Già nella
società omerica, la mensa del banchetto era il centro dell'istituzione sociale;
nella Grecia classica, i
banchetti pubblici riunivano i cittadini attorno a interessi comuni e
favorivano la gestione democratica degli affari; nella società spartana era
obbligatoria, in base alla codificazione di Licurgo, la partecipazione degli uomini a pasti comuni .Dalla socialità
conviviale (oltre che da
quella simposiaca) erano
comunque escluse le donne e i bambini, essendovi ammesse solo le etere che
godevano di un particolare status.I banchetti tra amici avevano per i greci grande
importanza; potevano essere offerti da uno di loro oppure indetti dai
componenti di un tiaso che ne condividevano le spese. Spesso i convitati portavano
con sé una canestro di vimini contenente dei cibi pronti, lo spyris che, in tante pitture vascolari, fa
bella mostra di sé, appeso al muro, insieme al nodoso bastone da passeggio e al
sybène, l'astuccio per aulòs.
Questi banchetti erano perciò detti apò
spyrìdos, cioè alla cesta, un'espressione che oggi possiamo tradurre con al sacco.Una volta riuniti a
casa dell'ospite, i convitati si toglievano i sandali, si facevano lavare i piedi
dagli schiavi e, dopo essersi posti sul capo corone di fiori o di foglie, si
disponevano a due a due sui letti collocati attorno alle rispettive mense.Il
banchetto si componeva di due parti: la prima (detta pròtai tràpezai = prime tavole), coincideva
all'incirca col tramonto ed era il pasto vero e proprio, all'inizio del quale
si faceva passare tra i convitati, che vi bevevano a turno, una coppa di vino. Il
banchetto si teneva nell'arco di tempo in cui solitamente si consumava il pasto
principale della giornata (gr. deípnon;
lat. coena), tra il
pomeriggio e il tramonto del sole. Col nome
di banchetto o convito, s'intende, se ci si riferisce all'antichità classica,
la forma più complessa e ricca del pasto comune; esso occupava una non piccola
parte della giornata; non era esclusivamente sede di baldoria, ma modo usuale
di convegno e di ricevimento, periodo di riposo dopo le faccende della
giornata, occasione d'informarsi, di conversare, di discutere. Nell'età omerica
il pasto principale è posto a metà della giornata; la colazione della mattina (ἄριστον)
e lo spuntino serale (δόρπον) si consumano senz'alcun apparato, fornendosi
dalla dispensiera (ταμίη) di quel poco che è necessario a una breve refezione.
Il pasto principale, se ha un carattere più modesto (δεῖπνον), è apprestato
dalle ancelle (Od.,
XV, 93-4); quando invece s'intende che abbia maggior consistenza e apparato (δαΐς),
è servito da schiavi, talvolta da araldi. I commensali sono riuniti nella
stanza principale del palazzo (μέγαρον), nella quale abitualmente stanno gli
uomini, e i preparativi si fanno o nel μέγαρον stesso o nella corte (αὐλή) che
vi dà accesso e dove gli animali sono uccisi e cotti. Gli animali che servono
da cibo sono buoi, pecore, capre e porci. Il pollame non appare ancora
conosciuto. Modo usuale di cottura è l'arrosto (un'allusione al lesso si ha in
un'immagine dell'Il.,
362-364). Prima dell'inizio del banchetto gli intervenuti si lavano le mani con
l'acqua versata da ancelle o da araldi; un'abluzione simile avveniva alla fine
del banchetto; tale abluzione non era suggerita soltanto da evidenti ragioni di
pulizia personale, ma anche da quel carattere sacrale che ebbe il banchetto
primitivo e di cui si conservarono tracce in tutta l'antichità. L'ospite che
giunge da lontano, prima di essere introdotto nella sala del banchetto, è
condotto a fare il bagno (Od.,
IV, 38-40, VIII, 424 segg. e passim).I commensali
stavano seduti davanti a una piccola tavola (v. fig. 1; e cfr. Od.,
XXII, 19-21, 74) sulla quale venivano deposti i cibi e le coppe. Talvolta,
invece, si facevano sedere i commensali davanti a un'unica tavola, naturalmente
più grande (Il.,
IX, 216); ma anche in questo caso ciascuno aveva innanzi a sé porzioni
separate. Non appartiene all'età omerica l'uso di cenare sdraiati, né
d'incoronarsi durante il banchetto. Sulla piccola tavola individuale o sulla
grande tavola in comune i servi, o gli araldi, o l'ospite stesso distribuivano
a ciascuno dei commensali il pane, entro un cestino (κάνεον), e, su piatti (πίνακες),
le carni già prima preparate dallo scalco (δαιτρός). Le donne non partecipavano
al convito, ma v'intervenivano a farvi gli onori di casa, purché fosse presente
il marito, come fa Elena a Sparta nella reggia di Menelao (Od., IV, 216 segg.) ed
Arete, moglie di Alcinoo, nell'isola dei Feaci (Od., VII, 136-141; 231); al contrario
Penelope, nell'assenza del marito compare solo raramente, accompagnata da
ancelle e con i veli abbassati sul volto (Od.,
XVI, 413-416) sulla soglia del μέγαρον, dove i Proci stanno banchettando. Oltre
al convito, che risponde al desiderio di riunirsi con i familiari e alle
esigenze dell'ospitalità, troviamo menzionati in Omero:
1. il
banchetto solenne che segue il sacrificio (Il.,
I, 458-474);
2. il
banchetto nuziale celebrato fastosamente, con larghi inviti, canti, suoni (lira
o flauto) e spettacoli di giuochi d'acrobazia;
3. il banchetto funebre (Il., XXIII, 29; XXIV,
802), prima o dopo la cremazione del cadavere, che può esser seguito da una
gara agonistica;
4. il banchetto fra ἑταῖροι, cioè fra uomini
appartenenti a uno stesso sodalizio (ἑταιρία) e uniti, in pace e in guerra, da
vincoli di solidarietà.
Questa forma
d'organizzazione, che in Omero appare propria della nobiltà, imponeva periodici
banchetti nei quali gli intervenuti conducevano i figli maschi. L'essere
esclusi o tollerati in tali riunioni significava non essere trattati da pari a
pari dalla nobiltà del luogo (Il.,
XXII, 492; Od., XI, 185-187).Nell'età
storica i costumi conviviali greci appaiono profondamente cambiati. Ci mancano
gli elementi per una compiuta ricostruzione di tali usi che permetta di tener
conto, per ciò che concerne il banchetto, della diversità di tempo, di luogo e
di stirpi. Per giunta nell'età romana il banchetto romano e il greco si
andarono uniformando, per cui le copiose informazioni che in questo periodo gli
scrittori greci, e particolarmente Plutarco, ci forniscono sull'argomento, non
possono servire a stabilire con sicurezza differenze fra il convito greco e il
romano. I Greci dell'età classica pranzano stando sdraiati; i commensali di uno
stesso letto talvolta si volgono le spalle, altre volte son posti l'uno di
seguito all'altro. Le suonatrici stanno o in piedi (fig. 4), o sui letti degli
uomini ora sdraiate, ora sedute . Si mangia, al solito, con le dita; raro il
coltello, men raro il cucchiaio (μύστρον, μυστίλη). Va notato come greco, l'uso
di pulirsi le mani, invece che con salviette, con pallottole di mollica di pane
(ἀπομαγδαλίαι), che si gettavano ai cani. Il pasto maggiore (δεῖπνον) si fa la
sera: semplici refezioni son quelle della mattina (ἀκράτισμα) e del
mezzogiorno. Biasimevole raffinatezza è considerato il far due pasti forti
nella giornata. Il tenore della vita greca nell'età classica e tra i Greci
della madre patria generalmente è modesto; frugalissimo è il vitto anche presso
i popoli tra i quali non vi è, come fra i Dori, l'obbligo del pasto in comune
(συσσίτια), garanzia severa di sobrietà. Insolito risalto ha ,quindi, il
convito che interrompe la quotidiana abitudine di un pasto modesto in famiglia
e senza apparato; ne è occasione, come sempre, o un avvenimento importante che
si suole solennizzare con il banchetto, o la consuetudine di riunioni
periodiche fra amici; in quest'ultimo caso, ognuno contribuisce per la sua
parte (ἀπὸ συμβολῶν o anche ἀπὸ σπυρίδος, dal panierino che i commensali
portavano con sé e che talvolta vediamo rappresentato appeso alla parete. Anche
in ciò che concerne il banchetto sembra a noi moderni che spiri quell'aria
provinciale e borghese, caratteristica della vita privata greca, e a cui dà
risalto, con il confronto, la signorile larghezza dei Romani. Agli ospiti gli
schiavi di casa tolgono i calzari e
lavano i piedi facendoli poi adagiare nei letti (κλῖναι) secondo l'ordine
predisposto dal padrone, di regola due per ogni letto (non tre come presso i
Romani); quindi viene offerta l'acqua per l'abluzione alle mani, si avvicinano
le tavole una per ogni letto e il banchetto comincia. Il convito greco constava
di due momenti: il δεῖπνον e le δεύτεραι cioè il dessert; solo nell'età
imperiale s'introdusse l'uso romano dell'antipasto. Terminato il δεῖπνον si
facevano abluzioni e s'invocava l'ἀγαϑὸς δαίμων, libando vino puro; dopo di che
venivano cambiate le tavole. Il dessert era formato di seccumi, cacio, sale,
cibi atti a eccitar la sete; si usava anche leccare delle gallette salate (ἐπίπαστα
λείχειν).Col dessert aveva principio il simposio(συμπόσιον).Gl'intervenuti,
coronatisi di fiori e cosparsi di abbondante unguento, eleggevano con i dadi o
per acclamazione il re del simposio (ἄρχων, βασιλεύς), secondo le cui
ingiunzioni si beveva. Normalmente la preparazione dei crateri e le libazioni
si facevano a suon di flauto e bruciando
incenso. Oltre alla conversazione, intramezzata da libazioni e da brindisi, allietavano
il simposio i canti (σκόλια; anche il peana fu in origine un canto simposiaco),
o la recitazione di antichi poeti per lunga tradizione accetti ai simposî;
qualche volta si assisteva a spettacoli di equilibrio e di acrobazia (Senof., Symp.,
II, 7 segg.). Vi era anche l'uso di giocare, non esclusi i giuochi d'azzardo;
di gran voga fu per secoli (VI-III a. C.) un giuoco d'abilità, detto il cottabo
(κότταβος: cottabo).I
preparativi per la lussuosa imbandigione del banchetto affaccendano molti
servi; sono cucinate le carni del bue, del capretto, della lepre, del pollame e
della cacciagione. Il carattere rituale del banchetto appare dalla presenza del
flautista. Anche il pane è impastato a suon di flauto (cfr. Alcimo, in Ateneo,
XII, p. 518 b).
COME SI PRESENTAVANO I PIATTI.
A
partire dal secondo secolo a.C. si usava servire pietanze artisticamente
impiattate su preziosi vassoi di argento. Le pesanti portate arrivavano
sorrette a volte da più schiavi che le appoggiavano su elegantissimi supporti
mobili, sostegni che venivano sistemati dopo che tutti i commensali avevano
preso posto e venivano rapidamente tolti alla fine del banchetto. A volte nelle
case ricche ve ne erano diversi, ognuno disegnato e creato per uno speciale
vassoio, così che li si cambiava ad ogni portata. Si trattava generalmente di
oggetti di valore, costruiti con legni rari ed intarsiati di avorio. Alcuni
erano addirittura in argento come alcuni bellissimi sostegni di vassoi che si
vedono rappresentati negli affreschi dell'epoca. Vediamo infatti la descrizione
del vassoio che appare nel Satiricon,
mirabolante e con un coperchio emisferico che veniva tolto per rivelare una
complessa presentazione. E questo vassoio descritto da Petronio non è soltanto
un invenzione: oggetti del genere esistevano nel mondo romano. Uno simile è
persino affrescato sulle pareti di un piccolo triclinio della villa di Oplontis. Se si tiene a mente che negli
affreschi pompeiani si usava rappresentare gli oggetti più preziosi della
famiglia, si realizza che probabilmente esso faceva parte della suppellettile
della casa. Nella presentazione di questo vassoio che si trova nel Satiricon, il trionfo centrale,
circondato da pollastre ed altre delicatezze, era costituito da una lepre
guarnita di ali in modo da rappresentare Pegaso, il mitologico cavallo alato. Attorno
a questa parte centrale vi era poi una canaletta nella quale erano stati
impiattati pesci che sembrava nuotassero nella salsa. Altri modi di impiattare
spettacolari, consistevano nel portare a tavola animali cucinati interi: grossi
pesci, cinghiali, maiali e persino vitelli. Dato che la gente mangiava con le
dita e non aveva posate essi andavano tagliati a pezzi di dimensioni possibili.
Per questo esistevano gli scalchi, servitori che seguivano speciali scuole,
come quella tenuta alla Suburra da un tal Trifero. Era da lui che essi venivano
addestrati su come tagliare in modo perfetto e rapido qualsiasi arrosto. Essi,
travestiti a volte da personaggi mitologici, venivano al seguito del vassoio, e
si scagliavano sull'animale da affettare come se fosse un pericoloso nemico,
facendo dell'operazione di dividerlo in pezzi uno spettacolo. Ormai qualsiasi
portata veniva presentata con molta ricercatezza. Anche i pasticceri
ricorrevano a presentazioni spettacolari per i loro dolci. Nel banchetto di
Trimalcione il dessert è addirittura una statua di pasta dolce rappresentante
Priapo mentre sorregge nel grembo della veste ogni genere di frutta, un tipo
questo molto frequente nella statuaria. Tutto questo naturalmente non era
limitato al banchetto di Trimalcione. Anche se in esso tutto è forzato e
caricaturato per poter far ridere il lettore, il tipo di presentazione dei cibi
doveva comunque esser simile a quello descritto da Petronio e queste portate
dovevano far parte di molti banchetti compreso quello imperiale. Ormai in tutte
le case quando si offriva una cena si seguiva il tipico schema del banchetto
romano che partiva dalle uova sode, passava attraverso gli antipasti più
complicati, gli arrosti più saporiti ed approdava infine ai dolci, alla frutta,
ai fiori ed ai profumi distribuiti durante il simposio. Dopo la cena c’era
poi il dopo cena, quel simposio che ha sempre fatto parte di tutti i banchetti
dell'antichità. A Roma era molto più morigerato di quello dell'epoca d'oro
greca. Ma questo era da prevedersi, in quanto ai banchetti romani, a differenza
di quelli greci, partecipavano spesso mogli e figlie dei convitati e quindi
bisognava comportarsi bene. Lo spettacolo più spinto che poteva aver luogo
nella riunione romana era quello che veniva offerto dalle ballerine gaditane,
graziose fanciulle spagnole che danzavano agitando i fianchi a suon di nacchere
mentre attorno a loro tutti battevano ritmicamente le mani, più o meno come si
fa ancor oggi in Andalusia. Anche se ogni tanto qualche poeta le criticava
trovandole troppo spinte non sembra che le povere figliole offrissero ragione
di scandalo e, infatti, pare che molti mariti vi assistessero con a fianco le
proprie spose. Per il resto si chiacchierava e si beveva secondo uno
speciale cerimoniale. I vini che venivano serviti erano ormai squisiti. I Romani
potevano permetterselo perché erano senza discussione i padroni del mondo. I
migliori erano sempre quelli che si importavano dalla Grecia, ma ormai anche in
Italia se ne produceva di eccellenti. Li elencano i poeti quando descrivono i
lunghi dopo cena romani. Anche a Roma come ad Atene si eleggeva uno dei
convitati che dirigesse il simposio: in latino egli veniva chiamato magister bibendi , ossia "direttore
del bere" e dava disposizioni sul come si dovesse preparare la mistura di vino
ed acqua decidendo poi a chi bisognasse brindare. Ciò voleva anche dire che
egli finiva con lo stabilire quanto si dovesse bere: infatti quando i Romani
brindavano alla salute di qualcuno tracannavano tante coppette quante erano le
lettere che componevano il nome del festeggiato ed i nomi romani era
particolarmente lunghi. Grazie al cielo il vino era solitamente molto diluito:
si usava mettere tre parti di acqua per una di vino. D'inverno si aggiungeva
acqua bollente e, a volte, per averla sempre pronta si usavano interessanti
bollitori che funzionavano con lo stesso sistema dei samovar russi. D'estate il
vino veniva invece allungato con la neve raccolta d'inverno sulle cime dei
monti ed immagazzinata in depositi sotterranei dove, coperta di paglia, si conservava
per tutta l’estate. I più belli tra questi depositi sono quelli principeschi di
Villa Adriana, che, scavati nel tufo, sono costituiti da una serie di gallerie
messe ortogonalmente a quinconce ai lati di un canale di servizio. Questo ha un
fondo a sezione concava ed un'inclinazione verso settentrione necessaria per il
deflusso dell'acqua di fusione. La neve, una volta immagazzinata e ben stivata
nei bracci laterali, veniva sigillata con paglia e fieno. Dato che si intaccava
un braccio per volta, gli altri lasciati chiusi ed intatti potevano durare
moltissimo, soprattutto perché l'intonaco, che rivestiva questi speciali
depositi, era leggerissimo, e formava una sorta di enorme thermos nel quale la
neve si conservava bene. Nell'antica Roma se ne usava molta: essa serviva per
preparare speciali piatti ghiacciati; per confezionare sorbetti e, quando
d'estate il sole faceva riscaldare l'acqua nelle piscine delle terme, era
sempre con la neve che la si faceva freddare. Ma l'uso più diffuso era, come
sempre, quello di far gelare le bibite durante il periodo caldo. In quella
stagione non c'era triclinio e cena elegante che ne facessero a meno e con vino
ghiacciato si chiudeva il banchetto estivo. Era quasi sempre buio quando i
convitati sazi e leggermente brilli salutavano il loro ospite. Quasi sempre la
cena prendeva fine al tramonto, ma quando ci si avviava al tetto domestico si
aveva spesso bisogno di torce o di lanterne e, quando non si era ricchi ed
accompagnati da forti ed atletici schiavi, bisognava pregare tutti gli dei di
esser salvati dai cattivi incontri: le strade erano piene di banditi e di
rissosi ubriaconi. Era fortunato colui che riusciva ad arrivare sano e salvo al
proprio letto. A volte però era proprio a casa che iniziava la battaglia. Qui
ad attendere l'amato compagno vi era spesso una moglie od un'amante: comunque
una donna amareggiata che si sentiva offesa e che pensava di esser stata
abbandonata e trascurata.
LE DONNE E IL BANCHETTO
Non tutte le donne partecipavano alle allegre cene Greche e a quelle di famiglia era addirittura proibito porre piede nel grande salone destinato ai festini maschili: l'andron, ossia "l'appartamento degli uomini", posto vicino all'ingresso. Alcune etere furono famose. Erano donne belle, intelligenti ed istruitissime. Esse infatti seguivano anche le scuole dei filosofi celebri e, dormendo con essi, finivano con l'avere anche un ottimo doposcuola. A volte esse si legavano con un contratto a tempo determinato a qualche ricco gaudente: si impegnavano così ad accompagnarlo per un certo numero di anni a tutti i banchetti e, sempre per lo stesso periodo, si astenevano dall'avere relazioni con altri uomini. Sia per questi impegni a lunga scadenza, sia per le prestazioni occasionali le loro tariffe erano altissime e una volta raggiunta l'età matura e, con essa, la chiusura della loro carriera attiva, diventavano pie donne, dedite alla religione ed arricchivano i templi con i loro voti, statue e donazioni. Le etere in pose e situazioni spinte compaiono spesso nelle scene di banchetto rappresentate sulla ceramica greca. Si trattava ovviamente di suppellettili da simposio, sempre scollacciata e suggestiva in quanto destinata a quelle riunioni per uomini soli nelle quali donne di quel tipo coprivano logicamente una parte di primo piano. Dato però questo loro ruolo è chiaro che al banchetto greco non potessero intervenire le altre donne, quelle per bene: mogli, figlie, sorelle e madri. Queste partecipavano esclusivamente alle cene di famiglia che venivano apparecchiate nelle parti più intime della casa. Durante questi pasti familiari gli uomini non stavano più come nell'andron nudi con soltanto un leggero drappo posto a velare la parte inferiore del loro corpo, ma si sdraiavano sul letto tricliniare correttamente vestiti di tutto punto, mentre le loro donne prendevano posto su seggiole. Cenare seduti era segno di sottomissione e lo facevano tutti i sottoposti. Quindi sedeva la donna che era legittima proprietà del maschio dominante ed oltre a lei sedevano anche tutti gli inferiori. A questo modo cenavano i ragazzi anche se di famiglie di ceto elevatissimo e non soltanto questi: in Macedonia un uomo non poteva mangiare sdraiato fino a che non avesse infilzato con la sua lancia e senza l'aiuto di reti o di trappole un cinghiale selvaggio e probabilmente inferocito. Perciò all'età di 35 anni Cassandro, un cacciatore, che pur essendo bravo e coraggioso non era ai riuscito ad infilzare con una lancia il suo cinghiale, mangiava ancora su una seggiola.
IL VINO E IL SIMPOSIO

·
la quarta coppa apparteneva alla violenza,
·
la quinta al chiasso, la sesta all'allegria
dell'ubriachezza;
·
la settima alla rissa (agli occhi neri, come
si diceva in greco);
·
l'ottava al tribunale;
·
la nona all'attacco di fegato;
·
la decima alla follia ed alla
distruzione del mobilio.
Dati gli effetti su elencati che si avevano nonostante la forte diluizione, il vino prodotto a quelle epoche doveva avere una forte gradazione alcoolica. Quello che è certo è che il vino greco era considerato il migliore del mondo antico e spesso si cercò di imitarlo. Catone, Varrone e Columella e tutti gli scrittori antichi che si occuparono di agricoltura diedero ricette e consigli per "fare vino greco" il quale, pare, si ottenesse mescolando al mosto una certa quantità di acqua di mare: a quel che si diceva questo rendeva il vino più dolce. Trattato a questo modo era il Myndio, tanto che il cinico Menippo chiamava gli abitanti di Myndo, bevitori di acqua marina; c'era poi il vino di Alicarnasso ed anche quello di Coos nel quale l'aggiunta era notevole mentre meno se ne metteva in quello di Rodi. Si diceva che i vini trattati con acqua di mare non causassero mai mal di testa, fossero lassativi, ridestassero i succhi gastrici ed aiutassero la digestione. Insomma avrebbero dovuto essere un vero e proprio toccasana. Uno dei migliori vini greci era il rosso di Chio. C'era poi il Thasio che doveva essere particolarmente buono se Antidoto scriveva "Riempi la mia coppa di vino thasio, poiché non importa quale sia la cura che tortura il mio animo; quando lo bevo il mio cuore guarisce istantaneamente”. Molto quotato era il Pramnio di Lesbo. Il vino di Lesbo, secondo Archestrato, era un vino superlativo: egli poteva anche ammettere che esistessero altri vini buoni, ma affermava che nessuno di essi reggeva il suo confronto. Molto buono pare fosse anche il vino di Nasso ed Archiloco, che di vino se ne intendeva, lo paragonava al nettare. Il poeta scriveva: "Dalla mia lancia dipende il mio pane; dalla mia lancia il vino ismarico ed appoggiato alla mia lancia io lo bevo" . Di altri vini si registrano caratteristiche assurde e stravaganti. Così Teofrasto nella sua storia delle piante raccontava che ad Erea in Arcadia si produceva un vino che causava pazzia negli uomini che lo bevevano mentre metteva incinte le donne che si azzardavano a gustarlo. E’ vero che vi era poi un altro vino, il Trezenio, che teneva il posto della moderna pillola antifecondativa ed uno che faceva abortire; anzi pare che bastasse mangiare un grappolo dell'uva con la quale esso si produceva per ottenere questo effetto. A Tasos gli abitanti erano persino riusciti a produrre un vino che teneva svegli ed un altro che faceva dormire e può darsi che col potere della suggestione tutto questo funzionasse.
IL CIBO E GLI ALIMENTI

“IL GALATEO” DEL BANCHETTO
Nel periodo immediatamente
successivo al VI secolo che la mensa subisce una vera e propria rivoluzione e
nasce quella che sarà poi la forma tradizionale della cena classica: i clinai
divengono lussuosi, i materassi e cuscini morbidi, i drappi per coprirli
eleganti. La suppellettile che si ritrova nelle tombe è spesso ricca e preziosa
e nei musei si ammirano le graziose fialette per i profumi che venivano offerti
ai convitati nel corso di tutti i banchetti compreso quello eterno della morte
e troviamo quelle corone conviviali foggiate con l'immortale oro che nella
realtà della vita quotidiana erano più spesso intrecciate con corolle
profumate. Nel banchetto erano ammesse volgarità e comportamenti mai esistiti
in epoca omerica. Ad esempio, come nota anche Ateneo, ogni qual volta durante
le antiche cene nasceva un disaccordo tra gli eroi di Omero, essi si
scagliavano l'uno contro l'altro come tigri e fra loro nascevano liti furiose,
ma la scena non degenerava mai nello scurrile: quei colossi cercavano al
massimo di ammazzarsi tra loro, astenendosi correttamente da atti volgari e di
cattivo gusto come quelli che in epoche posteriori verranno loro attribuiti
dagli scrittori del V sec. a.C., incidenti che a questi dovevano sembrare
normali dato che chi li riferiva doveva avervi frequentemente assistito. Così Eschilo in una commedia satirica,
attribuendo i costumi della sua epoca agli eroi omerici riuniti a cenare, li
immagina talmente ubriachi da cominciare a rompersi sulla testa i loro vasi da
notte. Sofocle anche lui si compiace nel descrivere una simile scena e nel
Commensale Acheo scrive " Ma in un attacco d'ira mi gettò il maleodorante
vaso e non mancò il bersaglio!". Questo nei poemi omerici non capita mai:
persino quando gli scostumatissimi Proci ubbriachi fradici si infuriano con
Ulisse, l'unica cosa che gli scagliano contro è un piede di bue. Non c'è dubbio
che, se i Proci avessero avuto il costume di portarsi a cena i vasi da notte,
li avrebbero usati e magari con entusiasmo, ma evidentemente a quei tempi
questo non si faceva ancora. Non
c'è però dubbio alcuno che nel V sec. a.C. questi utili, ma certamente poco
profumati recipienti, erano divenuti un accessorio indispensabile della mensa.
Alla domanda di Eupolis che si chiede "Chi fu per primo colui che a metà
del simposio gridò "Ragazzo! Portami il vaso da notte!" non si può
rispondere altro che fu certamente un contemporaneo di Sofocle e che, sfortunatamente,
questo tale riuscì a lanciare una moda. Nella ceramica dell'epoca troviamo persino la rappresentazione di questi
recipienti e su una coppa viene presentato un tale che ad un banchetto soddisfa
i suoi bisogni adoperando l'apposito arnese: un recipiente di forma
particolare. Una bella flautista, praticamente nuda sotto il drappo che veniva
usato quando ci si sdraiava sul letto tricliniare per coprire la parte inferiore
del corpo, si appoggia a lui suonando un gaio motivo conviviale e non sembra
affatto interessata o scandalizzata dalla scena. L'usanza del vaso da notte passò poi
nel resto del mondo classico greco e romano e continuò fin nelle epoche più
tarde interrotta soltanto dal raffinatissimo Adriano che risolse il problema
circondando i suoi triclini di eleganti latrine individuali, mantenute
scrupolosamente pulite dall'acqua che vi scorreva in continuazione. Ma anche il
geniale imperatore non poté far scomparire l'uso di questi utili ma indecenti
arnesi e dopo di lui i vasi da notte ripresero trionfalmente il loro posto
nelle cene eleganti.Naturalmente per queste riunioni gli artigiani dell'epoca
crearono recipienti molto eleganti ed in metalli preziosi. Ci fu chi se li fece
foggiare in onice ed Eliogabalo arrivò persino ad usare per essi la murrina, la
misteriosa pietra dura nella quale si intagliavano le preziosissime e
costosissime coppe murrine: tutti materiali che sembrano davvero sprecati per
tale uso anche se si capisce che, dovendo usarli in pubblico, la gente
preferisse vasi da notte speciali e, per così dire, da parata. E’ probabile che di materiale prezioso
venissero fatti soltanto quelli
destinati agli uomini e quindi quelli che venivano usati anche durante il
banchetto. Infatti non vi fu mai bisogno di particolare eleganza per gli
scaphia a forma di barchetta destinati alle donne: essi non venivano mostrati coram populo o almeno non lo furono nel
mondo greco dove mogli e figlie non parteciparono mai alla cena con estranei.
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