ADELCHI ATTO V SCENA OTTAVA vv. 338-364
Adelchi Cessa i lamenti, /cessa, o padre, per Dio! Non
era questo/ il tempo di morir? Ma tu, che preso/ vivrai, vissuto nella reggia,
ascolta./ Gran segreto è la vita, e nol comprende/ che l’ora estrema. Ti fu
tolto un regno:/ Deh! Nol piangere; mel credi. Allor che a questa/ ora tu
stesso apprresserai, giocondi/ si schiereranno al tuo pensier dinanzi/ gli anni
in cui re non sarai stato, in cui/ né una lagrima pur notata in cielo/fia
contra te, né il nome tuo saravvi/ con l’imprecar de’ tribolati asceso./ Godi
che re non sei, godi che chiusa/ all’oprar
t’è ogni via: loco a gentile,/ ad innocente opra non v’è: non resta/ che
far torto, o patirlo. Una feroce/ forza possiede, e fa nomarsi/dritto: la man
degli avi insanguinata/seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno/ coltivata col
sangue; e omai la terra altra messe non dà. Reggere iniqui/ dolce non è; tu
l’hai provato: e fosse;/ non dee finir così? Questo felice,/ cui la mia morte fa
più fermo il soglio,/ cui tutto arride, tutto plaude e serve,/questo è un uom
che morrà.
L’ Adelchi, la seconda tragedia di Manzoni, fu pubblicata nel 1822 e
rappresentò un ulteriore approfondimento da parte dell’autore dei problemi
connessi al genere tragico. Per intendere in che modo Manzoni giunse a certe
conclusioni sarà necessario ripercorrere brevemente la sua formazione. Egli fu
profondamente influenzato dalla cultura illuministica, sia negli anni della sua
formazione giovanile nella Milano napoleonica, che pochi anni prima era stata
la capitale dell’Illuminismo italiano, sia nel soggiorno parigino a contatto
con gli ideologi (un gruppo di
intellettuali che si opponevano al regime napoleonico ed erano gli eredi degli
ideali rivoluzionari e del patrimonio di idee dell’Illuminismo, con aperture
nuove di interesse verso la storia che preludono al romanticismo). Le posizioni
liberali, il rigorismo morale di questi intellettuali esercitarono un influsso
determinante nella formazione delle idee politiche , filosofiche, morali e
letterarie del Manzoni. Il contatto con gli ideologi incise anche sulla
conversione religiosa e letteraria di Manzoni, sul suo ritorno alla fede
cattolica e sull’adesione ai principi romantici. Egli fu vicino al movimento
romantico milanese, che cominciò a formarsi a partire dal 1816 e ne seguì
attentamente gli sviluppi, anche se non partecipò vivamente alle polemiche e
declinò l’invito a collaborare al “ Conciliatore”. L’adesione ai principi
romantici si manifesta anche in un interesse per la storia, che prende corpo in
due tragedie storiche. La prima fu il “Conte di Carmagnola” dedicata al
condottiero condannato per tradimento dalla Repubblica di Venezia nel 1400, che
fu iniziata nel 1816 e portata a termine, dopo lunghe interruzioni, nel 1820.
Anche qui Manzoni rifiuta i modelli classicheggianti e si rivolge piuttosto
alle tragedie storiche di Shakespeare, su cui i teorici europei del
Romanticismo avevano puntato il loro interesse. Sulla scorta di tali teorici,
Manzoni ripudia il caposaldo della tragedia classicheggiante: la regola delle
unità. Mentre la tradizione classicistica, ancora seguita da Alfieri e Foscolo
nel loro teatro tragico, prescriveva che l’azione della tragedia non superasse
la durata di ventiquattro ore e si svolgesse tutta nello stesso luogo, senza
cambiamenti di scena, nel Conte di Carmagnola e nell’ Adelchi lunghi intervallo di tempo,
anche anni, separano i vari momenti dell’azione e la scena si sposta di
frequente. La regola delle unità era nata dal gusto classicistico del Rinascimento
italiano e dal principio di imitazione dei classici che ne era il canone
fondamentale. Secondo tale principio, ogni genere letterario doveva seguire
precise regole ed imitare un modello antico. E poiché i grandi tragici greci
usavano abitualmente concentrare l’azione nell’arco di una giornata e mantenere
fissa l’azione, tali caratteristiche furono assunte come regole vincolanti
assolute, valide per ogni tempo ed ogni luogo. L’obbligo delle regole fu poi
rapidamente codificato dai trattatisti letterari del Cinquecento e seguito
scrupolosamente dai poeti. Il principio delle unità fu consacrato
definitivamente dal teatro tragico francese del Seicento e imposto come
intangibile dai capolavori di Corneille e Racine. Furono i romantici tedeschi,
tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, a rifiutare le regole opponendo ai
classici il modello della tragedia di Shakespeare, che ignora completamente le
unità. Il rifiuto dei romantici nasceva dal principio che il genio poetico deve
creare liberamente, senza costrizione alcuna, come una forza della natura.
Le ragioni per cui Manzoni rifiuta le unità sono molteplici e minuziosamente esposte nella “ Lettre à M. Chauvet”: in generale non si possono dare regole astratte e assolute alla composizione poetica. La forma di un componimento deve risultare dalla natura del soggetto, dal suo svolgimento interiore e non da modelli esterni. Nessuna azione nella vita reale può svilupparsi nell’arco brevissimo di un solo giorno e in un solo luogo: il rispetto delle regole impedisce al poeta di riprodurre gli eventi quali si svolgono nella vita reale degli uomini e soprattutto nella storia, che è la fonte principale della bellezza poetica. La rigida distinzione, poi, di sublime e quotidiano, di tragico e comico esprimeva a livello letterario la rigida divisione della classe aristocratica dominante dalle classi inferiori, e la volontà di difendere il privilegio anche mediante l’imposizione di modelli di gusto. E’ naturale che la borghesia, nella lotta per affermare il proprio dominio in campo politico come in campo culturale, rifiuti anche questa “divisione degli stili” e affermi un gusto più democratico, proclamando il pieno diritto della vita quotidiana ad entrare nella poesia e ad essere rappresentata in tutta la sua importanza e serietà, al limite anche tragicità. Una nota merita anche la nuova funzione del coro: nella tragedia greca il coro era la personificazione dei pensieri che l’azione deve ispirare, una specie di spettatore ideale, che filtra e idealizza liricamente le impressioni provate dal pubblico reale; per Manzoni i cori sono degli squarci lirici che interrompono l’azione drammatica, ai quali l’autore affida l’espressione dei sentimenti e delle considerazioni destategli dall’azione stessa, in modo da salvaguardare l’azione da ogni intromissione soggettiva. In tal modo la tragedia può rispondere a quella poetica del vero, dell’aderenza all’oggettività dei fatti storici che è alla base della concezione manzoniana della letteratura. I cori rispondono anche , in Manzoni, alla funzione morale che la poesia, soprattutto quella drammatica, deve possedere. Il coro permette allo scrittore di intervenire a chiarire il significato dell’azione che si sta svolgendo, a rendere esplicito il messaggio che ad essa è affidato, e che lo spettatore può travisare o non cogliere addirittura. Sulla base di questi principi, Manzoni si accinse ad un’altra tragedia di argomento storico, Adelchi, che rappresenta la fine del dominio longobardo in Italia nell’ VIII e che viene redatta tra il 1820 e il 1822. Per ben comprendere lo svolgimento del pensiero manzoniano fino all’Adelchi va ricordato che Manzoni, legato ancora all’Illuminismo, ha ancora fiducia nella forza riformatrice delle idee e crede che sia necessario mettere ordine nella coscienza degli uomini per fare ordine nella società; un altro abito mentale tipicamente illuministico è la fede nel valore civile ed educativo della letteratura. La conversione “cattolica” e romantica di Manzoni costituisce, poi, un abbandono delle giovanili posizioni di rivolta astratta e aristocratica, di tipo alfieriano e foscoliano, e segna una visione più moderata che tende ad una sostanziale accettazione della realtà storica. Si tratta, però, di un’accettazione condizionata, che deve sempre fare i conti con il pessimismo cristiano dello scrittore, il quale, nonostante ogni proposito progressista, resta convinto che la storia è il prodotto del peccato originale e della “caduta” dell’uomo e quindi non potrà mai essere riscattata dal male mediante una semplice azione umana. Il rifiuto della storia ricompare nella tragedia Adelchi e si esprime attraverso la figura del protagonista e di Ermengarda. Adelchi è un eroe intimamente diviso e contraddittorio, in perenne conflitto con la realtà, condannato a soffrire proprio per la sua nobiltà spirituale che non è adatta alla realtà del mondo. In una variante cattolica incarna il tipo di eroe negativo, sconfitto e infelice caro alla mitologia romantica ed ha le sue radici negli eroi tragici alfieriani, nello Jacopo Ortis di Foscolo e nella stessa immagine di sé come “giusto solitario” che Manzoni costruiva nel giovanile carme In morte di Carlo Imbonati. Nutrito di alti ideali e di sogni eroici, Adelchi è costretto a compiere azioni meschine e inique nell'ambiente in cui vive, dominato dalla legge dell’utile e della forza. Il suo rifiuto della negatività del mondo non si esprime in un gesto clamoroso di rivolta, come avviene in tanti eroi ribelli del Romanticismo, ma si isterilisce nel chiuso della sua interiorità. Ermengarda è l’esatto equivalente femminile del mito proposto da Adelchi: come Adelchi esprime il rifiuto della realtà, del rapporto tra gli esseri umani in campo politico e pubblico, essa esprime il rifiuto della realtà in campo privato, sentimentale e sessuale. Ermengarda è la fanciulla-angelo pura ed infelice cara alla mitologia borghese tra ‘700 e ‘800, che è contaminata dal contatto con il mondo e rifugge da esso verso la sua patria vera che è il cielo. Sebbene Adelchi ed Ermengarda esprimano questo radicale pessimismo e la soluzione estrema della fuga dal mondo, proprio nell’ Adelchi si può individuare in atto quella dialettica tra rifiuto e accettazione della storia. Metricamente il brano presenta endecasillabi sciolti con una misura uguale di endecasillabi a maiore ( vv 27, 28,32,34,38,39,41,42,43,44,45,46,48) e a minore: prevale il ritmo ascendente con una forte predominanza di emistichi giambici. Il pathos e la drammaticità del momento sono messi in rilievo da un periodare spezzato da continui segni di interpunzione, che spesso coincidono con le cesure, e che sembrano quasi suggerire la volontà di Manzoni di dare rilievo all’espressione dolorosa di Adelchi condannato a non poter agire. L’incipit del brano è segnato da un imperativo( cessa) che per anadiplosi, è ripreso nel verso successivo: in Manzoni l’uso dell’imperativo fa sempre riferimento all’intervento costrittivo sulle cose, definisce l’ambito concluso delle possibilità esaurite. Un posto rilevante occupano anche gli aggettivi che, grazie all’inversione o all’enjambement ( 17 in soli 27 versi) si collocano a fine o ad inizio verso: in Manzoni l’aggettivazione è una costante operazione di carattere qualificativo nel senso che intende imprimere una scelta di carattere morale, una definizione di positivo o di negativo senza possibilità di diversa interpretazione. In Manzoni l’aggettivo, fortemente caricato di intenzioni impositive e costrittive, costituisce l’ultimo anello di una stilizzazione tutta rivolta a definire un ambito di discorso interamente calcolato, definito, dove tutto è accaduto per sempre. Adelchi prega suo padre di non pensare alla sua sorte, ma di concentrarsi solo sulla sua condizione di prigioniero: l’allitterazione “ vivrai, vissuto” scandisce splendidamente il passaggio, per Desiderio, dalla vita regale sino ad allora condotta e il futuro da prigioniero che lo attende( si noti che “preso” è posto a chiusura di verso e in enjambement). Le riflessioni che seguiranno saranno caratterizzate da un pessimismo cupo, ma che vuole essere di consolazione al padre: l’emistichio è dominato dall’inversione( gran segreto è la vita) e da un ritmo anapestico e prelude all’affermazione successiva cioè che solo quando si avvicina l’ora della morte si comprende il grande mistero che è la vita. Perdere il regno non deve essere motivo di dolore o di tristezza, perché solo in punto di morte Desiderio capirà che gli anni senza comando saranno stati i più lieti per lui, perché neppure una lacrima, che per causa sua sia stata sparsa, sarà registrata in cielo contro di lui, né il suo nome vi sarà salito con le imprecazioni della gente da lui tormentata. L’iperbato( giocondi…anni) sembra quasi accompagnare la riflessione che Desiderio dovrà fare in punto di morte, mentre gli enjambement legano strettamente tra loro i versi. La ripetizione dell’imperativo “godi” sembra rafforzare la convinzione dello stato di grazia che conoscerà Desiderio lontano dagli affanni del potere, tanto più che non c’è nessuna strada aperta per chi vuole agire, non c’è posto per un’azione nobile o innocente e l’unica soluzione è fare del male o subirlo. La iunctura allitterante(feroce/forza), impreziosita dall’enjambement, conferisce all’aggettivo un rilievo particolare: Manzoni riscatta in termini cattolici il suo eroe “ problematico”, trasformando il tormento dell’aristocratica “anima bella” in una fuga dal mondo verso la pace consolatrice di Dio. Adelchi morente enuncia una visione del mondo radicalmente pessimistica: la storia è dominata dalla violenza e dall’ingiustizia, ed è impossibile agire per contrastare il male senza compiere altro male. Però la condizione del potente, colui che ha maggior peso nella storia, ed è costretto dalla logica della realtà a seminare sofferenze e ingiustizie, è totalmente negativa. Ancora un’inversione per spostare in ultima sede un aggettivo, in un verso dal caratteristico andamento dattilico: la mano “ insanguinata” dei primi Longobardi invasori ha seminato l’ingiustizia e non si può raccogliere un frutto diverso da quello che si è seminato. Quanto all’aggettivo “iniqui” bisogna dire che può essere sia predicativo del soggetto che dell’oggetto: nel primo caso intenderemo” governare ricorrendo alla forza”, come pare più probabile, nel secondo caso “ governare uomini iniqui”. Adelchi sa bene che suo padre comprende, per esperienza, le sue parole e che seppure fosse dolce governare con la forza, tutto dovrebbe finire comunque nella morte. Persino Carlo che fonda sulla sua morte un potere più solido, che in questo momento è ben voluto dalla sorte, osannato e servito da tutti come vincitore, persino lui dovrà morire e non potrà sfuggire il suo destino. Si noti come l’anafora del pronome relativo dà rilievo alla figura di Carlo e crea una dicotomia tra la sua grandezza presente e il destino a cui non può sottrarsi. Se Adelchi rappresenta l’impossibilità di agire nella storia, e proclama le ragioni ideali di questa rinuncia, l’essenza stessa di Carlo è il realismo dell’agire politico, Carlo non ha mai né problemi né esitazioni dinanzi all’agire; è convinto che l’interesse del regno giustifichi ogni azione, anche quelle che provocano sofferenze e ingiustizie, ma soprattutto è convinto di essere il “ campione di Dio”, l’esecutore delle sue volontà sulla terra, e di essere chiamato da Dio stesso alla missione di invadere l’Italia per salvare il Papa. In realtà le parole che rivolge ai suoi soldati, magnificando la preda che li attende in Italia, rivelano come sia spinto essenzialmente dal desiderio di conquista e di potenza. Nonostante questa demistificazione del potere e della forza che si ammantano di ragioni ideali, nell’economia complessiva dell’opera, Carlo non appare come un personaggio negativo. Nel Discorso che accompagna la tragedia, Manzoni osserva che tutti coloro che agiscono nella storia sono inevitabilmente spinti da interessi privati di dominio. Visto che il bene assolutamente non esiste, bisogna adottare un altro criterio per giudicare le azioni politiche: vedere se quelle azioni, perseguendo altri fini, tendano anche ad alleviarle le sofferenze delle masse che ne subiscono le conseguenze, oppure tendano ad aumentarle. Carlo, anche se è colui che ripudia Ermengarda e la condanna a morire di dolore, che distrugge il regno dei Longobardi approfittando cinicamente del tradimento dei duchi, che impone il suo dominio sui Latini sostituendosi ai Longobardi, è pur sempre il grande imperatore con cui camminano la storia e la civiltà, colui che restaurerà l’impero romano chiamandolo “sacro” e piegando il potere politico all’ossequio verso la Chiesa: di qui deriva quel carattere sostanzialmente positivo del personaggio. L’azione politica, anche se non obbedisce a ragioni ideali e disinteressate, ma alla legge del realismo e all’affermazione di potenza, viene accettata e, in una certa misura, riscattata all’interno del disegno provvidenziale visto che ne possono scaturire effetti positivi nel corso della storia. Ne risulta che la storia non è dominata dalla logica feroce della forza e della sopraffazione, come appare dalle parole di Adelchi morente, e che non è impossibile agire politicamente per attenuare il male del mondo. Prescindendo dal protagonista Adelchi, il nucleo centrale della tragedia non è la negazione totale della storia, ma quell’accettazione condizionata che tornerà poi accentuata e approfondita nel romanzo. La tragedia non riesce a soddisfare pienamente Manzoni che anzi non è contento dei suoi personaggi, come per esempio di Adelchi, di cui sottolinea il colore romanzesco, cioè sostanzialmente la falsità. Solo nel romanzo Manzoni concretizzerà a pieno i principi del moderno realismo borghese: si pensi alla profonda serietà con cui sono rappresentate le vicende quotidiane di personaggi delle classi inferiori, alla mancanza di idealizzazione dei protagonisti della vicenda, all’organico collegamento dei personaggi, della loro psicologia, del loro comportamento con il terreno storico del Seicento lombardo. L’Adelchi è più vicino, ideologicamente, ai Promessi sposi di quanto si sia soliti affermare. Con una differenza essenziale: nel romanzo i potenti che agiscono positivamente nella storia sono figure cariche di intenzioni pedagogiche ed esemplari; nell’Adelchi, invece, Manzoni è più sottilmente problematico e riesce a darci con Carlo Magno la figura singolare e complessa di un campione della fede che agisce per poco nobili interessi politici; mentre dall’altro lato un rappresentante della “rea progenie” degli oppressori, Adelchi, diviene il portatore della coscienza critica dinanzi al negativo della storia e della società.
Le ragioni per cui Manzoni rifiuta le unità sono molteplici e minuziosamente esposte nella “ Lettre à M. Chauvet”: in generale non si possono dare regole astratte e assolute alla composizione poetica. La forma di un componimento deve risultare dalla natura del soggetto, dal suo svolgimento interiore e non da modelli esterni. Nessuna azione nella vita reale può svilupparsi nell’arco brevissimo di un solo giorno e in un solo luogo: il rispetto delle regole impedisce al poeta di riprodurre gli eventi quali si svolgono nella vita reale degli uomini e soprattutto nella storia, che è la fonte principale della bellezza poetica. La rigida distinzione, poi, di sublime e quotidiano, di tragico e comico esprimeva a livello letterario la rigida divisione della classe aristocratica dominante dalle classi inferiori, e la volontà di difendere il privilegio anche mediante l’imposizione di modelli di gusto. E’ naturale che la borghesia, nella lotta per affermare il proprio dominio in campo politico come in campo culturale, rifiuti anche questa “divisione degli stili” e affermi un gusto più democratico, proclamando il pieno diritto della vita quotidiana ad entrare nella poesia e ad essere rappresentata in tutta la sua importanza e serietà, al limite anche tragicità. Una nota merita anche la nuova funzione del coro: nella tragedia greca il coro era la personificazione dei pensieri che l’azione deve ispirare, una specie di spettatore ideale, che filtra e idealizza liricamente le impressioni provate dal pubblico reale; per Manzoni i cori sono degli squarci lirici che interrompono l’azione drammatica, ai quali l’autore affida l’espressione dei sentimenti e delle considerazioni destategli dall’azione stessa, in modo da salvaguardare l’azione da ogni intromissione soggettiva. In tal modo la tragedia può rispondere a quella poetica del vero, dell’aderenza all’oggettività dei fatti storici che è alla base della concezione manzoniana della letteratura. I cori rispondono anche , in Manzoni, alla funzione morale che la poesia, soprattutto quella drammatica, deve possedere. Il coro permette allo scrittore di intervenire a chiarire il significato dell’azione che si sta svolgendo, a rendere esplicito il messaggio che ad essa è affidato, e che lo spettatore può travisare o non cogliere addirittura. Sulla base di questi principi, Manzoni si accinse ad un’altra tragedia di argomento storico, Adelchi, che rappresenta la fine del dominio longobardo in Italia nell’ VIII e che viene redatta tra il 1820 e il 1822. Per ben comprendere lo svolgimento del pensiero manzoniano fino all’Adelchi va ricordato che Manzoni, legato ancora all’Illuminismo, ha ancora fiducia nella forza riformatrice delle idee e crede che sia necessario mettere ordine nella coscienza degli uomini per fare ordine nella società; un altro abito mentale tipicamente illuministico è la fede nel valore civile ed educativo della letteratura. La conversione “cattolica” e romantica di Manzoni costituisce, poi, un abbandono delle giovanili posizioni di rivolta astratta e aristocratica, di tipo alfieriano e foscoliano, e segna una visione più moderata che tende ad una sostanziale accettazione della realtà storica. Si tratta, però, di un’accettazione condizionata, che deve sempre fare i conti con il pessimismo cristiano dello scrittore, il quale, nonostante ogni proposito progressista, resta convinto che la storia è il prodotto del peccato originale e della “caduta” dell’uomo e quindi non potrà mai essere riscattata dal male mediante una semplice azione umana. Il rifiuto della storia ricompare nella tragedia Adelchi e si esprime attraverso la figura del protagonista e di Ermengarda. Adelchi è un eroe intimamente diviso e contraddittorio, in perenne conflitto con la realtà, condannato a soffrire proprio per la sua nobiltà spirituale che non è adatta alla realtà del mondo. In una variante cattolica incarna il tipo di eroe negativo, sconfitto e infelice caro alla mitologia romantica ed ha le sue radici negli eroi tragici alfieriani, nello Jacopo Ortis di Foscolo e nella stessa immagine di sé come “giusto solitario” che Manzoni costruiva nel giovanile carme In morte di Carlo Imbonati. Nutrito di alti ideali e di sogni eroici, Adelchi è costretto a compiere azioni meschine e inique nell'ambiente in cui vive, dominato dalla legge dell’utile e della forza. Il suo rifiuto della negatività del mondo non si esprime in un gesto clamoroso di rivolta, come avviene in tanti eroi ribelli del Romanticismo, ma si isterilisce nel chiuso della sua interiorità. Ermengarda è l’esatto equivalente femminile del mito proposto da Adelchi: come Adelchi esprime il rifiuto della realtà, del rapporto tra gli esseri umani in campo politico e pubblico, essa esprime il rifiuto della realtà in campo privato, sentimentale e sessuale. Ermengarda è la fanciulla-angelo pura ed infelice cara alla mitologia borghese tra ‘700 e ‘800, che è contaminata dal contatto con il mondo e rifugge da esso verso la sua patria vera che è il cielo. Sebbene Adelchi ed Ermengarda esprimano questo radicale pessimismo e la soluzione estrema della fuga dal mondo, proprio nell’ Adelchi si può individuare in atto quella dialettica tra rifiuto e accettazione della storia. Metricamente il brano presenta endecasillabi sciolti con una misura uguale di endecasillabi a maiore ( vv 27, 28,32,34,38,39,41,42,43,44,45,46,48) e a minore: prevale il ritmo ascendente con una forte predominanza di emistichi giambici. Il pathos e la drammaticità del momento sono messi in rilievo da un periodare spezzato da continui segni di interpunzione, che spesso coincidono con le cesure, e che sembrano quasi suggerire la volontà di Manzoni di dare rilievo all’espressione dolorosa di Adelchi condannato a non poter agire. L’incipit del brano è segnato da un imperativo( cessa) che per anadiplosi, è ripreso nel verso successivo: in Manzoni l’uso dell’imperativo fa sempre riferimento all’intervento costrittivo sulle cose, definisce l’ambito concluso delle possibilità esaurite. Un posto rilevante occupano anche gli aggettivi che, grazie all’inversione o all’enjambement ( 17 in soli 27 versi) si collocano a fine o ad inizio verso: in Manzoni l’aggettivazione è una costante operazione di carattere qualificativo nel senso che intende imprimere una scelta di carattere morale, una definizione di positivo o di negativo senza possibilità di diversa interpretazione. In Manzoni l’aggettivo, fortemente caricato di intenzioni impositive e costrittive, costituisce l’ultimo anello di una stilizzazione tutta rivolta a definire un ambito di discorso interamente calcolato, definito, dove tutto è accaduto per sempre. Adelchi prega suo padre di non pensare alla sua sorte, ma di concentrarsi solo sulla sua condizione di prigioniero: l’allitterazione “ vivrai, vissuto” scandisce splendidamente il passaggio, per Desiderio, dalla vita regale sino ad allora condotta e il futuro da prigioniero che lo attende( si noti che “preso” è posto a chiusura di verso e in enjambement). Le riflessioni che seguiranno saranno caratterizzate da un pessimismo cupo, ma che vuole essere di consolazione al padre: l’emistichio è dominato dall’inversione( gran segreto è la vita) e da un ritmo anapestico e prelude all’affermazione successiva cioè che solo quando si avvicina l’ora della morte si comprende il grande mistero che è la vita. Perdere il regno non deve essere motivo di dolore o di tristezza, perché solo in punto di morte Desiderio capirà che gli anni senza comando saranno stati i più lieti per lui, perché neppure una lacrima, che per causa sua sia stata sparsa, sarà registrata in cielo contro di lui, né il suo nome vi sarà salito con le imprecazioni della gente da lui tormentata. L’iperbato( giocondi…anni) sembra quasi accompagnare la riflessione che Desiderio dovrà fare in punto di morte, mentre gli enjambement legano strettamente tra loro i versi. La ripetizione dell’imperativo “godi” sembra rafforzare la convinzione dello stato di grazia che conoscerà Desiderio lontano dagli affanni del potere, tanto più che non c’è nessuna strada aperta per chi vuole agire, non c’è posto per un’azione nobile o innocente e l’unica soluzione è fare del male o subirlo. La iunctura allitterante(feroce/forza), impreziosita dall’enjambement, conferisce all’aggettivo un rilievo particolare: Manzoni riscatta in termini cattolici il suo eroe “ problematico”, trasformando il tormento dell’aristocratica “anima bella” in una fuga dal mondo verso la pace consolatrice di Dio. Adelchi morente enuncia una visione del mondo radicalmente pessimistica: la storia è dominata dalla violenza e dall’ingiustizia, ed è impossibile agire per contrastare il male senza compiere altro male. Però la condizione del potente, colui che ha maggior peso nella storia, ed è costretto dalla logica della realtà a seminare sofferenze e ingiustizie, è totalmente negativa. Ancora un’inversione per spostare in ultima sede un aggettivo, in un verso dal caratteristico andamento dattilico: la mano “ insanguinata” dei primi Longobardi invasori ha seminato l’ingiustizia e non si può raccogliere un frutto diverso da quello che si è seminato. Quanto all’aggettivo “iniqui” bisogna dire che può essere sia predicativo del soggetto che dell’oggetto: nel primo caso intenderemo” governare ricorrendo alla forza”, come pare più probabile, nel secondo caso “ governare uomini iniqui”. Adelchi sa bene che suo padre comprende, per esperienza, le sue parole e che seppure fosse dolce governare con la forza, tutto dovrebbe finire comunque nella morte. Persino Carlo che fonda sulla sua morte un potere più solido, che in questo momento è ben voluto dalla sorte, osannato e servito da tutti come vincitore, persino lui dovrà morire e non potrà sfuggire il suo destino. Si noti come l’anafora del pronome relativo dà rilievo alla figura di Carlo e crea una dicotomia tra la sua grandezza presente e il destino a cui non può sottrarsi. Se Adelchi rappresenta l’impossibilità di agire nella storia, e proclama le ragioni ideali di questa rinuncia, l’essenza stessa di Carlo è il realismo dell’agire politico, Carlo non ha mai né problemi né esitazioni dinanzi all’agire; è convinto che l’interesse del regno giustifichi ogni azione, anche quelle che provocano sofferenze e ingiustizie, ma soprattutto è convinto di essere il “ campione di Dio”, l’esecutore delle sue volontà sulla terra, e di essere chiamato da Dio stesso alla missione di invadere l’Italia per salvare il Papa. In realtà le parole che rivolge ai suoi soldati, magnificando la preda che li attende in Italia, rivelano come sia spinto essenzialmente dal desiderio di conquista e di potenza. Nonostante questa demistificazione del potere e della forza che si ammantano di ragioni ideali, nell’economia complessiva dell’opera, Carlo non appare come un personaggio negativo. Nel Discorso che accompagna la tragedia, Manzoni osserva che tutti coloro che agiscono nella storia sono inevitabilmente spinti da interessi privati di dominio. Visto che il bene assolutamente non esiste, bisogna adottare un altro criterio per giudicare le azioni politiche: vedere se quelle azioni, perseguendo altri fini, tendano anche ad alleviarle le sofferenze delle masse che ne subiscono le conseguenze, oppure tendano ad aumentarle. Carlo, anche se è colui che ripudia Ermengarda e la condanna a morire di dolore, che distrugge il regno dei Longobardi approfittando cinicamente del tradimento dei duchi, che impone il suo dominio sui Latini sostituendosi ai Longobardi, è pur sempre il grande imperatore con cui camminano la storia e la civiltà, colui che restaurerà l’impero romano chiamandolo “sacro” e piegando il potere politico all’ossequio verso la Chiesa: di qui deriva quel carattere sostanzialmente positivo del personaggio. L’azione politica, anche se non obbedisce a ragioni ideali e disinteressate, ma alla legge del realismo e all’affermazione di potenza, viene accettata e, in una certa misura, riscattata all’interno del disegno provvidenziale visto che ne possono scaturire effetti positivi nel corso della storia. Ne risulta che la storia non è dominata dalla logica feroce della forza e della sopraffazione, come appare dalle parole di Adelchi morente, e che non è impossibile agire politicamente per attenuare il male del mondo. Prescindendo dal protagonista Adelchi, il nucleo centrale della tragedia non è la negazione totale della storia, ma quell’accettazione condizionata che tornerà poi accentuata e approfondita nel romanzo. La tragedia non riesce a soddisfare pienamente Manzoni che anzi non è contento dei suoi personaggi, come per esempio di Adelchi, di cui sottolinea il colore romanzesco, cioè sostanzialmente la falsità. Solo nel romanzo Manzoni concretizzerà a pieno i principi del moderno realismo borghese: si pensi alla profonda serietà con cui sono rappresentate le vicende quotidiane di personaggi delle classi inferiori, alla mancanza di idealizzazione dei protagonisti della vicenda, all’organico collegamento dei personaggi, della loro psicologia, del loro comportamento con il terreno storico del Seicento lombardo. L’Adelchi è più vicino, ideologicamente, ai Promessi sposi di quanto si sia soliti affermare. Con una differenza essenziale: nel romanzo i potenti che agiscono positivamente nella storia sono figure cariche di intenzioni pedagogiche ed esemplari; nell’Adelchi, invece, Manzoni è più sottilmente problematico e riesce a darci con Carlo Magno la figura singolare e complessa di un campione della fede che agisce per poco nobili interessi politici; mentre dall’altro lato un rappresentante della “rea progenie” degli oppressori, Adelchi, diviene il portatore della coscienza critica dinanzi al negativo della storia e della società.
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