venerdì 20 settembre 2013

Analisi del testo: L' "Infinito" di Giacomo Leopardi



L’Idillio, composto presumibilmente nel 1819, compare sempre all'inizio delle raccolte leopardiane  e rivela un tono meno soggettivo e autobiografico. Dopo una prima attenta lettura, si noterà che è possibile dividere il testo in quattro sequenze :vv. 1-3 indicazione, ma senza elementi descrittivi, di uno spazio concreto ( l’area ristretta delimitata dalla siepe) e di uno specifico personale( la consuetudine di salire sul colle e lo stato d’animo che ne deriva); vv 4-8 processo di astrazione e visione mentale dello spazio; vv 8-13 un semplice stormir di foglie segna un momento di passaggio dall'immaginazione spaziale a quella temporale; vv 13-15 il pensiero si smarrisce e lo smarrimento genera piacere. Il titolo del componimento introduce magistralmente il lettore in una atmosfera di vago, di incommensurabile, in una dimensione in cui i sentimenti, gli spazi e il tempo sono dilatati e senza limite alcuno. Tuttavia le nostre aspettative sembrano, in un primo momento, deluse dai primi tre versi dell’Idillio. Esso, infatti, si apre con l’avverbio  sempre che imprime al periodo un tono di calda consuetudine, rafforzato dall'uso del passato remoto fu. L’aggettivo caro ci lascia entrare in un mondo noto, amato e ben definito, mentre  ermo, uno studiato arcaismo per indicare la solitudine del luogo, nobilita il colle su cui il giovane Leopardi amava concludere le sue passeggiate. Il colle, da identificare col monte Tabor un’altura assai vicina alla casa dei Leopardi, diventa il centro dello spazio interno che i primi tre versi vanno configurando. Ma ciò che circoscrive con determinazione lo spazio del colle è la siepe: il termine, che sfrutta bene il suo valore denotativo e connotativo, è messo in rilievo sia dall'accento ritmico che cade proprio sulla prima sillaba che dalla sua posizione in chiusura di emistichio prima di un’enfatica cesura rafforzata dalla virgola. E’ la siepe che impedisce allo sguardo del poeta di andare oltre quello spazio finito in cui si trova a meditare, è la siepe che rende invisibile  tanta parte dell’estremo orizzonte: ancora un latinismo ad impreziosire il verso con il particolare valore semantico attribuito all’aggettivo ultimo. La siepe è l’ostacolo materiale che si frappone tra i due spazi, quello finito e quello infinito, essa è il limite di ciò che è noto e delimitato e preclude la possibilità di guardare oltre servendosi dei sensi. Il ritmo di questi primi tre endecasillabi è scandito dall'enjambement tra i vv. 2-3 e dalle sinalefi che, insieme, danno al periodo un ritmo lento e pacato. Il rapporto dialettico che lega il titolo all'esordio del componimento persiste anche tra la prima e la seconda sequenza di versi. La forte avversativa ma, posta enfaticamente all'inizio del v. 4, scandisce il passaggio dalla descrizione  di uno spazio chiuso e stretto ad uno spazio dilatato e senza confini. La seconda sequenza è contraddistinta dalla rappresentazione dell’infinito, cioè di quello spazio che sta oltre la siepe, di quello spazio che sembra impenetrabile( e lo sarebbe se ci si limitasse ai sensi), ma che si spalanca vasto e smisurato al pensiero che solo può superare l’ostacolo-siepe. Uno spazio “infinito” appunto in cui dominano sovrumani/silenzi (vv.5-6) e una profondissima quiete(v.6): il v. 6 racchiude i due elementi distintivi dello spazio infinito posti ad inizio e a fine verso, accompagnati da due aggettivi pregni di significato. La centralità del verso nelle sequenze è rafforzata dall’enjambement che lo lega al verso precedente, da una forte cesura che cade dopo il primo termine, isolandolo, e che coincide con la virgola e dalla dieresi che rende il termine quiete trisillabo. I quattro versi della seconda sequenza sono tutti legati dall’enjambement che non solo rallenta il ritmo dei versi, ma concorre a dare il giusto rilievo a termini come spazi (v.4), silenzi(v.6), quiete (v.6) e ad aggettivi come interminati (v.4) e sovrumani(v.5). Fra l’immensità e la ristrettezza dello spazio interno sembra che non ci sia la possibilità di contatto e di continuità, ma lo sguardo che è costretto ad arrendersi davanti ad un muro imperscrutabile trova il suo prolungamento nel pensiero che può vagare ed immaginare prescindendo dalle percezioni visive. La dicotomia tra spazio interno ed esterno è superata dal pensiero che può elevarsi e superare il limite, ma in questo sforzo il poeta si sente pervaso da un moto di paura. La voce del vento che fa muovere le foglie paragonata all’ infinito silenzio dello spazio esterno apre la riflessione sul tempo: la stridente contraddizione suscita il sentimento del tempo esterno, che coincide con l’eterno, con il passato e con la morte  e del tempo interno tutto rappresentato dalla vita. L’alternanza finito-infinito, interno-esterno è sintetizzata anche dall’assonanza che lega sia voce(v.9) e morte (v.12) che vento(v.8) ed eterno (v.10). Il passaggio dal tema dello spazio a quello del tempo è bruscamente scandito dalla cesura, che coincide con i due punti, al v.10: anche questa terza sequenza è marcata dall’enjambement che lega tutti i versi, dalla sinalefe e dagli iati che non solo conferiscono una particolare ricchezza al metro, ma contribuiscono a creare un’atmosfera di pacata e distesa riflessione. La sensazione lascia il posto al ricordo e crea i presupposti per un nuovo sentire: l’infinito che il pensiero va scrutando si identifica, nella dimensione temporale, con l’eterno e con il passato così diversi dalla caducità e dalla fragilità del tempo concesso alla breve vita dell’uomo. L’ultima sequenza è tutta percorsa da una dolcezza e da un abbandono ineluttabili cui si arrende il pensiero dopo questo vagare, un abbandono impreziosito dall'uso connotativo del significante naufragare. L’apertura dell’idillio così intima e conosciuta è ripresa, nel finale, del dolce abbandono all'infinito e il componimento risulta imperlato da una struttura ad anello. Le parole-chiave dell’idillio sono silenzio (termine che compare ben due volte nel componimento al v.6 e al v.10)e quiete al v.6: la loro funzione sta tutta nella definizione dell’infinito. Essi, infatti, non appartengono alla sfera umana e tanto connotano l’infinito in quanto nell'immaginario rimandano ad un contesto di morte. Due termini cari a Leopardi e sempre usati per il loro pregnante valore evocativo. Il polisindeto, l’uso ben articolato degli aggettivi questo e quello, visualizzano la dialettica che sottende al testo ed esprimono l’ondeggiare tra realtà ed immensità che termina con il dolce naufragio dell’anima che chiude magistralmente un componimento emozionante in ogni verso: la dolcezza dell’abbandono è messa in rilievo dalla predominanza di vocali aperte, dall'allitterazione e dalla scelta dell’aggettivo dolce che , quasi lascivo e molle, sottolinea il profondo bisogno di un momento di pace dopo aver vissuto un’esperienza così emozionante.