giovedì 27 giugno 2013

Analisi del testo: LA CRISI DI UN'ANIMA NOBILE E IL RAPPORTO CON IL POTERE "ADELCHI"

ADELCHI  ATTO V SCENA OTTAVA  vv. 338-364


Adelchi Cessa i lamenti, /cessa, o padre, per Dio! Non era questo/ il tempo di morir? Ma tu, che preso/ vivrai, vissuto nella reggia, ascolta./ Gran segreto è la vita, e nol comprende/ che l’ora estrema. Ti fu tolto un regno:/ Deh! Nol piangere; mel credi. Allor che a questa/ ora tu stesso apprresserai, giocondi/ si schiereranno al tuo pensier dinanzi/ gli anni in cui re non sarai stato, in cui/ né una lagrima pur notata in cielo/fia contra te, né il nome tuo saravvi/ con l’imprecar de’ tribolati asceso./ Godi che re non sei, godi che chiusa/ all’oprar  t’è ogni via: loco a gentile,/ ad innocente opra non v’è: non resta/ che far torto, o patirlo. Una feroce/ forza possiede, e fa nomarsi/dritto: la man degli avi insanguinata/seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno/ coltivata col sangue; e omai la terra altra messe non dà. Reggere iniqui/ dolce non è; tu l’hai provato: e fosse;/ non dee finir così? Questo felice,/ cui la mia morte fa più fermo il soglio,/ cui tutto arride, tutto plaude e serve,/questo è un uom che morrà.




L’ Adelchi, la seconda tragedia di Manzoni, fu pubblicata nel 1822 e rappresentò un ulteriore approfondimento da parte dell’autore dei problemi connessi al genere tragico. Per intendere in che modo Manzoni giunse a certe conclusioni sarà necessario ripercorrere brevemente la sua formazione. Egli fu profondamente influenzato dalla cultura illuministica, sia negli anni della sua formazione giovanile nella Milano napoleonica, che pochi anni prima era stata la capitale dell’Illuminismo italiano, sia nel soggiorno parigino a contatto con gli ideologi (un gruppo di intellettuali che si opponevano al regime napoleonico ed erano gli eredi degli ideali rivoluzionari e del patrimonio di idee dell’Illuminismo, con aperture nuove di interesse verso la storia che preludono al romanticismo). Le posizioni liberali, il rigorismo morale di questi intellettuali esercitarono un influsso determinante nella formazione delle idee politiche , filosofiche, morali e letterarie del Manzoni. Il contatto con gli ideologi incise anche sulla conversione religiosa e letteraria di Manzoni, sul suo ritorno alla fede cattolica e sull’adesione ai principi romantici. Egli fu vicino al movimento romantico milanese, che cominciò a formarsi a partire dal 1816 e ne seguì attentamente gli sviluppi, anche se non partecipò vivamente alle polemiche e declinò l’invito a collaborare al “ Conciliatore”. L’adesione ai principi romantici si manifesta anche in un interesse per la storia, che prende corpo in due tragedie storiche. La prima fu il “Conte di Carmagnola” dedicata al condottiero condannato per tradimento dalla Repubblica di Venezia nel 1400, che fu iniziata nel 1816 e portata a termine, dopo lunghe interruzioni, nel 1820. Anche qui Manzoni rifiuta i modelli classicheggianti e si rivolge piuttosto alle tragedie storiche di Shakespeare, su cui i teorici europei del Romanticismo avevano puntato il loro interesse. Sulla scorta di tali teorici, Manzoni ripudia il caposaldo della tragedia classicheggiante: la regola delle unità. Mentre la tradizione classicistica, ancora seguita da Alfieri e Foscolo nel loro teatro tragico, prescriveva che l’azione della tragedia non superasse la durata di ventiquattro ore e si svolgesse tutta nello stesso luogo, senza cambiamenti di scena, nel  Conte di Carmagnola e nell’ Adelchi lunghi intervallo di tempo, anche anni, separano i vari momenti dell’azione e la scena si sposta di frequente. La regola delle unità era nata dal gusto classicistico del Rinascimento italiano e dal principio di imitazione dei classici che ne era il canone fondamentale. Secondo tale principio, ogni genere letterario doveva seguire precise regole ed imitare un modello antico. E poiché i grandi tragici greci usavano abitualmente concentrare l’azione nell’arco di una giornata e mantenere fissa l’azione, tali caratteristiche furono assunte come regole vincolanti assolute, valide per ogni tempo ed ogni luogo. L’obbligo delle regole fu poi rapidamente codificato dai trattatisti letterari del Cinquecento e seguito scrupolosamente dai poeti. Il principio delle unità fu consacrato definitivamente dal teatro tragico francese del Seicento e imposto come intangibile dai capolavori di Corneille e Racine. Furono i romantici tedeschi, tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, a rifiutare le regole opponendo ai classici il modello della tragedia di Shakespeare, che ignora completamente le unità. Il rifiuto dei romantici nasceva dal principio che il genio poetico deve creare liberamente, senza costrizione alcuna, come una forza della natura.
Le ragioni per cui Manzoni rifiuta le unità sono molteplici e minuziosamente esposte nella “ Lettre à M. Chauvet”: in generale non si possono dare regole astratte e assolute alla composizione poetica. La forma di un componimento deve risultare dalla natura del soggetto, dal suo svolgimento interiore e non da modelli esterni. Nessuna azione nella vita reale può svilupparsi nell’arco brevissimo di un solo giorno e in un solo luogo: il rispetto delle regole impedisce al poeta di riprodurre gli eventi quali si svolgono nella vita reale degli uomini e soprattutto nella storia, che è la fonte principale della bellezza poetica. La rigida distinzione, poi, di sublime e quotidiano, di tragico e comico esprimeva a livello letterario la rigida divisione della classe aristocratica dominante dalle classi inferiori, e la volontà di difendere il privilegio anche mediante l’imposizione di modelli di gusto. E’ naturale che la borghesia, nella lotta per affermare il proprio dominio in campo politico come in campo culturale, rifiuti anche questa “divisione degli stili” e affermi un gusto più democratico, proclamando il pieno diritto della vita quotidiana ad entrare nella poesia e ad essere rappresentata in tutta la sua importanza e serietà, al limite anche tragicità. Una nota merita anche la nuova funzione del coro: nella tragedia greca il coro era la personificazione dei pensieri che l’azione deve ispirare, una specie di spettatore ideale, che filtra e idealizza liricamente le impressioni provate dal pubblico reale; per Manzoni i cori sono degli squarci lirici che interrompono l’azione drammatica, ai quali l’autore affida l’espressione dei sentimenti e delle considerazioni destategli dall’azione stessa, in modo da salvaguardare l’azione da ogni intromissione soggettiva. In tal modo la tragedia può rispondere a quella poetica del vero, dell’aderenza all’oggettività dei fatti storici che è alla base della concezione manzoniana della letteratura. I cori rispondono anche , in Manzoni, alla funzione morale che la poesia, soprattutto quella drammatica, deve possedere. Il coro permette allo scrittore di intervenire a chiarire il significato dell’azione che si sta svolgendo, a rendere esplicito il messaggio che ad essa è affidato, e che lo spettatore può travisare o non cogliere addirittura. Sulla base di questi principi, Manzoni si accinse ad un’altra tragedia di argomento storico, Adelchi, che rappresenta la fine del dominio longobardo in Italia nell’ VIII e che viene redatta tra il 1820 e il 1822. Per ben comprendere lo svolgimento del pensiero manzoniano fino all’Adelchi va ricordato che Manzoni, legato ancora all’Illuminismo, ha ancora fiducia nella forza riformatrice delle idee e crede che sia necessario mettere ordine nella coscienza degli uomini per fare ordine nella società; un altro abito mentale tipicamente illuministico è la fede nel valore civile ed educativo della letteratura. La conversione “cattolica” e romantica di Manzoni costituisce, poi, un abbandono delle giovanili posizioni di rivolta astratta e aristocratica, di tipo alfieriano e foscoliano, e segna una visione più moderata che tende ad una sostanziale accettazione della realtà storica. Si tratta, però, di un’accettazione condizionata, che deve sempre fare i conti con il pessimismo cristiano dello scrittore, il quale, nonostante ogni proposito progressista, resta convinto che la storia è il prodotto del peccato originale e della “caduta” dell’uomo e quindi non potrà mai essere riscattata dal male mediante una semplice azione umana. Il rifiuto della storia ricompare nella tragedia Adelchi  e si esprime attraverso la figura del protagonista e di Ermengarda. Adelchi è un eroe intimamente diviso e contraddittorio, in perenne conflitto con la realtà, condannato a soffrire proprio per la sua nobiltà spirituale che non è adatta alla realtà del mondo. In una variante cattolica incarna il tipo di eroe negativo, sconfitto e infelice caro alla mitologia romantica ed ha le sue radici negli eroi tragici alfieriani, nello Jacopo Ortis di Foscolo e nella stessa immagine di sé come “giusto solitario” che Manzoni costruiva nel giovanile carme In morte di Carlo Imbonati. Nutrito di alti ideali e di sogni eroici, Adelchi è costretto a compiere azioni meschine e inique nell'ambiente in cui vive, dominato dalla legge dell’utile e della forza. Il suo rifiuto della negatività del mondo non si esprime in un gesto clamoroso di rivolta, come avviene in tanti eroi ribelli del Romanticismo, ma si isterilisce nel chiuso della sua interiorità. Ermengarda è l’esatto equivalente femminile del mito proposto da Adelchi: come Adelchi esprime il rifiuto della realtà, del rapporto tra gli esseri umani in campo politico e pubblico, essa esprime il rifiuto  della realtà in campo privato, sentimentale e sessuale. Ermengarda è la fanciulla-angelo pura ed infelice cara alla mitologia borghese tra ‘700 e ‘800, che è contaminata dal contatto con il mondo e rifugge da esso verso la sua patria vera che è il cielo. Sebbene Adelchi ed Ermengarda esprimano questo radicale pessimismo e la soluzione estrema della fuga dal mondo, proprio nell’ Adelchi si può individuare in atto quella dialettica tra rifiuto e accettazione della storia. Metricamente il brano presenta endecasillabi sciolti con una misura uguale di endecasillabi  a maiore ( vv 27, 28,32,34,38,39,41,42,43,44,45,46,48) e a minore: prevale il ritmo ascendente con una forte predominanza di emistichi giambici. Il pathos e la drammaticità del momento sono messi in rilievo da un periodare spezzato da continui segni di interpunzione, che spesso coincidono con le cesure, e che sembrano quasi suggerire la volontà di Manzoni di dare rilievo all’espressione dolorosa di Adelchi condannato a non poter agire. L’incipit del brano è segnato da un imperativo( cessa) che per anadiplosi, è ripreso nel verso successivo: in Manzoni l’uso dell’imperativo fa sempre riferimento all’intervento costrittivo sulle cose, definisce l’ambito concluso delle possibilità esaurite. Un posto rilevante occupano anche gli aggettivi che, grazie all’inversione o all’enjambement ( 17 in soli 27 versi) si collocano a fine o ad inizio verso: in Manzoni l’aggettivazione è una costante operazione di carattere qualificativo nel senso che intende imprimere una scelta di carattere morale, una definizione di positivo o di negativo senza possibilità di diversa interpretazione. In Manzoni l’aggettivo, fortemente caricato di intenzioni impositive e costrittive, costituisce l’ultimo anello di una stilizzazione tutta rivolta a definire un ambito di discorso interamente calcolato, definito, dove tutto è accaduto per sempre. Adelchi prega suo padre di non pensare alla sua sorte, ma di concentrarsi solo sulla sua condizione di prigioniero: l’allitterazione “ vivrai, vissuto” scandisce splendidamente il passaggio, per Desiderio, dalla vita regale sino ad allora condotta e il futuro da prigioniero che lo attende( si noti che “preso” è posto a chiusura di verso e in enjambement). Le riflessioni che seguiranno saranno caratterizzate da un pessimismo cupo, ma che vuole essere di consolazione al padre: l’emistichio è dominato dall’inversione( gran segreto è la vita) e da un ritmo anapestico e prelude all’affermazione successiva cioè che solo quando si avvicina l’ora della morte si comprende il grande mistero che è la vita. Perdere il regno non deve essere motivo di dolore o di tristezza, perché solo in punto di morte Desiderio capirà che gli anni senza comando saranno stati i più lieti per lui, perché neppure una lacrima, che per causa sua sia stata sparsa, sarà registrata in cielo contro di lui, né il suo nome vi sarà salito con le imprecazioni della gente da lui tormentata. L’iperbato( giocondi…anni) sembra quasi accompagnare la riflessione che Desiderio dovrà fare in punto di morte, mentre gli enjambement legano strettamente tra loro i versi. La ripetizione dell’imperativo “godi” sembra rafforzare la convinzione dello stato di grazia che conoscerà Desiderio lontano dagli affanni del potere, tanto più che non c’è nessuna strada aperta per chi vuole agire, non c’è posto per un’azione nobile o innocente e l’unica soluzione è fare del male o subirlo. La iunctura allitterante(feroce/forza), impreziosita dall’enjambement, conferisce all’aggettivo un rilievo particolare: Manzoni riscatta in termini cattolici il suo eroe “ problematico”, trasformando il tormento dell’aristocratica “anima bella” in una fuga dal mondo verso la pace consolatrice di Dio. Adelchi morente enuncia una visione del mondo radicalmente pessimistica: la storia è dominata dalla violenza e dall’ingiustizia, ed è impossibile agire per contrastare il male senza compiere altro male. Però la condizione del potente, colui che ha maggior peso nella storia, ed è costretto dalla logica della realtà a seminare sofferenze e ingiustizie, è totalmente negativa. Ancora un’inversione per spostare in ultima sede un aggettivo, in un verso dal caratteristico andamento dattilico: la mano “ insanguinata” dei primi Longobardi invasori ha seminato l’ingiustizia e non si può raccogliere un frutto diverso da quello che si è seminato. Quanto all’aggettivo “iniqui” bisogna dire che può essere sia predicativo del soggetto che dell’oggetto: nel primo caso intenderemo” governare ricorrendo alla forza”, come pare più probabile, nel secondo caso “ governare uomini iniqui”. Adelchi sa bene che suo padre comprende, per esperienza, le sue parole e che seppure fosse dolce governare con la forza, tutto dovrebbe finire comunque nella morte. Persino Carlo che fonda sulla sua morte un potere più solido, che in questo momento è ben voluto dalla sorte, osannato e servito da tutti come vincitore, persino lui dovrà morire e non potrà sfuggire il suo destino. Si noti come l’anafora del pronome relativo dà rilievo alla figura di Carlo e crea una dicotomia tra la sua grandezza presente e il destino a cui non può sottrarsi. Se Adelchi rappresenta l’impossibilità di agire nella storia, e proclama le ragioni ideali di questa rinuncia, l’essenza stessa di Carlo è il realismo dell’agire politico, Carlo non ha mai né problemi né esitazioni dinanzi all’agire; è convinto che l’interesse del regno giustifichi ogni azione, anche quelle che provocano sofferenze e ingiustizie, ma soprattutto è convinto di essere il “ campione di Dio”, l’esecutore delle sue volontà sulla terra, e di essere chiamato da Dio stesso alla missione di invadere l’Italia per salvare il Papa. In realtà le parole che rivolge ai suoi soldati, magnificando la preda che li attende in Italia, rivelano come sia spinto essenzialmente dal desiderio di conquista e di potenza. Nonostante questa demistificazione del potere e della forza che si ammantano di ragioni ideali, nell’economia complessiva dell’opera, Carlo non appare come un personaggio negativo. Nel Discorso che accompagna la tragedia, Manzoni osserva che tutti coloro che agiscono nella storia sono inevitabilmente spinti da interessi privati di dominio. Visto che il bene assolutamente non esiste, bisogna adottare un altro criterio per giudicare le azioni politiche: vedere se quelle azioni, perseguendo altri fini, tendano anche ad alleviarle le sofferenze delle masse che ne subiscono le conseguenze, oppure tendano ad aumentarle. Carlo, anche se è colui che ripudia Ermengarda e la condanna a morire di dolore, che distrugge il regno dei Longobardi approfittando cinicamente del tradimento dei duchi, che impone il suo dominio sui Latini sostituendosi ai Longobardi, è pur sempre il grande imperatore con cui camminano la storia e la civiltà, colui che restaurerà l’impero romano chiamandolo “sacro” e piegando il potere politico all’ossequio verso la Chiesa: di qui deriva quel carattere sostanzialmente positivo del personaggio. L’azione politica, anche se non obbedisce a ragioni ideali e disinteressate, ma alla legge del realismo e all’affermazione di potenza, viene accettata e, in una certa misura, riscattata all’interno del disegno provvidenziale visto che ne possono scaturire effetti positivi nel corso della storia.  Ne risulta che la storia non è dominata dalla logica feroce della forza e della sopraffazione, come appare dalle parole di Adelchi morente, e che non è impossibile agire politicamente per attenuare il male del mondo. Prescindendo dal protagonista Adelchi, il nucleo centrale della tragedia non è la negazione totale della storia, ma quell’accettazione condizionata che tornerà poi accentuata e approfondita nel romanzo. La tragedia non riesce a soddisfare pienamente Manzoni che anzi non è contento dei suoi personaggi, come per esempio di Adelchi, di cui sottolinea il colore romanzesco, cioè sostanzialmente la falsità. Solo nel romanzo Manzoni concretizzerà a pieno i principi del moderno realismo borghese: si pensi alla profonda serietà con cui sono rappresentate le vicende quotidiane di personaggi delle classi inferiori, alla mancanza di idealizzazione dei protagonisti della vicenda, all’organico collegamento dei personaggi, della loro psicologia, del loro comportamento con il terreno storico del Seicento lombardo. L’Adelchi è più vicino, ideologicamente, ai Promessi sposi di quanto si sia soliti affermare. Con una differenza essenziale: nel romanzo i potenti che agiscono positivamente nella storia sono figure cariche di intenzioni pedagogiche ed esemplari; nell’Adelchi, invece, Manzoni è più sottilmente problematico e riesce a darci con Carlo Magno la figura singolare e complessa di un campione della fede che agisce per poco nobili interessi politici; mentre dall’altro lato un rappresentante della “rea progenie” degli oppressori, Adelchi, diviene il portatore della coscienza critica dinanzi al negativo della storia e della società.

lunedì 24 giugno 2013

" L'ARTE DI ASCOLTARE I BATTITI DEL CUORE" e " GLI ACCORDI DEL CUORE" due libri da non perdere




" I nostri sensi amano ingannarci, e gli occhi sono i più ingannevoli di tutti. Ci inducono ad avere troppa fiducia in loro. Crediamo di vedere quello che c'è intorno, ma quello che percepiamo è solo la superficie. Dobbiamo imparare a comprendere l'essenza delle cose, la loro sostanza, e per fare questo gli occhi ci sono più di impedimento che altro. Ci inducono a distrarci, e noi ci lasciamo abbagliare. Chi si fida troppo dei propri occhi trascura gli altri sensi, e non intendo solo le orecchie o il naso. Parlo di quell'organo che è dentro di noi e per il quale non c'è un nome. Chiamiamolo la bussola del cuore."






L’arte di ascoltare i battiti del cuore” è un romanzo avvincente, costruito con notevole maestria attraverso un intreccio che non annoia mai il lettore, ma lo trasporta, facendogli persino perdere il fiato, in un groviglio di emozioni e di sensazioni di una forza devastante. Un romanzo da leggere tutto d’un fiato in attesa di comprenderne il punto d’arrivo e la fine. La notevolissima capacità dello scrittore sta tutta in questo eccezionale modo di intrecciare storie, nomi, personaggi non sempre chiaramente legati tra di loro per poi ricomporre il complicato puzzle solo nelle ultime pagine. Il finale è del tutto inatteso, a sorpresa, spiazzante, ma emozionante, delicato e di una tenerezza che scalda il cuore fino alle lacrime. Una lezione d’amore come pochi saprebbero dare, una storia che coccola il nostro cuore e ci fa scoprire il senso ultimo e profondo di un sentimento che, quando è vero, valica i confini dell’immediato, oltrepassa tutto ciò che è materia o contatto  per farsi spirito che arde e si alimenta di se stesso. Una storia d’amore tra due persone che la vita separa, ma che continueranno, pur senza vedersi e parlarsi, a nutrire quella fiamma sottile che non ha mai smesso di ardere nel loro cuore. Una storia che ci ricorda che l’amore è un sentimento puro, che ha bisogno di cura e di tempo per palesarsi e per vivere per sempre. In una Birmania dai ritmi così diversi, così dannatamente lenti rispetto ad un Occidente frenetico e che ha perso il gusto e il senso profondo del tempo, il lettore viene condotto in una società fatta di piccole cose, di pregiudizi, di discriminazioni,  di odori che quasi si sentono, di profumi che diventano parte della storia e di un uomo con una dote fuori dal comune: saper ascoltare i battiti del cuore di ogni essere vivente e della sua donna. Una qualità che può appartenere solo a chi ha veramente compreso il valore del tempo e, soprattutto, dell’esistenza non monetizzandola, ma rintracciandone il segreto più puro e più profondo.








"Ci sono momenti che una persona non dimentica più per il resto della vita. Che si imprimono nell'anima, lasciano cicatrici invisibili su una pelle invisibile. E se in seguito le si tocca, il corpo freme di dolore fin nei pori"









Gli accordi del cuore” è un romanzo che rappresenta un viaggio alla scoperta di se stessi, un viaggio per ritrovare quella pace del cuore che ciascuno sente di dover cercare, a cui non possiamo rinunciare, sebbene frenati dai mille impegni e dalle mille preoccupazioni di ogni giorno che sovente ci allontanano da noi stessi e ci riducono ad automi che non riescono più neppure a capire che cosa vogliono o che cosa sentono. Ancora l’amore al centro della vicenda, l’amore come forza motrice dell’universo e della vita stessa (Novalis diceva...” l’Amore è l’amen dell’Universo”), l’amore come elemento irrinunciabile per essere felici. Nel romanzo si legge: “ Da quante persone dobbiamo essere amati per essere felici? Due? Cinque? Dieci? O soltanto da una? Quell'una che ci apre gli occhi. Che ci toglie la paura. Che dà senso al nostro essere…”.  La ricerca di amore, una ricerca della felicità che passa attraverso quelle domande  che ciascuno di noi si pone nell'arco della propria vita, le cui risposte diventano l’essenza della vita stessa,  la scoperta dei propri bisogni e il raggiungimento della pace del cuore. Il romanzo ci spinge dolcemente a riflettere sull'inutilità di una vita senza amore, senza donarsi agli altri, ad acquisire la consapevolezza che un' esistenza scandita da un cuore “scordato”, che non sa più suonare la melodia giusta, ma che percepisce il disagio del suo battito è priva di valore. Un viaggio che il lettore, insieme a Julia, la protagonista, compie cercando la propria anima e il senso profondo della propria vita, un viaggio per comprendere non solo che non siamo fatti per stare da soli, ma che solo nell'amore realizziamo l’essenza vera e profonda della natura umana: compiamo il nostro destino donandoci agli altri, amando incondizionatamente fino al dono supremo della vita stessa, per proteggere coloro che amiamo. Un inno all'amore, alla vita, alla capacità di fare scelte che ci consentano di riempire il nostro cuore e “accordarlo”, affinché il suo battito ci accompagni e segni la nostra strada, affinché il suo battito si muova al ritmo dell’universo. La protagonista, attraverso una storia che, come è solito fare Sendker, si snoda in un groviglio che crea attesa, angoscia, dolore e amarezza nel lettore, arriva a trovare se stessa e la sua felicità imparando che pure un’anima dannata o con un karma negativo può, attraverso questa forza misteriosa e di incommensurabile potenza, liberarsi dal dolore e dalla condanna all'infelicità e riscattarsi in pienezza. L’amore, in tutte le sue coniugazioni, è l’unico vero motore dell’universo ed è l’unica forza in grado di assicurarci la felicità, che sta tutta nel donarsi agli altri e nel provare amore incondizionato, amore che nulla si aspetta di ricevere in cambio, ma generoso e che si compie nella totale gratuità. Sullo sfondo ancora la Birmania con la sua lentezza, con la sua cultura, con la fede in Buddha, con le sue paure e superstizioni, con le sue violenze, ma con il senso dell’accoglienza e dell’ospitalità, pur nella povertà, e con il diktat che la propria felicità si costruisce insieme a quella degli altri. La storia di Julia si interseca con quella di una madre che non sa amare i suoi figli in egual modo e che ne condanna uno a convivere con il senso dell’ abbandono e del rifiuto, sebbene si legga nel romanzo: "...la verità del singolo risiede nella sua anima, e tale verità non è immutabile, ma può cambiare. Ogni essere umano è libero e nessuno può ferirci, salvarci o cambiarci tranne noi stessi". Ancora una storia di speranza e di ricerca appagata attraverso il superamento delle proprie paure e dei propri dolori: solo liberandosi da ciò che ci ha ferito o ci ha fatto soffrire possiamo vivere in pienezza la nostra vita e solo l’amore può restituirci alla felicità. Non c’è nulla che valga per sempre, non ci sono storie già scritte e che non si possono cambiare, ma  c’è sempre la possibilità di riscattare un’esistenza grigia e senza senso, se solo abbiamo il coraggio di affrontare i nostri demoni, di compiere un percorso di conoscenza del dolore, senza fuggire, per poi essere finalmente liberi e con il cuore pronto a ricominciare.



sabato 22 giugno 2013

LE DONNE , LA LETTERATURA E LA FILOSOFIA



Essere donne nell'antichità

La società antica era fortemente discriminante nei confronti delle donne semplicemente per la loro “ natura”. Se essere donne era già limitante, essere donne schiave era terribile, in quanto oltre a non godere di libertà personale, le schiave erano un vero e proprio oggetto sessuale a disposizione del padrone  al quale dovevano chiedere il permesso di unirsi ad un altro uomo e che poteva spezzare qualsiasi legame a proprio piacimento. Anche la sessualità della donna deve essere fortemente limitata in quanto deve avere come unico scopo la procreazione, pertanto l’adulterio femminile non può neppure essere concepito. Nell'antica Grecia, l’intransigente Dracone nel VII secolo a. C. ammetteva che chiunque avesse scoperto sua moglie o sua sorella o sua madre in flagrante adulterio, avrebbe potuto vendicarsi o uccidendo l’adultero o infliggendogli una pena terribile che poteva essere la rasatura del pube, per rendere l’uomo simile alla donna, o la cosiddetta “ pena del ravanello” , che si commenta da sola! Perché veniva punito l’uomo in caso di adulterio e non la donna? La risposta è drammaticamente ovvia: la donna, non avendo volontà personale, non è adultera, ma adulterata cioè sedotta, corrotta, insomma vittima, sia pure consenziente. La considerazione per le donne era veramente minima: rappresentavano un grosso problema per la famiglia in quanto improduttive e dovevano essere mantenute fino al matrimonio che, come si è detto, in Grecia avveniva prestissimo. Un personaggio letterario interessante per comprendere la condizione delle donne in Grecia è Medea: la donna abbandonata dal marito, che uccide i suoi figli per vendetta e che , in un lungo monologo si lamenta della dura condizione delle donne. “ Noi donne siamo l’essere più infelice tra tutti quelli che sono forniti di anima ed hanno intelligenza, noi a cui in primo luogo è necessario con molte ricchezze comprare un uomo e prenderlo come padrone del corpo: certamente del male questo è ancora peggiore. Ancora il rischio maggiore è in questo: prenderlo cattivo o buono. Infatti le separazioni non sono onorevoli per le donne, e neppure è possibile rifiutare lo sposo. Bisogna poi che, giunta in mezzo a nuove consuetudini e leggi, la donna sia indovina, non avendolo imparato da casa di chi mai principalmente si servirà come sposo e se lo sposo conviva con noi, che avremo ben conseguito ciò sopportando non a forza il giogo, la vita è invidiabile se no è necessario morire. L’uomo, quando si sdegna di stare assieme a quelli dentro casa, recandosi fuori fa cessare il cuore dal tedio, volgendosi o ad un amico o ad un coetaneo. A noi invece è necessità guardare ad una sola anima, poiché io preferirei stare presso lo scudo tre volte piuttosto che una sola volta partorire…. Lo sfogo di Medea è singolare non solo perché precede la ribellione contro il marito che la donna sta meditando, ma anche perché è la prima volta che la letteratura concede questo tipo di spazio ad una figura femminile. Un contributo importante per una maggiore accoglienza delle donne sarà offerto dal filosofo Socrate del quale, purtroppo, non abbiamo opere scritte e il cui pensiero ci è noto grazie all’opera dei suoi discepoli. Certamente Socrate tenta di infrangere un pregiudizio resistente e radicato, ossia l’inferiorità della donna determinata dalla natura che il filosofo contesta ritenendo che la donna è resa inferiore dalla mancanza di istruzione e dalla minore forza fisica, quindi diventa inferiore perché le vengono negati gli strumenti dei quali l’uomo dispone per consolidare la propria superiorità. Socrate apre ad una concezione della donna quasi paritaria e certamente non fu misogino, come molti suoi contemporanei. Saranno i cinici ad affermare in modo inequivocabile la parità tra uomo e donna, parità che comprendeva anche la libertà sessuale e il diritto di scegliersi il marito. Si allinearono a queste posizioni anche gli epicurei e i pitagorici. Ci penserà Aristotele a far fare un balzo indietro all'apertura verso le donne ribadendone l’inferiorità e fornendo un puntello scientifico alla sua teoria sulla evidente superiorità degli uomini. Una teoria, quanto meno singolare, che parte dalle componenti organiche che collaborano alla procreazione: lo sperma, secondo Aristotele parte pura e attiva, e il mestruo, parte impura e passiva. La donna, avendo un ruolo subalterno e passivo nella procreazione dimostra inequivocabilmente la sua inferiorità e la sua marginalità rispetto ad una società che è retta dagli uomini. La differenza biologica, che Aristotele pone come spiegazione alla inferiorità della donna, è il presupposto culturale al ruolo marginale che le viene assegnato all'interno della società.  Il mondo ellenistico, invece, metterà da parte i sentimenti misogini e i soliti cliché che volevano la donna stupida, dedita al vino o lussuriosa, anzi le degradazioni comiche derivano dalla consapevolezza del mutato ruolo delle donne alla ricerca di una rivincita.



martedì 18 giugno 2013

LE ORIGINI DELLA CULTURA MASCHILISTA


La donna nella tradizione mitologica



La discriminazione delle donne inizia con la mitologia e con le teorie di filosofi come Pitagora che, dopo aver distinto tra un principio buono e un principio cattivo, spiega che il primo ha creato l’ordine, la luce e l’uomo, il secondo ha creato il caos, le tenebre e la donna! Ma pure l’ordine dell’Olimpo chiarisce in modo inequivocabile il ruolo delle donne: destinate a procreare e non certo ad avere il potere. Pensiamo ad una donna consacrata dal mito come Pandora, la donna che, obbedendo ad istinto attribuito principalmente alle donne, non si oppone alla curiosità e viola il perentorio divieto di Giove: il vaso deve restare chiuso o il male invaderà il genere umano. E’ difficile ricostruire con precisione quale è stato il ruolo della donna nella società antica in quanto le fonti storiche si soffermano sui protagonisti della storia, sempre e solo uomini, e tralasciano gli esclusi o le classi subalterne. Le donne romane, sebbene abbiano partecipato più attivamente alla vita pubblica di quelle greche, tuttavia furono estromesse da attività considerate prettamente maschili come la guerra e la politica. Per ricostruire la figura e il ruolo della donna nelle società antiche ci viene in aiuto la letteratura con tutti i suoi limiti legati alla possibilità di travisare i fatti, distorcerli o semplicemente abbellirli. In realtà le figure femminili che riusciamo a tratteggiare sono o appartenenti all'alta società oppure cortigiane, ma non riusciamo a tracciare un ritratto attendibile delle donne del ceto medio. Ricostruire la complessità dell’accettazione del ruolo della donna sin dall'antichità ci può aiutare a spiegare e a comprendere certe resistenze culturali a considerarla come essere umano e basta! La donna è sempre associata a valori negativi: si pensi, per esempio, al bellissimo racconto della storia di Amore e Psiche, ancora una volta la donna viene presentata come un essere che non sa accontentarsi neppure se ha tra le mani l’assoluta felicità e tutte le ricchezze desiderabili, sembra quasi irresistibile per lei il richiamo a distruggere tutto ciò che di buono ha intorno spesso a causa della “curiosità”. Per non parlare della citata Pandora! Le divinità femminili dell’Olimpo sono solo cinque: Giunone, Venere, Minerva, Diana e Vesta. Giunone rappresenta il prototipo di moglie fedele e possessiva, incapace , però, di tenere a bada gli istinti irrefrenabili di un marito troppo sensibile al fascino delle donne. Venere è il paradigma della bellezza fisica, oca quanto basta, imbarazzante in ogni intervento, invidiosa e gelosa del proprio figlio, con una non certo lodevole propensione all'adulterio, consuetudine non proprio degna di una donna. Minerva è forse la divinità femminile più complessa: è la dea della sapienza, qualità assolutamente maschile, e dea della guerra, anche questa attività riservata solo agli uomini. In effetti la particolarità di questa dea è proprio che rappresenta la negazione di tutto ciò che è femminile: costei resta vergine ed è nata dalla testa di Giove, che si appropria di una prerogativa femminile, per far nascere una divinità fuori dal comune, anche se non dimentichiamo che la capacità di “ dare la vita” anticamente apparteneva all'uomo. Si pensi alla nascita della dea Venere nata dalla schiuma del mare fecondata dai genitali recisi del povero Urano! Diana è anche lei una dea mascolina, è la dea protettrice della caccia, attività riservata agli uomini, protettrice delle Amazzoni donne con attributi maschili e non si è mai sottomessa ad un matrimonio monogamo. Infine Estia , vergine anche lei ( era questo un attributo considerato assai rilevante dai Romani) come le sue sacerdotesse che venivano uccise barbaramente se avessero perso la verginità sia pure in seguito ad un abuso (si pensi a Rea Silvia!), preposta a custodire e a vegliare sul focolare, a garantirne la pace proprio come fa una buona madre di famiglia. Come si può ben capire non c’è un equivalente femminile di Giove che possieda tutte le migliori, e peggiori, caratteristiche del gentil sesso, e questo si spiega con una mentalità che nega alla donna grandi capacità e qualità da esprimere. Proprio per compensare i limiti di una donna, Demostene sosteneva:” Noi abbiamo amanti per il nostro godimento, concubine per servire la nostra persona e mogli per generare la prole legittima”. In effetti nell'antica Grecia un uomo, per essere soddisfatto, aveva tre donne: la moglie che viveva nel gineceo, curava i figli legittimi e la casa ed era esclusa completamente dalla vita del marito; la concubina che aveva anche mansioni umili e doveva essere fedele all'amante proprio come la moglie legittima; infine l’etera che era un’accompagnatrice e che aveva accesso ai luoghi comunemente interdetti alle mogli e alle concubine. La marginalità della figura femminile è attestata persino dal fatto che mentre le divinità maschili avevano una totale libertà sessuale e potevano avere rapporti  sia con divinità che con donne mortali senza nessun problema, per le dee la situazione era ben diversa, qualora un mortale se ne innamorasse o giacesse con loro poteva solo finire tragicamente, come accadde ad Adone dopo aver amato la bella Venere. Persino nei rapporti omosessuali c’è discriminazione: gli dei possono avere rapporti con uomini, ma non abbiamo nessun riferimento circa la possibilità o la libertà dell’amore saffico. Le qualità apprezzate nelle donne , ieri come oggi, erano la bellezza ( per la bellezza di Elena è addirittura scoppiata una guerra!), la bravura nei lavori domestici e l’ubbidienza, ma non di minore importanza la pudicizia e la fedeltà, qualità affatto richieste agli uomini. L’atteggiamento maschile nei confronti delle donne è di sostanziale diffidenza e dubbio, si pensi alla povera Penelope che dopo aver fatto e disfatto la tela in attesa che quel fedifrago di Ulisse ritrovasse la strada di casa, sarà l’ultima a sapere del ritorno del coniuge che si dovrà accertare, lui dissoluto e infedele, della pudicizia della moglie. Del resto lo stesso Ulisse, disceso nel regno dei morti, consiglia all'amico Agamennone di non essere mai troppo dolce con le donne, di dire una parola ma di serbarne sempre un’altra e di non dimenticare mai che la donna è un essere infido. Non dimentichiamo che ci sono seri dubbi circa la paternità di Telemaco, del resto:” Mater semper certa est, pater incertus!” e che la bella Penelope può sia incarnare, se letta positivamente, tutte le qualità femminili più apprezzate da un uomo, ma se letta in chiave più misogina e maliziosa si noteranno azioni e scelte non sempre in armonia con la sua posizione sociale( la donna non cede alle avances dei Proci perché teme che gliene possa derivare una cattiva fama, ma più volte pensa all’opportunità di sistemare la sua situazione vista la lunga assenza del marito).

lunedì 17 giugno 2013

LA VITA DI UNA DONNA NELL’ANTICA GRECIA

PARTE SECONDA


Una svolta importante nella vita delle donne si ebbe nel V secolo a.C. in occasione della guerra del Peloponneso che costrinse molti uomini lontano da casa , lasciando alle donne nuove responsabilità, una nuova consapevolezza e più libertà di uscire per curare gli affari di famiglia. Certamente una prassi consolidata prevedeva che le donne, rigorosamente accompagnate da una schiava, facessero visita alle loro amiche per chiacchierare o farsi prestare oggetti per la casa o per futili pretesti. Un’altra importante occasione per uscire di casa erano le feste in onore di Dioniso, durante le quali erano allestiti spettacoli teatrali a cui, quasi certamente, potevano partecipare anche le donne sia pure limitatamente alle rappresentazioni tragiche e non a quelle satiriche in quanto spesso volgari e troppo lascive per le donne. Certamente la mutata condizione delle donne maturata in occasione della guerra del Peloponneso, modificò molti costumi fino ad allora radicati. Un dato certo è che gli uomini cercavano, fuori casa, ogni genere di soddisfazione negata o semplicemente non soddisfatta dalla vita coniugale: giovinetti e cortigiane offrivano un lieto diversivo alla monotonia del menage familiare. La “nuova” libertà conquistata dalle donne le spinse a stare molto di più tra gli uomini, ad esporsi più spesso in pubblico e a ritrovare il gusto di una certa femminilità costretta dalla clausura del gineceo, al punto che fu creato un magistrato ad hoc, il gineconomo, incaricato di vigilare sul comportamento delle donne. Un fatto singolare nel V secolo fu proprio l’unione extra-coniugale di Pericle con Aspasia: lo statista greco ripudiò sua moglie, da cui aveva avuto due figli, per vivere con la bella milesia ma senza poterla sposare in quanto la donna non era ateniese di nascita e non apparteneva a nessuna delle città che avessero ricevuto da Atene il diritto di epigamia. Tuttavia la posizione non del tutto legale della donna accanto a Pericle, la espose ai perfidi attacchi dei comici e dei poeti che non esitarono ad apostrofarla come prostituta o tenutaria di casa chiusa. In realtà in questo caso il problema non era che Pericle avesse una concubina, prassi assolutamente consolidata e “normale” ad Atene, ma che la donna fosse straniera.
Le concubine erano donne che, pur non riconosciute dalla legge, erano, di fatto, legittimate dalla consuetudine. Se la  moglie e la concubina erano entrambi ateniesi, la differenza stava nella dote: la moglie legittima, infatti,  portava la dote per il matrimonio, la concubina, invece, portava solo se stessa in quanto spesso discendente da una famiglia povera. Le prostitute erano per lo più schiave, che ad un costo irrisorio soddisfacevano i desideri dei loro clienti, ma spesso potevano essere anche vere e proprie “escort” non solo ben pagate, ma addirittura alcune venivano sposate da uomini molto ricchi e con una posizione sociale ragguardevole.  Certo è da sfatare la leggenda che fa delle cortigiane donne colte o istruite: invero, molto spesso, venivano educate sin da bambine alla professione e imparavano l’arte della seduzione a partire dalla cura del corpo per finire a tutto ciò che avrebbe potuto compiacere i clienti. E’ probabile che tra le cose che venivano insegnate ad una cortigiana ci fosse l’arte di suonare uno strumento musicale e di ballare. Dai matrimoni greci non nascevano molti figli  e non solo perché gli uomini avevano mille distrazioni fuori casa, ma soprattutto per evitare di mettere al mondo troppi eredi legittimi che avrebbero comportato un eccessivo impoverimento  del patrimonio familiare diviso tra troppi eredi. Quando una donna restava incinta e il figlio non era desiderato dal marito era possibile o ricorrere all'aborto oppure esporre il piccolo. Sebbene la legge greca non vieti l’aborto, considerato legittimo per un uomo che voglia tutelate il proprio patrimonio familiare, tuttavia si raccomandava di praticarlo in tempi rapidi, prima che il feto ricevesse “ vita e sensi”, questo non per scrupolo di coscienza, ma solo per scrupolo religioso.  Sempre per questo inspiegabile scrupolo religioso era vietato uccidere un neonato, ma era lecito lasciarlo morire di fame e senza prendersi cura di lui. Il figlio indesiderato poteva anche essere abbandonato per strada in un vaso di argilla che gli faceva da tomba. I neonati esposti più fortunati venivano raccolti e cresciuti per diventare schiavi o, nel caso di neonate, prostitute. Il parto era assistito da donne esperte , ma in caso di necessità o di complicazioni interveniva un’ostetrica e un medico. Prima del parto si ungeva la casa con la pece per scacciare i demoni o per proteggerla dalla contaminazione. Immediatamente a ridosso della nascita, veniva apposto sullo stipite della porta un ramoscello di ulivo se era maschio, un filo di lana per una bambina. A distanza di cinque o sette giorni dalla nascita del bambino si teneva una festa importante, detta delle Anfidromie: prevedeva essenzialmente riti di purificazione per la madre e per tutti coloro che avessero assistito al parto, oltre che l’ingresso ufficiale del neonato in società. Il nome della festa deriva dall'usanza di correre intorno al focolare domestico con il bimbo tra le braccia( anfi= intorno).  A distanza di dieci giorni ci si riuniva nuovamente per fare un sacrificio e per banchettare in onore del nuovo arrivato: in questa occasione al bambino veniva dato il nome, spesso del nonno paterno, anche se questa norma non era vincolante e venivano offerti doni, soprattutto amuleti.


mercoledì 12 giugno 2013

LA VITA DI UNA DONNA NELL'ANTICA GRECIA

PARTE PRIMA



Le donne in Grecia, tra il III e il IV secolo a.C, non godevano di molti diritti ed erano assimilabili, per status sociale, agli schiavi. Il gineceo era il luogo destinato alle donne: una sorta di prigione dorata, nella quale le sventurate trascorrevano le loro giornate, lontano da sguardi indiscreti e dal resto del mondo. Le giovinette venivano edotte dalle donne più anziane, mamme o nonne o serve, a svolgere con impegno e precisione i lavori domestici per essere pronte a gestire la casa del futuro sposo. Le uscite consentite si limitavano  ad alcune feste religiose, durante le quali le vergini cantavano e danzavano rigorosamente lontane dai maschi. Pare certo che alle giovinette non fosse chiesto il consenso per il matrimonio, che era considerato un affare di famiglia e che aveva come scopo principale quello di mettere al mondo dei figli, possibilmente maschi, sia per assicurare al padre di famiglia l’assistenza necessaria in vecchiaia, sia la degna sepoltura cui ogni cittadino ateniese agognava. Sposarsi era un obbligo per un cittadino onorato e sebbene  Atene, diversamente da Sparta, non avesse leggi che obbligassero un uomo in tal senso, tuttavia il biasimo della comunità era un ottimo deterrente a differire troppo “ il male necessario”, come veniva considerato il matrimonio. Ciò che è certo è che alla base di un matrimonio non c’era una scelta d’amore, anche se  tuttavia spesso i coniugi “ imparavano” ad amarsi. Un pregiudizio per noi difficile da comprendere nella società greca era che l’amore coniugale fosse meno coinvolgente e pieno dell’amore omosessuale. L’età giusta per il matrimonio era considerata intorno ai 30 anni per gli uomini e 16 per le fanciulle che , in realtà erano in età da marito non appena raggiunta la pubertà, tuttavia non venivano date in sposa prima dei 14/15 anni. I maschi, di solito aspettavano di aver concluso il servizio militare tra i 18 e i 20 anni e poi, con molta calma, convolavano a giuste nozze. Un dato certo è che tra i coniugi ci fosse una notevole differenza di età.
Appare evidente che non era previsto un “ fidanzamento” per agevolare la conoscenza tra i futuri sposi, ma solo un accordo preventivo, orale, alla presenza di testimoni che fungeva da preludio alla cerimonia vera e propria. La validità dell’accordo prematrimoniale era garantita dalla sacralità della parola data e dall'onore che accompagnava le promesse o i giuramenti e dal fatto che nessun cittadino avrebbe osato contrariare gli dei rinnegando una promessa. Il matrimonio vero e proprio, dunque, si limitava alla consegna della giovane sposa al marito: proprio perché lo scopo del matrimonio era la procreazione, esso si riduceva al trasferimento della sposa dalla sua casa a quella del marito, dove sarebbe stata consumata la prima notte di nozze. I Greci, superstizioni non meno dei Romani, preferivano sposarsi d’inverno nel mese di gennaio ( Gamelion- mese delle nozze) dedicato alla dea Era, protettrice dei matrimoni e delle unioni sacre. Il passaggio della sposa dalla casa paterna alla casa del marito era solo l’atto finale di un cerimoniale che cominciava il giorno precedente e che prevedeva abbondanti sacrifici agli dei affinché benedicessero l’unione imminente e proseguiva con un gesto di sicuro effetto : la promessa sposa donava i suoi giocattoli e tutto ciò che la legava alla sua infanzia per prepararsi ad entrare, ex abrupto, in una nuova veste sociale. Un altro momento sacro era il bagno della sposa con l’acqua presa alla fonte Calliroe da un corteo in processione a cui corrispondeva il bagno dello sposo.  Il giorno del matrimonio le abitazioni degli sposi venivano addobbate con corone di olivo e alloro, mentre il padre della sposa offriva un banchetto e un sacrificio a cui partecipava la giovane col capo velato, splendidamente vestita e sostenuta dalle amiche e dalla ninfeutria , una donna che la guidava nelle procedure del rito del matrimonio. Durante il banchetto uomini e donne erano separati e tra i cibi non potevano mancare dei dolci al sesamo, simbolo di fecondità. Quando stava per scendere la sera si preparava un corteo che con le fiaccole avrebbe accompagnato la sposa nella sua nuova casa: durante questo percorso gli sposi, che si muovevano su un carro, erano accompagnati con canti, gli imenei, tipici dei matrimoni. Giunta nella sua nuova casa la sposa era accolta dai suoceri che la attendevano l’uno coronato di mirto e l’altra con una torcia, la cospargevano di fichi secchi e noci e completavano l’accoglienza facendole mangiare una parte dei dolce nuziale fatto di sesamo e miele oppure una mela o un dattero, tutti cibi considerati assai propizi per augurare la fertilità alla giovane coppia. Ultimate queste procedure gli sposi si ritiravano nella camera matrimoniale dove consumavano la prima notte di nozze, mentre un amico del marito custodiva la porta chiusa e gli altri cantavano a gran voce gli imenei per tenere lontani gli spiriti cattivi. Il giorno successivo i genitori della sposa portavano al genero doni e, quasi certamente, la dote promessa in occasione degli accordi preliminari al matrimonio.  Come è facile immaginare, un marito poteva ripudiare la moglie anche senza un motivo valido, se una donna era stata riconosciuta adultera, il marito doveva necessariamente ripudiarla o avrebbe subito l'atimia , ossia il biasimo della comunità. Causa frequente di ripudio era la sterilità della donna: in questo caso ripudiarla era quasi un obbligo sociale in quanto questa condizione impediva di realizzare lo scopo principale del matrimonio che era proprio assicurare  continuità alla famiglia. Se era la donna a chiedere il divorzio le cose cambiavano: costei, in quanto considerata incapace  giuridicamente, doveva rivolgersi all'arconte con una lettera in cui esponeva i motivi per la richiesta del divorzio: non era giusta causa di separazione il tradimento del marito, ovviamente ritenuto “ normale”, ma le percosse potevano rappresentare una giusto motivo per tale richiesta. Il matrimonio non metteva fine alla dorata clausura delle donne: anche da sposata la donna, almeno nella famiglie di una certa classe sociale, continuava a vivere nel gineceo e oltrepassava la soglia di casa raramente, tuttavia le donne ricche avevano cortili interni che consentivano loro di restare all'aria aperta lontano da sguardi indiscreti .Le donne più povere potevano lasciare le proprie abitazioni più spesso, anche perché si dedicavano a piccoli commerci o traffici di qualche utilità per collaborare al sostentamento della famiglia. Era possibile uscire, accompagnate da schiave, per lo shopping oppure per partecipare alle feste religiose che si trasformavano in ghiotte occasioni per fare incontri interessanti.  Le donne perbene non accompagnavano mai i mariti alle feste o ai banchetti, ma se il banchetto si teneva nella loro casa, potevano mostrarsi in pubblico solo per controllare il lavoro degli schiavi e vigilare sull'organizzazione dei domestici, per il resto erano ammesse solo ai banchetti strettamente familiari.



domenica 9 giugno 2013

Analisi del testo: " Rosso Malpelo" di Giovanni Verga



 “ROSSO MALPELO” DI GIOVANNI VERGA

Testo integrale della novella su:
http://www.mediacinema.org/_Italian_119_iWeb/Italian_119_files/Rosso%20Malpelo.pdf


La novella “Rosso Malpelo”, inserita nella raccolta intitolata “Vita dei Campi” del 1880, è il ritratto di uno dei tanti giovanissimi che nel secolo scorso lavoravano nelle miniere di zolfo in Sicilia, come pure nelle cave di pietra o nei campi. La raccolta pubblicata nel 1880 apre la stagione più matura dello scrittore che, dopo un esordio influenzato dalla cultura milanese e fiorentina alla ricerca di uno stile proprio e di temi accattivanti, torna a focalizzare la sua attenzione sulla amata Sicilia, nel tentativo di descriverne la miseria e il degrado. La novella entra a pieno titolo nel novero dei racconti che vogliono celebrare un ambiente primitivo e spontaneo, fortemente impregnato di elementi folkloristici, caratterizzato da gesti istintivi e violenti (si pensi all'assassinio della Lupa ad opera di Nanni per liberarsi dalla passione bruciante). Malpelo, sin dall'esordio del racconto, attraverso un dettaglio fisico, viene caratterizzato per il ruolo negativo che la società gli ha destinato. La focalizzazione interna multipla, grazie alla quale Verga svela il punto di vista della comunità e che consente al lettore di calarsi in una realtà sociale fortemente condizionata dal pregiudizio, dalla superstizione e dall'ignoranza, è una delle tecniche più utilizzate dall'autore per perseguire quel canone dell’impersonalità tanto caro ai veristi. Un atteggiamento da “scienziato”  quello di Verga che, lungi dal voler proporre soluzioni o dal voler sollevare polemiche, si limita a descrivere la realtà nuda e cruda senza abbellimenti, senza aggiunte o modifiche. Prevalgono sequenze narrative e descrittive, con alcune sequenze riflessive che portano il lettore a lasciarsi travolgere dal racconto. Mancano le sequenze dialogiche per la scelta di affidare al discorso indiretto libero gli scambi di battute tra i personaggi. La storia di Malpelo è la storia di un giovane condannato dal colore dei capelli ad essere considerato malvagio non solo dalla società, ma persino dalla sua famiglia, senza essersi mai macchiato di alcun crimine o misfatto. E’ una storia di violenza e di soprusi, la vicenda di un adolescente che, senza il conforto di un qualsivoglia affetto, vive rassegnato la parte assegnatagli dal destino, sopportando coraggiosamente le violenze della vita, con l’unica consolazione di potersi rifare sui più deboli secondo la morale che “ l’asino va picchiato perché non può picchiare”. Tuttavia l'apparente accanimento nei confronti di Ranocchio, un giovane malaticcio arrivato alla cava, non deve indurre in errore: nel primitivo sistema di valori di Malpelo, le sue percosse devono essere da stimolo per il ragazzo che deve imparare a difendersi, a reagire e non deve subire passivamente gli abusi di chiunque.  Del resto il tema della rassegnazione come unica difesa da opporre ad una sorte che, sebbene crudele, non si può cambiare è ampiamente trattato da Verga. Non si può modificare il proprio destino, perché chi osa farlo si vede distrutto, umiliato e degradato: niente e nessuno ha potere sul fato, anzi più si tenta di cambiarlo e più questo infierisce con violenza e rabbia. L’atteggiamento di Malpelo, l’ostinazione con cui resiste ai soprusi, l’ansia di verità e di giustizia che manifesta, sono gli elementi che caratterizzano i “ perdenti”, quelli che la storia ha collocato ai margini e che non hanno altra scelta. Non c’è giustizia per il giovane Malpelo che si perderà nei cunicoli bui della miniera, perché la giustizia è dei ricchi, non dei poveracci che muoiono per il crollo di una galleria con l’unica colpa di aver tentato di guadagnare qualche soldo in più. L’uso di una lingua vicina al parlato dei siciliani umili, l’inserzione di proverbi ed espressioni dialettali, rinviano a quel desiderio di adesione alla realtà che condiziona il Verismo.  Gli scrittori veristi, tra i quali spicca la figura di Giovanni Verga, prendono le mosse dal Naturalismo francese, per distanziarsene immediatamente di fronte ad una realtà sociale fatta da masse inerti e silenziose, incapaci di reagire e di comprendere il messaggio sociale a loro destinato. La società che emerge da questa, come dalle altre novelle di Verga, è immobile e arcaica, ostile ad ogni idea di progresso, legata alle superstizioni e alle tradizioni del passato. La miseria, il degrado non creano unione, ma si crea un clima di rancore, invidia e gratuita cattiveria come nel caso di Arcangelo nella novella Don Licciu Papa che non solo è vittima della prepotenza di un ricco reverendo, ma anche della cattiveria della comunità che giustifica le sue disgrazie come meritate, volute da Dio, per essersi opposto ad un uomo di chiesa. Poco importa chi ha torto e chi ha ragione, perché ciò che conta è solo il ruolo sociale di ciascuno che determina vinti e vincitori. L’immobilità sociale è la sola via d’uscita: che ognuno resti al suo posto, che nessuno osi modificare l’ordine prestabilito delle cose perché l’unico risultato possibile sarebbe il caos. La Sicilia di Verga, che nasce a Catania nel 1840, è la stessa terra dilaniata, sfruttata e condannata all'arretratezza della dominazione borbonica, la stessa che si infiamma all’arrivo di Garibaldi e dei Mille, ma senza che tutti gli strati della società comprendano il valore di un’operazione politica ambiziosa ed importante. In fondo per la povera gente è solo un cambio di consegna: dai Borbone al nuovo re, ma nulla cambierà nelle dinamiche sociali, i poveri saranno poveri, le donne resteranno intrappolate in un ruolo sociale marginale per essere considerate “ onorate”, la giustizia continuerà ad essere privilegio dei ricchi, il desiderio di possedere la roba renderà ancora più sole e ciniche le persone, rassegnazione sarà ancora la parola chiave dei miserabili che per trascinarsi in un’esistenza inutile e priva di ogni gioia, devono subire e sperare solamente che i ricchi abbiano pietà di loro. La visione della vita di Verga parte dalla considerazione che quanto affermato dallo scienziato Charles Darwin riguardo alle teorie sviluppate circa l’evoluzione degli esseri viventi, sia assolutamente applicabile anche alle dinamiche sociali: la vita è dominata dalla “ legge del più forte” che in un primo momento Verga individua in coloro che hanno la ricchezza e sembrano onnipotenti rispetto ad un sistema che non si oppone loro, ma che successivamente va ad investire tutti gli esseri viventi. La società che Verga descrive è corrotta, basata sull'individualismo, priva di solidarietà sociale, quasi che le sofferenze di alcuni facciano godere tutti gli altri, sottomessa al dio denaro, incapace di costruire relazioni affettive vere e autentiche. E’ una società che non conosce la pietà, la compassione e che infierisce sui più deboli, perché si sta meglio se si vedono gli altri soffrire, quasi un modo per sentirsi superiori e più fortunati. Una società drammaticamente attuale quella descritta da Verga, nella quale si ritrovano molte delle piaghe della moderna civiltà, sono passati i decenni, ma quel meccanismo che contrappone i più forti a coloro più indifesi presiede i rapporti sociali ancora oggi: un mondo fatto per i furbi, per coloro che non si fanno scrupoli, che non sentono il dolore degli altri, che tirano dritto per la propria strada non curandosi di chi giace schiacciato da un peso sociale e personale che non riesce a sopportare. La novella in oggetto ci fa riflettere anche sull’ importanza del pregiudizio, spesso senza alcun fondamento, che condiziona i rapporti tra gli esseri umani: Malpelo è vinto dal pregiudizio, tanto da accettare la parte assegnatagli dal destino e da realizzare le aspettative della comunità, comportandosi in modo cinico e spavaldo, nascondendo il suo dolore e la sua solitudine. Malpelo è vittima di quella “ profezia” che si avvera per coloro che, senza alcuna colpa, si ritrovano etichettati o intrappolati in ruoli da cui non solo non riescono a liberarsi, ma in cui si calano quasi fosse giusto così, convincendosi che certi giudizi , forse, sono davvero fondati. La letteratura, come sempre, è una splendido strumento affatto anacronistico, ma di una modernità straordinaria che coglie le dinamiche sociali, affettive e di relazione , analizzandole nella certezza che solo attraverso la conoscenza e la riflessione l’uomo può essere migliore.

venerdì 7 giugno 2013

Analisi del testo: " Città vecchia" di Umberto Saba





Città vecchia di Umberto Saba

Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un'oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.

Qui tra la gente che viene che va
dall'osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l'infinito
nell'umiltà.

Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d'amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s'agita in esse, come in me, il Signore.

Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.





I versi appartengono ad una sezione del Canzoniere che porta il titolo  Trieste e una donna e che apparve nelle edizioni della Voce: subito fu chiaro che Saba era diverso, come lui stesso ammise, dai vociani che boicottarono quel libretto , per reclamizzare Il mio Carso di Scipio Slataper. Il percorso artistico di Saba appare assai tortuoso proprio per l’impossibilità di incanalare la sua poesia in una delle correnti letterarie contemporanee: troppo tradizionalista per i vociani, affatto considerato dai futuristi, non ebbe fortuna neppure presso i rondeschi del dopoguerra, tanto schizzinosi in fatto di squisitezza artistica da non poter assolutamente accettare una poesia così realisticamente compromessa e piena di vistosi puntelli ritmici. L’equivoco attorno a Saba nacque proprio in rapporto al suo “realismo”, che sembrò un residuo ottocentesco o al massimo un accostamento agli “oggetti” crepuscolari: quando in realtà egli offriva, attraverso la fedele registrazione degli oggetti e delle figure del mondo oggettivo una nuova chiave psicologica ed esistenziale di lettura della realtà. Città vecchia ci offre uno squarcio di vita quotidiana di una normale via di Trieste. La città natia sarà un tema ricorrente in Saba: per lui, come per il conterraneo Svevo, il “ritardo”, da entrambi denunciato, con cui la letteratura triestina recepiva le poetiche e le mode già superate dalle nostre avanguardie, fu determinante. Ma nascere a Trieste significava ritardo quanto all’atteggiamento specifico in fatto di poetiche, ma netto anticipo quanto alla sensibilità per le profonde correnti del rinnovamento europeo. La lettura della lirica è scorrevole e l’impressione che se ne ricava è di una sconcertante semplicità, ma bisogna fare attenzione perché l’ingenuità in Saba è solo un modo di collocarsi senza prevenzioni e senza pregiudizi culturali nel mezzo della condizione umana, segnata da un’angosciosa solitudine e da un terribile senso di esclusione. Resta fondamentale, per comprendere le scelte poetiche di Saba, il peso che ebbe la componente ebraica (di padre “ariano” il suo cognome era Poli, ed egli volle cambiarlo in Saba che in ebraico significa “pane”): essa alimenta il senso di solitudine che, per l’ebreo, attinge a ragioni storiche e metafisiche incomparabilmente più profonde di quelle di qualsiasi altro popolo e poteva divenire emblematica della condizione dell’uomo contemporaneo. Da un punto di vista metrico la lirica è caratterizzata da una forte presenza di endecasillabi alternati a quinari e settenari, mentre mancano figure retoriche come la sinestesia, l’analogia, il correlativo oggettivo e i procedimenti fonosimbolici. Il tradizionalismo del poeta triestino non è un residuato di poetiche superate, ma qualcosa di consapevole e voluto: la sua poesia di cose, infatti, comporta da un lato la presenza di un lessico e di una sintassi “ normali”, dall’altro, l’uso del metro, della rima, del ritmo e di tutte le altre risorse canoniche della poesia ai fini dell’intonazione lirica di una materia in sé prosastica. Tutta la poesia di Saba è una lotta per innalzare a misura di canto una nuda cronaca esistenziale: le “bruttezze” prosastiche, la devozione al metro e alla rima, la volontà di chiarezza a tutti i costi, la disarmante ingenuità di certe soluzioni lessicali e sintattiche, tutto obbedisce alla volontà di “fare poesia onesta”, cioè di aderire con estremo scrupolo al dettato delle cose. Vanno, tuttavia, segnalate per quanto concerne la prima strofa, l’anadiplosi( vv 3-4 qualche…/qualche), l’iperbato( vv 3-4 giallo…/…fanale) e l’inversione( v 4 affollata è la strada): solo figure sintattiche per fare in modo che i termini occupino un posto importante rispetto al valore che si portano dietro. La seconda strofa ci offre un carosello di figure umili, colte nella loro semplice e normale quotidianità: il via vai fra il l’osteria e il “lupanare”, gli uomini e le merci che, nella febbrile attività del porto, sono assimilati alla stessa condizione di scorie o rifiuti, una prostituta, un marinaio, un vecchio che bestemmia, una donna che bisticcia, un soldato che chiacchiera seduto davanti ad una bottega ed una giovinetta” impazzita d’amore”. La scelta del ceto popolare come luogo deputato di una fenomenologia esistenziale ricca di rivelazioni e strettamente legata alla ricerca dell’autentico e dell’istintivo: la vita rivela se stessa nell’elementarità non contaminata dalle sue pulsioni proprio là dove non esistono schermi culturali capaci di mascherarla o idealizzarla. E la vita è, nella sua essenza, nient’altro che  il ritmo scandito dagli eventi grandi e semplicissimi del nascere, dell’amare e del morire. La donna è, in questa lirica, rappresentata da una prostituta e da una giovinetta “ tumultuante…impazzita d’amore”: essa è mediatrice per eccellenza di umanità e natura, si assume, nella poesia sabiana, le maggiori responsabilità nella costante riduzione al naturale-istintivo. La donna è l’epicentro dell’Eros che, in un universo di naturalizzazione dell’umano, rappresenta la forza portante di tutto il “Canzoniere”. 
Il senso di solitudine, desolazione e angoscia emerge da questa descrizione rapida e incisiva, da questa figura che rimane nella mente del lettore dell’uomo-rifiuto. Ma il poeta non è animato, davanti ad un simile spettacolo, da un vago sentimento populistico perché egli non si china paternalisticamente su quel mondo, non discende da un olimpo letterario su di esso, ma ci vive dentro e lo sente come un mondo popolato da creature simili a lui. Questo atteggiamento di com-passione deriva dal fatto che Saba ha fatto della poesia uno strumento di consolazione, vi ha pensato come al luogo della sublimazione del dolore, alla risorsa di vita e di canto contro la stretta dell’angoscia, adeguando di conseguenza l’istinto di confessione lirica alle istituzioni più o meno canoniche della poesia, riconosciute in un certo senso come struttura categoriale permanente, qualcosa di esistente in concreto nella sua radiante e suggestiva specificità. Si capisce, dunque, che il poeta triestino mantiene intatto il linguaggio perché mantiene intatto il mondo. Egli continua a credere che il mondo esista perché ha bisogno di trovare consolazione, rifugio, protezione in mezzo alle care e consuete cose di sempre che formano il suo habitat irrinunciabile. La lirica è percorsa da un delicato senso di nostalgia, che è il sentimento che il poeta prova rispetto all’esistenza delle cose: la sua condizione di escluso, incapace di intrattenere con la vita rapporti di diretta e semplice simbiosi, si traduce in un patetico desiderio di ricomposizione del dissidio in termini di sentimentalità diffusa, di “ bontà” e amore offerti come contropartita di una possibile partecipazione alle gioie della convivenza. E’ inutile, forse, ricordare come l’abbandono della famiglia da parte del padre prima ancora che il poeta nascesse, l’allontanamento traumatico della balia amatissima quando aveva due o tre anni, la vita accanto alla madre rigida e risentita, influirono sul temperamento sensibilissimo del bambino nel senso di un incolmabile bisogno di affetto. Ma la carenza affettiva serve a spiegare l’amore per quella singolare istituzione , che promette consolazione, dolcezza, smemoramento e fama, che è la poesia, nella quale è possibile “trovare le necessarie dolcezze del grembo materno”, al di là delle delusioni inflittegli dalla madre vera. Tutti i  personaggi menzionati nella seconda strofa, così diversi e così presi ognuno dal proprio ruolo, hanno in comune di essere creature della vita e , soprattutto, del dolore. Un dolore che nasce dalla angosciata consapevolezza dell’irrimediabile male di vivere. Non c’è nulla che valga a compensare l’inesauribile malum mundi ed i rimedi sono sempre difese precarie e fragilissime che non possono in alcun modo garantire contro le insorgenze angosciose della consapevolezza. In Saba l’esistere, nel suo concreto  hic et nunc, domina sull’essere e anzi l’essere è completamente risolto nell’esistenzialità: di qui l’abbandono completo alle cose e il trasalimento angosciato per la loro radicale inconsistenza e l’amore come segno di una partecipazione assoluta. In questo contesto gli animali diventano addirittura un modello di riferimento per quella che potremmo chiamare la “ conversione” dalla cultura alla natura, in una semplificazione che, lungi dal costituire un impoverimento, rappresenta il modo più diretto  per collocarsi al centro di quell’unico, disperato e gioioso valore che è la vita. L’ultima terzina ci invita ancora a riflettere ( si noti l’inversione al v 20) su quanto l’umiltà possa indurre lo spirito ad elevarsi e proprio in virtù di questa “ riduzione” alla più semplice esistenzialità prendono estremo rilievo, nella poesia di Saba, gli elementi ambientali, con quel centro affettivo che sempre ritorna che è Trieste: è naturale, infatti, che come l’animale è inseparabile dal suo habitat, così il personaggio, così psicologicamente poco diversificato, trovi collocazione esatta nell’ambiente che lo esprime e di cui è espressione.  Senza contare che i luoghi, e dunque Trieste soprattutto, rappresentano la “tana”, il rifugio da cui dolorosamente ci si allontana e a cui si ritorna con l’ansia del “perseguitato”. E’ per questa angolatura interpretativa carica di desolata sapienza del dolore che i frequentissimi “paesaggi” sabiani sfuggono, pur rimanendo realisticamente riconoscibili, ad ogni pericolo di descrizionismo impressionistico: i luoghi, anche appena nominati e ridotti ad una spoglia nomenclatura, vibrano di questa sapienza che li investe, facendoli rivelazione di un amor vitae tanto più assoluto quanto più immerso nella consapevolezza dell’inesorabile morte. Non c’è bisogno del fatto grande per avere conferme all’antica persuasione della bellezza e tragicità del vivere: ce n’è tanto poco bisogno che a Saba basta spesso nominare un semplice oggetto, leggere un dato ovvio dell’esistenza per suscitare riscontri sapienziali.

mercoledì 5 giugno 2013

"IL CORPO DELLE DONNE" documentario





" Il corpo delle donne" è un documentario straziante e umiliante per qualsiasi donna che conservi un minimo di amor proprio e di dignità. Dopo tante battaglie per la parità dei sessi, per affermare che non siamo solo corpo, ma che siamo intelligenza, spirito e sentimenti prendiamo coscienza che il modo in cui ci lasciamo rappresentare dai mass media è, a dir poco, offensivo e lesivo della nostra dignità. Non voglio fare un discorso moralista o il solito predicozzo, ma certo voglio riflettere sulla necessità di recuperare noi stesse e la nostra essenza. Il nostro corpo è un dono speciale, un patrimonio che dobbiamo amministrare con cura e rispetto. Non dico , certo, alle donne di negare la loro sessualità o la loro femminilità, ma mi piacerebbe che non limitassimo la comunicazione al linguaggio del corpo. Il documentario è impietoso e non lascia dubbi circa la leggerezza e la superficialità di tante, troppe donne che si sottomettono ai meccanismi televisivi per garantirsi un elevato tenore di vita e poco importa se a rimetterci è la reputazione o l'orgoglio!  Abbiamo davvero bisogno di essere desiderate da uomini bavosi e che non riescono a tenere gli occhi al di sopra del nostro décolleté, o  sogniamo ancora un uomo che ci ami, ci apprezzi per quello che abbiamo nella testa e nel cuore, con il quale oltre a fare l’amore possiamo ridere, parlare, andare al cinema, crescere i nostri figli e invecchiare tenendoci per mano? E’ un nostro diritto essere femminili, sentirci belle e desiderate, ma proporsi come una bancarella con la mercanzia tutta in bella mostra, è tutta un’altra storia! 
Questo documentario, che si limita a proporre immagini che quotidianamente passano sotto i nostri sguardi distratti e superficiali, ci obbliga a riflettere sul fatto che abbiamo perso la nostra identità, che a furia di vederci rappresentate come tette e culi, ci siamo dimenticate di noi, abbiamo perso il senso profondo dell’essere donna. Donne svestite, mute, sempre accondiscendenti, oche giulive in un tripudio di doppi sensi e di uomini con gli ormoni impazziti, questo è il ritratto che emerge e che svilisce la donna. Non protagoniste, ma cornice, suppellettile, decoro, come una tenda, come un vaso , …“come una grechina di quelle che le maestre fanno disegnare ai bambini sul quaderno per rendere colorate le pagine”. La vera tragedia, però, sta nella drammatica constatazione che pensiamo a noi stesse come gli uomini, che ormai sempre più spesso siamo  preoccupate di quanti ci guarderanno o di quanti anni in meno riusciremo a dimostrare con un opportuno ritocchino. Dove sono finite le donne uniche e irripetibili?  Vediamo sempre più spesso donne nascoste dietro  facce di plastica, inespressive, tutte uguali e prive, ormai, della capacità di raccontare con gli occhi, che non sono più lo specchio dell’anima, ma la firma del chirurgo plastico. Abbiamo venduto la nostra anima agli uomini, ci siamo vendute a saldo a quegli stessi che abbiamo combattuto, ai quali volevamo dimostrare di essere non solo corpo, non solo oggetto di desiderio, ma testa, intelligenza, intraprendenza, abbiamo , alla fine, capitolato e siamo quello che la società maschilista e sessista ha sempre voluto: un corpo senza anima.Una donna che abbia un briciolo di dignità non può scegliere di usare il proprio corpo per fare soldi, perché  non c’è  nessuna differenza tra una prostituta che vende sesso per strada e una donna che scientemente investe solo sul  suo corpo e, in nome del dio denaro, rinnega la propria dignità. La nostra emancipazione si riduce a mostrare il nostro corpo senza pudore, a pensare proprio come quegli uomini che volevamo educare al rispetto del nostro essere persone, prima che macchine generate per il loro piacere. Stiamo rincorrendo il mito delle fatalone, delle donne che per conquistare un uomo scelgono di allettare solo i suoi sensi, non il suo cuore e tanto meno la sua testa. Rincorrendo questi modelli ci siamo dimenticate di noi, di quello che desideriamo, di quello che ci rappresenta, di quello che vogliamo davvero. Siamo costrette a misurarci con dei modelli inarrivabili in quanto non dono della natura, ma frutto di un'accurata operazione di chirurgia estetica che omologa i nostri corpi, ci priva di quei tratti distintivi che ci rendono riconoscibili e uniche: zigomi alti, labbra a canotto, non una ruga, un seno prosperoso, uno sguardo ammiccante e sensuale, tutte tristemente uguali.Abbiamo perso la dimensione  bellissima di essere persone uniche e straordinarie, abbiamo paura di guardarci allo specchio e di non vedere una bellissima e perfettissima donna desiderata e desiderabile, non per le eccelse qualità morali, o per le indiscusse competenze né per lo straordinario carattere o per i valori che esprimiamo. Temiamo talmente tanto di non essere abbastanza piacenti e attraenti, che decidiamo di indossare una maschera,  negando o eludendo ciò che siamo, ma cercando di diventare ciò che gli altri vogliono o si aspettano. Super donne, perfette, impeccabili, eternamente giovani, in competizione con le nostre figlie, le nostre nipoti, con le giovani donne che dovremmo educare al rispetto di sé e del proprio universo e che , talvolta, guardiamo astiose e livide. Non possiamo differire oltre  la decisione  di riappropriarci di noi stesse, delle nostre imperfezioni, del nostro corpo che se non deve essere negato, non deve diventare neppure unico interlocutore di una cultura che sta frustrando le nostre aspirazioni, sta cancellando i nostri sogni e ci sta privando di tutti quei valori che abbiamo conquistato a fatica e pagando , spesso, un prezzo troppo alto.