebrato fastosamente, con larghi inviti, canti, suoni (lira o flauto) e spettacoli di giuochi d'acrobazia;
3. il banchetto funebre (Il., XXIII, 29; XXIV, 802), prima o dopo la cremazione del cadavere, che può esser seguito da una gara agonistica;
4. il banchetto fra ἑταῖροι, cioè fra uomini appartenenti a uno stesso sodalizio (ἑταιρία) e uniti, in pace e in guerra, da vincoli di solidarietà.
Questa forma d'organizzazione, che in Omero appare propria della nobiltà, imponeva periodici banchetti nei quali gli intervenuti conducevano i figli maschi. L'essere esclusi o tollerati in tali riunioni significava non essere trattati da pari a pari dalla nobiltà del luogo (Il., XXII, 492; Od., XI, 185-187).Nell'età storica i costumi conviviali greci appaiono profondamente cambiati. Ci mancano gli elementi per una compiuta ricostruzione di tali usi che permetta di tener conto, per ciò che concerne il banchetto, della diversità di tempo, di luogo e di stirpi. Per giunta nell'età romana il banchetto romano e il greco si andarono uniformando, per cui le copiose informazioni che in questo periodo gli scrittori greci, e particolarmente Plutarco, ci forniscono sull'argomento, non possono servire a stabilire con sicurezza differenze fra il convito greco e il romano. I Greci dell'età classica pranzano stando sdraiati; i commensali di uno stesso letto talvolta si volgono le spalle, altre volte son posti l'uno di seguito all'altro. Le suonatrici stanno o in piedi (fig. 4), o sui letti degli uomini ora sdraiate, ora sedute . Si mangia, al solito, con le dita; raro il coltello, men raro il cucchiaio (μύστρον, μυστίλη). Va notato come greco, l'uso di pulirsi le mani, invece che con salviette, con pallottole di mollica di pane (ἀπομαγδαλίαι), che si gettavano ai cani. Il pasto maggiore (δεῖπνον) si fa la sera: semplici refezioni son quelle della mattina (ἀκράτισμα) e del mezzogiorno. Biasimevole raffinatezza è considerato il far due pasti forti nella giornata. Il tenore della vita greca nell'età classica e tra i Greci della madre patria generalmente è modesto; frugalissimo è il vitto anche presso i popoli tra i quali non vi è, come fra i Dori, l'obbligo del pasto in comune (συσσίτια), garanzia severa di sobrietà. Insolito risalto ha ,quindi, il convito che interrompe la quotidiana abitudine di un pasto modesto in famiglia e senza apparato; ne è occasione, come sempre, o un avvenimento importante che si suole solennizzare con il banchetto, o la consuetudine di riunioni periodiche fra amici; in quest'ultimo caso, ognuno contribuisce per la sua parte (ἀπὸ συμβολῶν o anche ἀπὸ σπυρίδος, dal panierino che i commensali portavano con sé e che talvolta vediamo rappresentato appeso alla parete. Anche in ciò che concerne il banchetto sembra a noi moderni che spiri quell'aria provinciale e borghese, caratteristica della vita privata greca, e a cui dà risalto, con il confronto, la signorile larghezza dei Romani. Agli ospiti gli schiavi di casa tolgono i calzari  e lavano i piedi facendoli poi adagiare nei letti (κλῖναι) secondo l'ordine predisposto dal padrone, di regola due per ogni letto (non tre come presso i Romani); quindi viene offerta l'acqua per l'abluzione alle mani, si avvicinano le tavole una per ogni letto e il banchetto comincia. Il convito greco constava di due momenti: il δεῖπνον e le δεύτεραι cioè il dessert; solo nell'età imperiale s'introdusse l'uso romano dell'antipasto. Terminato il δεῖπνον si facevano abluzioni e s'invocava l'ἀγαϑὸς δαίμων, libando vino puro; dopo di che venivano cambiate le tavole. Il dessert era formato di seccumi, cacio, sale, cibi atti a eccitar la sete; si usava anche leccare delle gallette salate (ἐπίπαστα λείχειν).Col dessert aveva principio il simposio(συμπόσιον).Gl'intervenuti, coronatisi di fiori e cosparsi di abbondante unguento, eleggevano con i dadi o per acclamazione il re del simposio (ἄρχων, βασιλεύς), secondo le cui ingiunzioni si beveva. Normalmente la preparazione dei crateri e le libazioni si facevano a suon di flauto  e bruciando incenso. Oltre alla conversazione, intramezzata da libazioni e da brindisi, allietavano il simposio i canti (σκόλια; anche il peana fu in origine un canto simposiaco), o la recitazione di antichi poeti per lunga tradizione accetti ai simposî; qualche volta si assisteva a spettacoli di equilibrio e di acrobazia (Senof., Symp., II, 7 segg.). Vi era anche l'uso di giocare, non esclusi i giuochi d'azzardo; di gran voga fu per secoli (VI-III a. C.) un giuoco d'abilità, detto il cottabo (κότταβος: cottabo).I preparativi per la lussuosa imbandigione del banchetto affaccendano molti servi; sono cucinate le carni del bue, del capretto, della lepre, del pollame e della cacciagione. Il carattere rituale del banchetto appare dalla presenza del flautista. Anche il pane è impastato a suon di flauto (cfr. Alcimo, in Ateneo, XII, p. 518 b).

COME SI PRESENTAVANO I PIATTI.

A partire dal secondo secolo a.C. si usava servire pietanze artisticamente impiattate su preziosi vassoi di argento. Le pesanti portate arrivavano sorrette a volte da più schiavi che le appoggiavano su elegantissimi supporti mobili, sostegni che venivano sistemati dopo che tutti i commensali avevano preso posto e venivano rapidamente tolti alla fine del banchetto. A volte nelle case ricche ve ne erano diversi, ognuno disegnato e creato per uno speciale vassoio, così che li si cambiava ad ogni portata. Si trattava generalmente di oggetti di valore, costruiti con legni rari ed intarsiati di avorio. Alcuni erano addirittura in argento come alcuni bellissimi sostegni di vassoi che si vedono rappresentati negli affreschi dell'epoca. Vediamo infatti la descrizione del vassoio che appare nel Satiricon, mirabolante e con un coperchio emisferico che veniva tolto per rivelare una complessa presentazione. E questo vassoio descritto da Petronio non è soltanto un invenzione: oggetti del genere esistevano nel mondo romano. Uno simile è persino affrescato sulle pareti di un piccolo triclinio della villa di Oplontis. Se si tiene a mente che negli affreschi pompeiani si usava rappresentare gli oggetti più preziosi della famiglia, si realizza che probabilmente esso faceva parte della suppellettile della casa. Nella presentazione di questo vassoio che si trova nel Satiricon, il trionfo centrale, circondato da pollastre ed altre delicatezze, era costituito da una lepre guarnita di ali in modo da rappresentare Pegaso, il mitologico cavallo alato. Attorno a questa parte centrale vi era poi una canaletta nella quale erano stati impiattati pesci che sembrava nuotassero nella salsa. Altri modi di impiattare spettacolari, consistevano nel portare a tavola animali cucinati interi: grossi pesci, cinghiali, maiali e persino vitelli. Dato che la gente mangiava con le dita e non aveva posate essi andavano tagliati a pezzi di dimensioni possibili. Per questo esistevano gli scalchi, servitori che seguivano speciali scuole, come quella tenuta alla Suburra da un tal Trifero. Era da lui che essi venivano addestrati su come tagliare in modo perfetto e rapido qualsiasi arrosto. Essi, travestiti a volte da personaggi mitologici, venivano al seguito del vassoio, e si scagliavano sull'animale da affettare come se fosse un pericoloso nemico, facendo dell'operazione di dividerlo in pezzi uno spettacolo. Ormai qualsiasi portata veniva presentata con molta ricercatezza. Anche i pasticceri ricorrevano a presentazioni spettacolari per i loro dolci. Nel banchetto di Trimalcione il dessert è addirittura una statua di pasta dolce rappresentante Priapo mentre sorregge nel grembo della veste ogni genere di frutta, un tipo questo molto frequente nella statuaria. Tutto questo naturalmente non era limitato al banchetto di Trimalcione. Anche se in esso tutto è forzato e caricaturato per poter far ridere il lettore, il tipo di presentazione dei cibi doveva comunque esser simile a quello descritto da Petronio e queste portate dovevano far parte di molti banchetti compreso quello imperiale. Ormai in tutte le case quando si offriva una cena si seguiva il tipico schema del banchetto romano che partiva dalle uova sode, passava attraverso gli antipasti più complicati, gli arrosti più saporiti ed approdava infine ai dolci, alla frutta, ai fiori ed ai profumi distribuiti durante il simposio. Dopo la cena c’era poi il dopo cena, quel simposio che ha sempre fatto parte di tutti i banchetti dell'antichità. A Roma era molto più morigerato di quello dell'epoca d'oro greca. Ma questo era da prevedersi, in quanto ai banchetti romani, a differenza di quelli greci, partecipavano spesso mogli e figlie dei convitati e quindi bisognava comportarsi bene. Lo spettacolo più spinto che poteva aver luogo nella riunione romana era quello che veniva offerto dalle ballerine gaditane, graziose fanciulle spagnole che danzavano agitando i fianchi a suon di nacchere mentre attorno a loro tutti battevano ritmicamente le mani, più o meno come si fa ancor oggi in Andalusia. Anche se ogni tanto qualche poeta le criticava trovandole troppo spinte non sembra che le povere figliole offrissero ragione di scandalo e, infatti, pare che molti mariti vi assistessero con a fianco le proprie spose. Per il resto si chiacchierava e si beveva secondo uno speciale cerimoniale. I vini che venivano serviti erano ormai squisiti. I Romani potevano permetterselo perché erano senza discussione i padroni del mondo. I migliori erano sempre quelli che si importavano dalla Grecia, ma ormai anche in Italia se ne produceva di eccellenti. Li elencano i poeti quando descrivono i lunghi dopo cena romani. Anche a Roma come ad Atene si eleggeva uno dei convitati che dirigesse il simposio: in latino egli veniva chiamato magister bibendi , ossia "direttore del bere" e dava disposizioni sul come si dovesse preparare la mistura di vino ed acqua decidendo poi a chi bisognasse brindare. Ciò voleva anche dire che egli finiva con lo stabilire quanto si dovesse bere: infatti quando i Romani brindavano alla salute di qualcuno tracannavano tante coppette quante erano le lettere che componevano il nome del festeggiato ed i nomi romani era particolarmente lunghi. Grazie al cielo il vino era solitamente molto diluito: si usava mettere tre parti di acqua per una di vino. D'inverno si aggiungeva acqua bollente e, a volte, per averla sempre pronta si usavano interessanti bollitori che funzionavano con lo stesso sistema dei samovar russi. D'estate il vino veniva invece allungato con la neve raccolta d'inverno sulle cime dei monti ed immagazzinata in depositi sotterranei dove, coperta di paglia, si conservava per tutta l’estate. I più belli tra questi depositi sono quelli principeschi di Villa Adriana, che, scavati nel tufo, sono costituiti da una serie di gallerie messe ortogonalmente a quinconce ai lati di un canale di servizio. Questo ha un fondo a sezione concava ed un'inclinazione verso settentrione necessaria per il deflusso dell'acqua di fusione. La neve, una volta immagazzinata e ben stivata nei bracci laterali, veniva sigillata con paglia e fieno. Dato che si intaccava un braccio per volta, gli altri lasciati chiusi ed intatti potevano durare moltissimo, soprattutto perché l'intonaco, che rivestiva questi speciali depositi, era leggerissimo, e formava una sorta di enorme thermos nel quale la neve si conservava bene. Nell'antica Roma se ne usava molta: essa serviva per preparare speciali piatti ghiacciati; per confezionare sorbetti e, quando d'estate il sole faceva riscaldare l'acqua nelle piscine delle terme, era sempre con la neve che la si faceva freddare. Ma l'uso più diffuso era, come sempre, quello di far gelare le bibite durante il periodo caldo. In quella stagione non c'era triclinio e cena elegante che ne facessero a meno e con vino ghiacciato si chiudeva il banchetto estivo. Era quasi sempre buio quando i convitati sazi e leggermente brilli salutavano il loro ospite. Quasi sempre la cena prendeva fine al tramonto, ma quando ci si avviava al tetto domestico si aveva spesso bisogno di torce o di lanterne e, quando non si era ricchi ed accompagnati da forti ed atletici schiavi, bisognava pregare tutti gli dei di esser salvati dai cattivi incontri: le strade erano piene di banditi e di rissosi ubriaconi. Era fortunato colui che riusciva ad arrivare sano e salvo al proprio letto. A volte però era proprio a casa che iniziava la battaglia. Qui ad attendere l'amato compagno vi era spesso una moglie od un'amante: comunque una donna amareggiata che si sentiva offesa e che pensava di esser stata abbandonata e trascurata.


LE DONNE E IL BANCHETTO


Non tutte le donne partecipavano alle allegre cene Greche e a quelle di famiglia era addirittura proibito porre piede nel grande salone destinato ai festini maschili: l'andron, ossia "l'appartamento degli uomini", posto vicino all'ingresso. Alcune etere furono famose. Erano donne belle, intelligenti ed istruitissime. Esse infatti seguivano anche le scuole dei filosofi celebri e, dormendo con essi, finivano con l'avere anche un ottimo doposcuola. A volte esse si legavano con un contratto a tempo determinato a qualche ricco gaudente: si impegnavano così ad accompagnarlo per un certo numero di anni a tutti i banchetti e, sempre per lo stesso periodo, si astenevano dall'avere relazioni con altri uomini. Sia per questi impegni a lunga scadenza, sia per le prestazioni occasionali le loro tariffe erano altissime e una volta raggiunta l'età matura e, con essa, la chiusura della loro carriera attiva, diventavano pie donne, dedite alla religione ed arricchivano i templi con i loro voti, statue e donazioni. Le etere in pose e situazioni spinte compaiono spesso nelle scene di banchetto rappresentate sulla ceramica greca. Si trattava ovviamente di suppellettili da simposio, sempre scollacciata e suggestiva in quanto destinata a quelle riunioni per uomini soli nelle quali donne di quel tipo coprivano logicamente una parte di primo piano. Dato però questo loro ruolo è chiaro che al banchetto greco non potessero intervenire le altre donne, quelle per bene: mogli, figlie, sorelle e madri. Queste partecipavano esclusivamente alle cene di famiglia che venivano apparecchiate nelle parti più intime della casa. Durante questi pasti familiari gli uomini non stavano più come nell'andron nudi con soltanto un leggero drappo posto a velare la parte inferiore del loro corpo, ma si sdraiavano sul letto tricliniare correttamente vestiti di tutto punto, mentre le loro donne prendevano posto su seggiole. Cenare seduti era segno di sottomissione e lo facevano tutti i sottoposti. Quindi sedeva la donna che era legittima proprietà del maschio dominante ed oltre a lei sedevano anche tutti gli inferiori. A questo modo cenavano i ragazzi anche se di famiglie di ceto elevatissimo e non soltanto questi: in Macedonia un uomo non poteva mangiare sdraiato fino a che non avesse infilzato con la sua lancia e senza l'aiuto di reti o di trappole un cinghiale selvaggio e probabilmente inferocito. Perciò all'età di 35 anni Cassandro, un cacciatore, che pur essendo bravo e coraggioso non era ai riuscito ad infilzare con una lancia il suo cinghiale, mangiava ancora su una seggiola. 

IL VINO E IL SIMPOSIO

Bevanda di elezione del banchetto antico in epoca classica era naturalmente il vino. Euripide nella sua Bacchica scriveva "Il vino, antidoto di ogni dolore, venne donato ai mortali: senza vino l'amore non vive ed ogni altra gioia muore". Tutti gli altri poeti annuivano limitandosi a suggerire una certa moderazione perché, come diceva Antifane "Se un uomo beve continuamente si istupidisce. Solo se beve moderatamente si riempie di nuove idee”. Anticamente si pensava che il vino andasse sempre diluito perché puro avrebbe portato alla distruzione del corpo. Nonostante questo c'era chi lo beveva così e ne beveva anche molto. Alessandro Magno, ad esempio, lo aveva sempre fatto ed era uso ad esagerare. Si sussurrava, anzi, che questa fosse la ragione di quella sua frigidità che sempre tanto aveva preoccupato i suoi genitori, ma che non doveva poi essere tanto terribile visto che nelle sue campagne si era sempre portato appresso la famosa Thais e con quello che un'etera di lusso costava a quell'epoca doveva pur in qualche modo sfruttarla. Sempre per il vino puro si diceva che fosse impazzito Cleomene, lo Spartano il quale, essendo vissuto molto con gli Sciti, aveva da loro presa l'abitudine di berlo così. Questa abitudine degli Sciti era tanto nota nell'antichità che i Greci con "bere alla scita" indicavano il bere vino puro ed a questo attribuivano ogni male. Perciò tutti lo bevevano annacquato. Quando si doveva annacquare il vino si usava prima mettere l'acqua e poi aggiungere il vino (Xenofane, Anacreonte, ecc.). Nella sala del triclinio vi era sempre una tavola sulla quale veniva disposta tutta la suppellettile del simposio: le brocche per il vino dette oinochoe, quelle per l'acqua, gli attingitoi, i misurini, le coppe ed il grande recipiente nel quale si preparava la mistura. Questi corredi per il simposio erano a volte ricchissimi e foggiati in materiale prezioso. Le proporzioni nelle quali bisognava mescolare l'acqua con il vino venivano stabilite volta per volta da uno dei convitati eletto dai suoi commensali alla carica di simposiarca. Questo direttore del simposio fissava anche il numero e la modalità dei brindisi. Le diluizioni preferite, dopo aver scartato quella metà acqua e metà vino, che era ancora giudicata pericolosa per la salute, erano quelle che venivano chiamate a cinque ed a tre. La proporzione di cinque era formata da tre parti d'acqua e due di vino; quella a tre era invece formata di due parti di acqua per una di vino. Esisteva anche quella a quattro, ma questa mistura, molto annacquata, veniva da Plutarco definita come buona soltanto per saggi magistrati. D'inverno il vino veniva diluito con acqua calda; d'estate con quella fredda. Quando faceva molto caldo si usava la neve che Simonide diceva raccolta sulle pendici dell'Olimpo. Si consigliava pure di non bere molto. Eubulo fa dire a Dioniso che le persone morigerate bevevano soltanto tre coppe: una per il brindisi, una per l'amore ed una per il sonno. A questo punto il saggio doveva terminare la serata ed andare a casa. Se restava, infatti, e continuava a bere avrebbe fatalmente scoperto che :
·         la quarta coppa apparteneva alla violenza,
·         la quinta al chiasso, la sesta all'allegria dell'ubriachezza;
·         la settima alla rissa (agli occhi neri, come si diceva in greco);
·         l'ottava al tribunale;
·         la nona all'attacco di fegato;
·         la decima alla follia ed alla distruzione del mobilio. 

Dati gli effetti su elencati che si avevano nonostante la forte diluizione, il vino prodotto a quelle epoche doveva avere una forte gradazione alcoolica. Quello che è certo è che il vino greco era considerato il migliore del mondo antico e spesso si cercò di imitarlo. Catone, Varrone e Columella e tutti gli scrittori antichi che si occuparono di agricoltura diedero ricette e consigli per "fare vino greco" il quale, pare, si ottenesse mescolando al mosto una certa quantità di acqua di mare: a quel che si diceva questo rendeva il vino più dolce. Trattato a questo modo era il Myndio, tanto che il cinico Menippo chiamava gli abitanti di Myndo, bevitori di acqua marina; c'era poi il vino di Alicarnasso ed anche quello di Coos nel quale l'aggiunta era notevole mentre meno se ne metteva in quello di Rodi. Si diceva che i vini trattati con acqua di mare non causassero mai mal di testa, fossero lassativi, ridestassero i succhi gastrici ed aiutassero la digestione. Insomma avrebbero dovuto essere un vero e proprio toccasana. Uno dei migliori vini greci era il rosso di Chio. C'era poi il Thasio che doveva essere particolarmente buono se Antidoto scriveva "Riempi la mia coppa di vino thasio, poiché non importa quale sia la cura che tortura il mio animo; quando lo bevo il mio cuore guarisce istantaneamente”. Molto quotato era il Pramnio di Lesbo. Il vino di Lesbo, secondo Archestrato, era un vino superlativo: egli poteva anche ammettere che esistessero altri vini buoni, ma affermava che nessuno di essi reggeva il suo confronto. Molto buono pare fosse anche il vino di Nasso ed Archiloco, che di vino se ne intendeva, lo paragonava al nettare. Il poeta scriveva: "Dalla mia lancia dipende il mio pane; dalla mia lancia il vino ismarico ed appoggiato alla mia lancia io lo bevo" . Di altri vini si registrano caratteristiche assurde e stravaganti. Così Teofrasto nella sua storia delle piante raccontava che ad Erea in Arcadia si produceva un vino che causava pazzia negli uomini che lo bevevano mentre metteva incinte le donne che si azzardavano a gustarlo. E’ vero che vi era poi un altro vino, il Trezenio, che teneva il posto della moderna pillola antifecondativa ed uno che faceva abortire; anzi pare che bastasse mangiare un grappolo dell'uva con la quale esso si produceva per ottenere questo effetto. A Tasos gli abitanti erano persino riusciti a produrre un vino che teneva svegli ed un altro che faceva dormire e può darsi che col potere della suggestione tutto questo funzionasse.

IL CIBO E GLI ALIMENTI

L'alimentazione del mondo ellenistico fu molto più raffinata ed elaborata di quella che ebbe vigore in un mondo ancora ristretto nei confini dei secoli precedenti. Gli ingredienti non variarono molto da quelli già in uso anche se vi poté essere l'importazione di qualche pianta o spezia proveniente dai lontani paesi raggiunti dall'esercito macedone. Quella che cambiò fu invece la gastronomia grandemente influenzata dai costumi alimentari persiani e babilonesi che da quelli della Magna Grecia dove molte città avevano raggiunto un grado di civiltà ed opulenza molto elevato. Nell'Edifagetica Archestrato, indicava quali pesci, crostacei o molluschi convenisse comprare in una data città o isola, quale fosse la migliore stagione per mangiarli e come andassero cucinati. Brevemente poi Archestrato soffermava la sua attenzione anche sui consigli in generale: sul banchetto, sul menu e soprattutto su cosa offrire con gli aperitivi o cosa dare da sgranocchiare durante gli interminabili simposi: "Incorona sempre il tuo capo con corone di ogni genere di fiore che la felice terra produce - cantava in esametri Archestrato -, ed orna i tuoi capelli con profumato unguento distillato. Durante tutto il giorno (del banchetto) spargi senza sosta mirra e incenso, frutti della olezzante Siria, sulle soffici ceneri del fuoco. Poi, mentre sorseggerai il tuo vino fatti portare questo: pancetta di maiale e matrice di scrofa bollita da immergere in una salsa di cumino, aceto e silfio. Con questo ti venga anche servita arrosto tutta la tribù degli uccelletti di stagione. Non fare come quei Siracusani che bevono come ranocchi senza mangiare niente. Non imitarli e mangia quello che ti ho detto. Tutte le altre cose che si servono col vino - ceci, fave, mele e fichi secchi - sono indice di nera miseria. Accetta soltanto quella pancetta che si fa ad Atene; o, se non la trovi e te ne portano una fatta da qualche altra parte, chiedi almeno che essa ti venga servita con un po’ di miele attico, poiché questo la renderà deliziosa”. Dopo questi preliminari Archestrato entra nel vivo del suo argomento che riguarda i prodotti del mare ed ormai nel III secolo a.C. il pesce aveva assunto un'importanza fondamentale nell'alimentazione. I nomi dei pesci che il poeta consiglia di assaggiare sono moltissimi. Certamente molti più di quelli che si possano oggi trovare su un mercato moderno per quanto ben fornito esso sia; molti saranno addirittura sconosciuti alla maggior parte dei lettori. Ad esempio la torpedine che Archestrato consiglia di mangiare stufata. Un altro pesce che affascina Archestrato è stranamente il pescecane del quale scrive un'appassionata  difesa, inoltre vanta la bontà dei bianchetti di Atene che egli consiglia di friggere misti con anemoni di mare. Loda i tranci di pesce spada ed il trancio del tonno  che si mangia alla fine della primavera e che consiglia di arrostire semplicemente in graticola con olio e sale, spruzzandolo poi con quell'aceto che noi oggi usiamo sostituire col limone. E’ interessante notare che in tutte le sue ricette Archestrato usa come condimenti soltanto olio, aceto, vino, odori freschi, erbette, semi di cumino e di sesamo e sale puro. A volte usa il silfio, ma moderatamente e non impiega mai il garum.

“IL GALATEO” DEL BANCHETTO

Nel periodo immediatamente successivo al VI secolo che la mensa subisce una vera e propria rivoluzione e nasce quella che sarà poi la forma tradizionale della cena classica: i clinai divengono lussuosi, i materassi e cuscini morbidi, i drappi per coprirli eleganti. La suppellettile che si ritrova nelle tombe è spesso ricca e preziosa e nei musei si ammirano le graziose fialette per i profumi che venivano offerti ai convitati nel corso di tutti i banchetti compreso quello eterno della morte e troviamo quelle corone conviviali foggiate con l'immortale oro che nella realtà della vita quotidiana erano più spesso intrecciate con corolle profumate. Nel banchetto erano ammesse volgarità e comportamenti mai esistiti in epoca omerica. Ad esempio, come nota anche Ateneo, ogni qual volta durante le antiche cene nasceva un disaccordo tra gli eroi di Omero, essi si scagliavano l'uno contro l'altro come tigri e fra loro nascevano liti furiose, ma la scena non degenerava mai nello scurrile: quei colossi cercavano al massimo di ammazzarsi tra loro, astenendosi correttamente da atti volgari e di cattivo gusto come quelli che in epoche posteriori verranno loro attribuiti dagli scrittori del V sec. a.C., incidenti che a questi dovevano sembrare normali dato che chi li riferiva doveva avervi frequentemente assistito. Così Eschilo in una commedia satirica, attribuendo i costumi della sua epoca agli eroi omerici riuniti a cenare, li immagina talmente ubriachi da cominciare a rompersi sulla testa i loro vasi da notte. Sofocle anche lui si compiace nel descrivere una simile scena e nel Commensale Acheo scrive " Ma in un attacco d'ira mi gettò il maleodorante vaso e non mancò il bersaglio!". Questo nei poemi omerici non capita mai: persino quando gli scostumatissimi Proci ubbriachi fradici si infuriano con Ulisse, l'unica cosa che gli scagliano contro è un piede di bue. Non c'è dubbio che, se i Proci avessero avuto il costume di portarsi a cena i vasi da notte, li avrebbero usati e magari con entusiasmo, ma evidentemente a quei tempi questo non si faceva ancora. Non c'è però dubbio alcuno che nel V sec. a.C. questi utili, ma certamente poco profumati recipienti, erano divenuti un accessorio indispensabile della mensa. Alla domanda di Eupolis che si chiede "Chi fu per primo colui che a metà del simposio gridò "Ragazzo! Portami il vaso da notte!" non si può rispondere altro che fu certamente un contemporaneo di Sofocle e che, sfortunatamente, questo tale riuscì a lanciare una moda. Nella ceramica dell'epoca troviamo persino la rappresentazione di questi recipienti e su una coppa viene presentato un tale che ad un banchetto soddisfa i suoi bisogni adoperando l'apposito arnese: un recipiente di forma particolare. Una bella flautista, praticamente nuda sotto il drappo che veniva usato quando ci si sdraiava sul letto tricliniare per coprire la parte inferiore del corpo, si appoggia a lui suonando un gaio motivo conviviale e non sembra affatto interessata o scandalizzata dalla scena. L'usanza del vaso da notte passò poi nel resto del mondo classico greco e romano e continuò fin nelle epoche più tarde interrotta soltanto dal raffinatissimo Adriano che risolse il problema circondando i suoi triclini di eleganti latrine individuali, mantenute scrupolosamente pulite dall'acqua che vi scorreva in continuazione. Ma anche il geniale imperatore non poté far scomparire l'uso di questi utili ma indecenti arnesi e dopo di lui i vasi da notte ripresero trionfalmente il loro posto nelle cene eleganti.Naturalmente per queste riunioni gli artigiani dell'epoca crearono recipienti molto eleganti ed in metalli preziosi. Ci fu chi se li fece foggiare in onice ed Eliogabalo arrivò persino ad usare per essi la murrina, la misteriosa pietra dura nella quale si intagliavano le preziosissime e costosissime coppe murrine: tutti materiali che sembrano davvero sprecati per tale uso anche se si capisce che, dovendo usarli in pubblico, la gente preferisse vasi da notte speciali e, per così dire, da parata. E’ probabile che di materiale prezioso venissero  fatti soltanto quelli destinati agli uomini e quindi quelli che venivano usati anche durante il banchetto. Infatti non vi fu mai bisogno di particolare eleganza per gli scaphia a forma di barchetta destinati alle donne: essi non venivano mostrati coram populo o almeno non lo furono nel mondo greco dove mogli e figlie non parteciparono mai alla cena con estranei.





Nessun commento:

Posta un commento