lunedì 17 giugno 2013

LA VITA DI UNA DONNA NELL’ANTICA GRECIA

PARTE SECONDA


Una svolta importante nella vita delle donne si ebbe nel V secolo a.C. in occasione della guerra del Peloponneso che costrinse molti uomini lontano da casa , lasciando alle donne nuove responsabilità, una nuova consapevolezza e più libertà di uscire per curare gli affari di famiglia. Certamente una prassi consolidata prevedeva che le donne, rigorosamente accompagnate da una schiava, facessero visita alle loro amiche per chiacchierare o farsi prestare oggetti per la casa o per futili pretesti. Un’altra importante occasione per uscire di casa erano le feste in onore di Dioniso, durante le quali erano allestiti spettacoli teatrali a cui, quasi certamente, potevano partecipare anche le donne sia pure limitatamente alle rappresentazioni tragiche e non a quelle satiriche in quanto spesso volgari e troppo lascive per le donne. Certamente la mutata condizione delle donne maturata in occasione della guerra del Peloponneso, modificò molti costumi fino ad allora radicati. Un dato certo è che gli uomini cercavano, fuori casa, ogni genere di soddisfazione negata o semplicemente non soddisfatta dalla vita coniugale: giovinetti e cortigiane offrivano un lieto diversivo alla monotonia del menage familiare. La “nuova” libertà conquistata dalle donne le spinse a stare molto di più tra gli uomini, ad esporsi più spesso in pubblico e a ritrovare il gusto di una certa femminilità costretta dalla clausura del gineceo, al punto che fu creato un magistrato ad hoc, il gineconomo, incaricato di vigilare sul comportamento delle donne. Un fatto singolare nel V secolo fu proprio l’unione extra-coniugale di Pericle con Aspasia: lo statista greco ripudiò sua moglie, da cui aveva avuto due figli, per vivere con la bella milesia ma senza poterla sposare in quanto la donna non era ateniese di nascita e non apparteneva a nessuna delle città che avessero ricevuto da Atene il diritto di epigamia. Tuttavia la posizione non del tutto legale della donna accanto a Pericle, la espose ai perfidi attacchi dei comici e dei poeti che non esitarono ad apostrofarla come prostituta o tenutaria di casa chiusa. In realtà in questo caso il problema non era che Pericle avesse una concubina, prassi assolutamente consolidata e “normale” ad Atene, ma che la donna fosse straniera.
Le concubine erano donne che, pur non riconosciute dalla legge, erano, di fatto, legittimate dalla consuetudine. Se la  moglie e la concubina erano entrambi ateniesi, la differenza stava nella dote: la moglie legittima, infatti,  portava la dote per il matrimonio, la concubina, invece, portava solo se stessa in quanto spesso discendente da una famiglia povera. Le prostitute erano per lo più schiave, che ad un costo irrisorio soddisfacevano i desideri dei loro clienti, ma spesso potevano essere anche vere e proprie “escort” non solo ben pagate, ma addirittura alcune venivano sposate da uomini molto ricchi e con una posizione sociale ragguardevole.  Certo è da sfatare la leggenda che fa delle cortigiane donne colte o istruite: invero, molto spesso, venivano educate sin da bambine alla professione e imparavano l’arte della seduzione a partire dalla cura del corpo per finire a tutto ciò che avrebbe potuto compiacere i clienti. E’ probabile che tra le cose che venivano insegnate ad una cortigiana ci fosse l’arte di suonare uno strumento musicale e di ballare. Dai matrimoni greci non nascevano molti figli  e non solo perché gli uomini avevano mille distrazioni fuori casa, ma soprattutto per evitare di mettere al mondo troppi eredi legittimi che avrebbero comportato un eccessivo impoverimento  del patrimonio familiare diviso tra troppi eredi. Quando una donna restava incinta e il figlio non era desiderato dal marito era possibile o ricorrere all'aborto oppure esporre il piccolo. Sebbene la legge greca non vieti l’aborto, considerato legittimo per un uomo che voglia tutelate il proprio patrimonio familiare, tuttavia si raccomandava di praticarlo in tempi rapidi, prima che il feto ricevesse “ vita e sensi”, questo non per scrupolo di coscienza, ma solo per scrupolo religioso.  Sempre per questo inspiegabile scrupolo religioso era vietato uccidere un neonato, ma era lecito lasciarlo morire di fame e senza prendersi cura di lui. Il figlio indesiderato poteva anche essere abbandonato per strada in un vaso di argilla che gli faceva da tomba. I neonati esposti più fortunati venivano raccolti e cresciuti per diventare schiavi o, nel caso di neonate, prostitute. Il parto era assistito da donne esperte , ma in caso di necessità o di complicazioni interveniva un’ostetrica e un medico. Prima del parto si ungeva la casa con la pece per scacciare i demoni o per proteggerla dalla contaminazione. Immediatamente a ridosso della nascita, veniva apposto sullo stipite della porta un ramoscello di ulivo se era maschio, un filo di lana per una bambina. A distanza di cinque o sette giorni dalla nascita del bambino si teneva una festa importante, detta delle Anfidromie: prevedeva essenzialmente riti di purificazione per la madre e per tutti coloro che avessero assistito al parto, oltre che l’ingresso ufficiale del neonato in società. Il nome della festa deriva dall'usanza di correre intorno al focolare domestico con il bimbo tra le braccia( anfi= intorno).  A distanza di dieci giorni ci si riuniva nuovamente per fare un sacrificio e per banchettare in onore del nuovo arrivato: in questa occasione al bambino veniva dato il nome, spesso del nonno paterno, anche se questa norma non era vincolante e venivano offerti doni, soprattutto amuleti.


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