sabato 2 novembre 2013

Analisi del testo: " Spesso il male di vivere ho incontrato" di Eugenio Montale




“ Spesso il male di vivere ho incontrato” di Eugenio Montale


Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.





Testo emblematico della produzione poetica montaliana la quale riflette, soprattutto nella sua prima fase, la consapevolezza di un mondo dominato dall’incertezza e dalla contraddizione, la lirica Spesso il male di vivere ho incontrato esprime il modo di una tipica condizione di malessere esistenziale. Inclusa nella raccolta “Ossi di seppia”, apparsa nel 1925, il cui titolo allude, quasi in veste di “correlativo oggettivo” d’apertura, all’aridità e all’estraneità del vivere dell’uomo contemporaneo, essa presenta non in forma concettuale o analogica, bensì in maniera emblematica il senso indecifrabile dell’esistenza. Tale operazione letteraria va collocata e intesa all’interno di un più ampio quadro storico-culturale che configura, agli inizi del Novecento, una situazione di crisi, peraltro già avvertita alla fine del secolo precedente, la quale, venuto meno il rapporto diretto con la realtà e la fiducia di stampo positivista, determina l’emergere di nuove e, per certi aspetti, “sovversive” tendenze letterarie. La conseguente sensazione di precarietà e insicurezza, connessa, sul piano culturale, alla “perdita d ’aureola” del poeta o di quello ideologo e mediatore, su quello storico, alla tragica esperienza della Grande Guerra e alla situazione di instabilità che, negli anni successivi alla sua conclusione, agevoleranno l’affermarsi del fascismo prima, del nazismo poi, determinano il momento rivoluzionario delle Avanguardie e la tendenza all’Espressionismo cui seguirà, negli anni Venti, un complessivo ritorno all’ordine, rappresentato in Italia dalla rivista “ La Ronda”. E’ significativo che proprio nel 1925, anno in cui il fascismo si trasforma in regime esca “ Ossi di seppia” di Montale, raccolta ispirata a un ripiegamento esistenziale di tipo post-espressionista. Le soluzioni stilistiche e formali e le scelte tematiche del poeta , in cui alcuni critici hanno rintracciato influenze di Camillo Sbarbaro e di Thomas Eliot (è quest’ultimo ad aver usato l’espressione correlativo oggettivo) , tra i contemporanei, la presenza di Leopardi tra i predecessori, dunque, riconducibili ad un senso di negatività assoluta e ad un “ male di vivere” che diventa una condizione storica ed individuale colta nel suo aspetto misterioso si estende all’intera dimensione dell’esistenza, colta nel suo aspetto misterioso e incomprensibile. Sottoposto a spinte di tendenze poetiche diverse, tra le quali è opportuno ricordare non solo quelle simboliste desunte sia da dalla poesia francese sia da quella italiana(da Pascoli e soprattutto da D’Annunzio) ma anche quella dantesca(sotto l’influenza di Eliot), il libro del 1925 è stato paragonato ad una sorta di “ romanzo di formazione” attraverso il quale l’autore, a partire dallo smemoramento nella natura cui segue il disincanto della maturità, perviene alla coscienza morale quale stoica accettazione della vita su una terra desolata in cui ognuno deve essere chiamato a compiere il proprio dovere al di sopra e al di fuori di ogni compenso. Le tappe di questo itinerario poetico, il cui approdo sembra non smentire l’influenza leopardiana, sono scandite dalle quattro sezioni  di Ossi di seppia che accoglie nella sezione omonima( la seconda) “Spesso il male di vivere ho incontrato”, lirica in cui domina il motivo dello scarto, dell’ osso di seppia, appunto, gettato dal mare sulla terra, escluso dalla natura e dalla felicità. La ripetizione anaforica del titolo al primo verso sembra, infatti, sottolineare questa condizione il cui concetto, il male di vivere, si materializza nell’opzione per un verbo, come “ incontrare”, il quale determina una identificazione diretta dell’oggetto, emblematicamente rappresentato attraverso una presenza reale e fisicamente tangibile: il rivo strozzato, la foglia riarsa, il cavallo stramazzato. Il “male di vivere”, essendo ormai stato posto in crisi il simbolismo, non viene evocato in senso metaforico e analogico, ma concretamente reso tramite il ricorso al correlativo oggettivo. Si conclude così il primo momento della poesia , coincidente da un punto di vista metrico con la prima quartina, cui segue, secondo una struttura binaria, la rappresentazione del “bene”, anch’esso individuato, nella seconda quartina, in immagini simmetricamente collocate rispetto a quelle precedenti: la statua, la nuvola, il falco. In opposizione al male di vivere non vi è per Montale altro bene che l’imperturbabilità( la statua), la distanza(la nuvola), la chiaroveggenza( forse espressa dal falco che vola al di sopra della miseria del mondo): la natura di tale bene è, allora, tutta pessimistica e, comunque, individuabile in un atteggiamento di stoico distacco, come quello proprio della divinità( “ la divina Indifferenza”) la quale, in senso leopardiano, resta passiva e insensibile di fronte alle gioie e ai dolori degli uomini. Gli oggetti sono, dunque, emblemi, moderne allegorie in cui è trascritto in un linguaggio cifrato, il destino dell’uomo e del poeta il cui malessere esistenziale è reso a partire dal livello fonico- timbrico in virtù di uno straordinario gioco di equivalenze sonore e di parallelismi fonici. Le allitterazioni delle liquide /r/l/( si noti anche la triplice assonanza di quest’ultima al v.9), spesso unite ad altra consonante, quasi a renderne più faticosa la pronuncia( per esempio “ rivo” v.2 “cavallo” v.4) oppure precedute dalle vocali /e/a/( come in “era”- “ incartocciarsi” v.3 , “riarsa” v.4); quella della /s/ al v. 7 ( “statua…sonnolenza”); l’assonanza ricorrente /e/o/ che accosta parole semanticamente opposte tra loro( come stramazzato-levato); la reiterazione del suono /f/( “foglia” v.3, “ Indifferenza” v.6, “falco” v.8)in parole tra cui si instaura un rapporto di progressivo allontanamento a livello di significato implicito; l’asprezza spigolosa di certi termini (“strozzato”- “gorgoglia”- “incartocciarsi”) determinano sul piano acustico, un effetto di tormento affannoso, di lentezza mortale, di ineluttabilità nonché il senso di una vita arida e scheletrica. Anche la rima, oltre a produrre echi e rimandi sonori immediatamente fruibili, svolge una funzione espressiva, arricchendo e potenziando, per analogia o opposizione, le parole “compagne di rima”  creando particolari effetti nel caso di rime interne al testo. Per quanto riguarda l’aspetto metrico occorre precisare che, anche in questo caso, è possibile cogliere un’evoluzione che, a partire da un’oscillazione tra le forme aperte e il verso libero, da un lato, e forme chiuse più consuete, conduca ad un recupero in chiave moderna della tradizione, evidenziabile in testi poetici come quello in questione.  Questo, infatti, risulta costituito da due strofe  o quartine di endecasillabi, con l’eccezione dell’ultimo verso, che presenta un metro martelliano o doppio settenario., il primo dei quali è sdrucciolo: tale combinazione, insieme all’alternanza di endecasillabi a maiore e a minore, alla presenza della sinalefe( vv. 1-2-4-6-8) ricorrente ben due volte in fine di strofa, alla simmetria costruttiva delle sue quartine, determinano un ritmo sostenuto e, tuttavia, aspro e discorsivo, segno della ricerca di un rigore e di un equilibrio formale che compensino l’esigenza di un equilibrio interiore, ma il cui raggiungimento, si rivela, inevitabilmente, precario. Anche a livello stilistico-retorico la sensazione percepita è di tale natura: concorre a determinarla un lessico che alterna termini di uso letterario ( come “rivo”, “incartocciarsi”, ”riarsa”, ”prodigio”) ad altri quotidiani e colloquiali(come “strozzato”, “cavallo”, “nuvola”); la presenza della paratassi quale struttura sintattica predominante ed il ricorso frequente all’interpunzione che determina effetti di rottura da un lato, e alla sinalefe che tenta di ristabilire il senso di disgregazione e frammentazione del “ male di vivere” dall’altro. La collocazione, in posizione incipitaria, dell’avverbio “spesso”  sottolinea la negatività di un’esperienza che si suppone reiterata nel tempo, mentre notiamo come le tre immagini di impedimento sono rese, nella prima strofa, facendo ricorso ad un doppio climax: dalla difficoltà di esistere( il “rivo”) alla vita sul punto di finire(la “foglia”) alla morte( il “cavallo”) e dall’esistenza inanimata a quella vegetale a quella animale. A tali immagini si contrappongono, attraverso l’antitesi male/bene, quelle della strofa successiva, anch’esse disposte in modo da determinare un climax, reso da un progressivo innalzamento, in contrasto con la terrestrità bassa dei tre esempi della prima quartina(la rima“ stramazzato…levato” sottolinea l’antitesi spaziale basso/alto). Alla luce di quanto detto risulta, dunque, evidente come la poesia di Montale, in particolare quella degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta si stagli nel variegato panorama letterario e artistico del tempo, restando ricca di cose, di oggetti, di particolari minuti nonché condensandosi in immagini emblematiche di carattere universale o esistenziale.

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