sabato 9 novembre 2024

“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.(Art 21 Costituzione)

 La nostra Costituzione vede la luce dopo un momento storico drammatico e fa tesoro della negazione di tutti i diritti umani calpestati e vilipesi, di tutta la violenza che ha dominato per un ventennio il nostro paese( e non solo), di tutto il peso di un'ideologia che ha devastato le cose e le persone. I principi fondamentali della Carta Costituzionale fissano diritti inalienabili, diritti per i quali molti hanno combattuto fino a perdere la vita. Che cosa è successo da quel 1 gennaio del 1948? Quando abbiamo perso di vista il valore pregnante di quelle parole che suonavano come un monito?

Manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola” non è da leggere come l’autorizzazione ad offendere, attaccare, umiliare, sopraffare chiunque non condivida il nostro punto di vista o, peggio, ne abbia uno diametralmente opposto. I Padri Costituenti hanno voluto riaffermare, dopo l’assordante silenzio in cui il nostro paese era stato condannato, il diritto di esprimersi, il diritto di obiettare, il diritto di dissentire e disobbedire senza pagare con la vita le proprie idee. Qual è il punto? L’inconcepibile violenza verbale, mascherata da libertà di opinione, è il frutto di una totale e nefasta assenza di contenuti. La prevaricazione, anche solo verbale, rappresenta l’unico mezzo per imporre il proprio pensiero o, peggio, per ottenere il facile consenso che gli urlatori seriali, spesso ignoranti e privi di contenuti, desiderano fortemente. Quell’articolo voleva affermare un concetto semplice e fondamentale: la società civile e la politica devono nutrirsi di un confronto serio e continuo, non esiste un solo pensiero giusto, ma ciascuno deve partecipare al dialogo politico portando il suo contributo di idee e conoscenze. Ecco segnato il labile confine, ormai del tutto cancellato: libertà di parola si traduce in un attacco indiscriminato e irrefrenabile verso chiunque non condivida il nostro pensiero o la nostra ideologia o il nostro orientamento religioso o sessuale, verso chiunque percepiamo diverso da noi. E allora tutti contro il compagno troppo grasso, troppo magro, troppo alto, troppo studioso, troppo amabile, gay o trans, troppo brillante rispetto a noi. Tutti contro il collega più in difficoltà, tutti contro il capo( fa molto rivoluzionari), tutti contro uno anche fra gli adulti. E giù insulti, frasi taglienti come spade, parole usate per ferire deliberatamente, per fare del male fino ad uccidere.

E neppure il dibattito politico è scevro da questa involuzione! Non si discute di programmi, non si affrontano problemi, ma si urla, si attacca l’avversario politico, meglio se sul personale, si urla ammettendo un solo punto di vista giusto: il proprio. E allora l’ideologia diventa l’alibi più meschino per nascondere la volontà di ritornare ad un unico pensiero prevalente, come se la storia non ci avesse insegnato nulla. Non si ribatte con dei contenuti seri e con idee supportate da fatti, si ribatte e basta sventolando spettri come il fascismo mentre se ne assumono tutti i comportamenti deplorevoli.

Il confronto pacato e responsabile presuppone contenuti, valori da difendere e di cui farsi paladini, idee che affondano le radici nello studio e nella ricerca. Non la ricerca su un qualsiasi motore di ricerca, ma la lettura attenta delle fonti e l’analisi di tutto ciò che è stato scritto sull’argomento. Leggere una tendenziosa sintesi di una norma o di libro o di un saggio non basta. E invece si. Si millanta una conoscenza che si rivela insufficiente e che inesorabilmente trascina verso l’aggressione verbale. Quante volte ho avuto di fronte tuttologi dell’ultimo minuto che si riferivano a norme apprese attraverso tendenziose letture preconfezionate per gli ignoranti!

Abbiamo disimparato a ponderare il peso delle parole, mirabile strumento per dare senso ai pensieri, alle conoscenze, ai sentimenti, ai sogni, ai principi e ai valori. Siamo spinti dallo scontro a tutti i costi anche quando siamo chiamati ad educare, anche quando il nostro ruolo ci affida lo sviluppo del pensiero critico dei giovani che ci vengono affidati.

Il rispetto dell’avversario è stato annientato dal bisogno irrefrenabile di affermare un ego troppo spesso ipertrofico, di dimostrare che sappiamo tener testa a chi comanda. Dov’è finito l’esempio di Gesù Cristo, di Martin Luther King o di Ghandi che hanno portato avanti una vera rivoluzione culturale senza strillare, senza offendere, senza distruggere e senza colpire il proprio avversario?

In nome di una imbarazzante, falsa e ipocrita uguaglianza abbiamo derogato al requisito fondamentale : chi parla deve avere qualcosa da dire che poggia su solide conoscenze, deve sentire la responsabilità dell’effetto che generano le parole, soprattutto se riveste il ruolo di politico, educatore o ha un peso sociale rilevante, senza dimenticare di essere un modello, meglio se positivo.

La libertà di parola deve essere esercitata all’interno di una cornice valoriale imprescindibile che vede nell’antagonista non il nemico da distruggere, offendere o annientare, ma un interlocutore alla pari da rispettare sempre e comunque. Esprimersi senza offendere, pesare le parole deve essere un imperativo categorico, deve essere l’unica modalità di confronto. Il resto è spettacolo, è ricerca di consenso tra quella parte priva di contenuti che veste i panni del rivoluzionario per moda.

Guardo con orrore a questo abuso della libertà di opinione di chi vuole, a tutti i costi, creare un clima sociale conflittuale in cui la pluralità di vedute non è più considerata un valore. Mi preoccupa la strumentalizzazione continua dei giovani e la volontà di catechizzare piuttosto che educare allo studio e alla ricerca. E mentre con slogan ad effetto si ribadisce il diritto di ciascuno di affermare la propria persona, le proprie inclinazioni, mentre si continua  a lottare perché la diversità sia riconosciuta quale valore e ricchezza, ci si abbandona all’offesa e alla demolizione di chiunque non la pensi come noi. La diversità è sempre e soltanto una ricchezza da difendere e coltivare, non può essere una bandiera da sventolare  occasionalmente o al bisogno. Eppure non riesco a rassegnarmi a questo clima di violenza e di scontro continuo. Eppure voglio continuare a credere che tra persone perbene il confronto sia possibile nel rispetto dell’altro. Eppure voglio credere che solo l’individualismo bieco e senza scrupoli alimenti una conflittualità che trovo, francamente, inutile e distruttiva.

 

 

mercoledì 30 ottobre 2024

Bullismo-Discussione

E mentre si discute sul comportamento incommentabile tenuto da alcuni studenti durante la proiezione del film "Andrea oltre i pantaloni rosa" non posso non fare alcune considerazioni.....sugli adulti. Leggo di genitori che si oppongono alla visione del film per i contenuti non adatti ad adolescenti e giovani. Mi chiedo: avete mai guardato le chat dei vostri figli? Avete mai avuto modo di controllare quali contenuti si scambiano? Temo di no. Ed è proprio questo il punto. Pretendiamo di educare i giovani al rispetto, ma noi adulti abbiamo perso il senso della misura da un pezzo! Abbiamo, ormai da tempo, confuso la libertà di pensiero e di parola con l'attacco pretestuoso e gratuito, spesso livido e irriguardoso, verso chi pensa in modo diverso da noi. Ci sono solo alcune idee giuste: le nostre! Abbiamo noi per primi perso il senso del dialogo e del rispetto del nostro interlocutore. Sappiamo urlare, aggredire verbalmente con tanto di turpiloquio chi non è d'accordo, chi si discosta dai nostri modelli o dalla nostra ideologia. Abbiamo perso il rispetto dei ruoli in nome di una falsa uguaglianza, dimenticando che ciascuno deve fare la sua parte e che è facile dare la croce a chi ha compiti diversi, talvolta superiori, ai nostri. Nascondiamo dietro l'ideologia la nostra meschinità e la nostra frustrazione per non aver raggiunto obiettivi professionali o semplicemente perché insoddisfatti della nostra vita. Come possiamo, mi chiedo, educare i nostri ragazzi? Come possiamo parlare di bullismo quando spesso, troppo spesso, tutti contro uno è un modus operandi proprio degli adulti? Come possiamo superare gli stereotipi di genere se per primi li abbiamo interiorizzati e ne siamo soggiogati? Siamo i primi a deresponsabilizzarci se i nostri figli non sono adeguati...colpa della società, della scuola, delle cattive amicizie, ma mai la nostra. Mi pare che per giustificare la nostra assenza cerchiamo di apparire buoni genitori e di proteggerli oltre ogni ragionevole difesa. Ormai impera la tuttologia che vanta un numero esorbitante di laureati. Tutti medici, tutti sociologi, tutti professori, tutti dirigenti, tutti psicologi e tutti opinionisti. Tutti pronti a dare consigli, non richiesti, a chi deve fare. Perché sono sempre gli altri che devono fare e non fanno. Abbiamo svuotato la conoscenza di significato in nome di una finta ideologica uguaglianza.La rete non è il vangelo. La rete non genera sapere, ma solo mostri pieni di arroganza e supponenza. La rete che intrappola, che distrugge le vite di giovani corrosi dalla cattiveria, dall'anaffettività di chi, dietro uno schermo, protetto dall'anonimato, distrugge le anime fragili o, come spesso si dice, "troppo sensibili". Come se la sensibilità fosse una terribile condizione esistenziale da "guarire". Forse dovremmo ripartire da noi per salvare i nostri giovani dal cinismo, dalla totale perdita di consapevolezza dell'altro oltre il sè. Forse dovremmo riacquistare il perduto senso di civiltà e di rispetto. Forse non sono i giovani il problema. Forse è arrivato il momento di ripristinare l'educazione, il garbo, la gentilezza. Forse dobbiamo smettere di urlare sempre convinti di essere nel giusto e ricominciare ad ascoltare senza giudicare. Spero che questa sfida ci trovi pronti e determinati, voglio illudermi che è ancora possibile una società veramente civile.

domenica 3 aprile 2016

IL BULLISMO NELLA SCUOLA DI OGGI




DEFINIZIONE DEL FENOMENO

Con la crisi di valori che le società stanno vivendo, i diritti dei minori sono negati e tale condizione è emarginata. Il bambino, fin dai primi giorni di vita, attraverso l’imposizione dei modelli di comportamento e degli schemi educativi , può subire, all’interno dell’ambiente familiare, forme di “micro-violenza”, ovverosia un insieme di atteggiamenti, assunti “per il suo bene”, ma che , alla fine, si trasformano in atti di “macro-violenza”. L’Osservatorio nazionale per l’infanzia definisce il bullismo “una prepotenza di qualunque genere perpetrata da uno o più ragazzi nei confronti di altri ragazzi”. Dunque il bullismo non è che la traduzione, negli ambienti dedicati all’infanzia e all’adolescenza, di ciò che accade nella società ma con una variabile importantissima: le vittime non sanno difendersi e i “ carnefici”, in quanto minori, godono di ampie garanzie di impunità.
  Il bullismo è un fenomeno che ormai coinvolge la scuola, la famiglia e la società intera e che non si limita ad episodi di angheria e sopruso tra ragazzi, ma si può estendere anche alle attenzioni sessuali verso un insegnante video ripreso in classe o l’aggressione di un genitore ai danni del preside di una scuola. Il bullismo è un tipo di comportamento aggressivo particolarmente insidioso e pervasivo che si basa sull’intenzione ostile di uno o più ragazzi, sulla ripetitività nel tempo dell’azione persecutoria e sulla debolezza della vittima che difficilmente riesce a difendersi. La motivazione del bullismo non è quella di reagire in modo violento ad una situazione di provocazione o di ottenere dei vantaggi materiali mediante un attacco diretto ad un compagno; la motivazione ultima è di tipo relazionale, ed è quella di affermare il potere di uno sull’altro nell’ambito della propria rete sociale di riferimento. Le  caratteristiche distintive del fenomeno possono essere così riassunte:
  intenzionalità, cioè il fatto che il bullo mette in atto premeditatamente dei comportamenti aggressivi con lo scopo di offendere l’altro o di arrecargli danno; è questo un aspetto rilevante, sebbene non sempre tutti i ragazzi abbiano piena consapevolezza di cosa stanno facendo;
  persistenza: sebbene anche un singolo episodio possa essere considerato una forma di bullismo, l’interazione bullo-vittima è caratterizzata dalla ripetitività di comportamenti di prepotenza protratti nel tempo;
  asimmetria di potere: si tratta di una relazione fondata sul disequilibrio e sulla disuguaglianza di forza tra il bullo che agisce, che spesso è più forte o sostenuto da un gruppo di compagni, e la vittima che non è in grado di difendersi;
  natura sociale del fenomeno: come testimoniato da molti studi, l’episodio avviene frequentemente alla presenza di altri compagni, spettatori o complici, che possono assume-re un ruolo di rinforzo del comportamento del bullo o semplicemente sostenere e legittimare il suo operato.
Il fenomeno presenta quindi una forte complessità, sia a livello di definizione che di dinamica reale degli eventi, poiché non include azioni negative occasionali fatte per scherzo o per un impeto di rabbia, ma viene usato come una specie di script, cioè come una sequenza, tutto sommato abbastanza stereotipata, nella quale gli attori svolgono ruoli stabiliti (bullo, vittima, osservatore, sostenitore del bullo, difensore della vittima). Il fenomeno del bullismo, anche se con altre modalità, è stato da sempre un tratto saliente della vita sociale dei giovani e degli adolescenti. Ne sono una testimonianza i romanzi e i racconti in cui questo fenomeno viene narrato e descritto. Lo scrittore di fine secolo Edmondo De Amicis, nel lontano 1886, descrive il bullo Franti nel suo libro “Cuore”:” E’ malvagio. Quando viene un padre a scuola a fare una partaccia al figliolo, egli ne gode; quando uno piange, egli ride…Provoca tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male. Ci ha qualcosa che mette ribrezzo su questa fronte bassa, in quegli occhi torbidi che tiene quasi nascosti sotto la visiera del suo berrettino di tela cerata. Non teme nulla, ride in faccia al maestro, ride quando può, nega con una faccia invetriata, è sempre in lite con qualcuno, si porta a scuola degli spilloni per punzecchiare i vicini, si strappa i bottoni della giacchetta, e ne strappa agli altri, e li gioca, e ha cartella, quaderni, libri, tutto sgualcito, stracciato, sporco, la riga dentellata, la penna mangiata, le unghie rosse, i vestiti pieni di frittelle e di strappi che si fa nelle risse”. Non è tanto la pervasività del fenomeno che ci deve preoccupare, ma la gravità e la violenza con cui a volte si manifesta in una fetta più ristretta della popolazione. Le prepotenze possono essere dirette e indirette: le prime sono manifestazioni più aperte, visibili, di prevaricazione nei confronti della vittima e possono essere sia di tipo fisico(colpi, pugni, calci) sia di tipo verbale(minacce, offese). Le prepotenze indirette, invece, sono più nascoste, sottili e, per questo, spesso più difficilmente rilevabili; gli esempi più frequenti sono l’esclusione dal gruppo e la diffusione di calunnie sui compagni. Differenziare questi due tipi di prepotenza permette di rendere conto delle differenze legate alla variabile sesso, poiché, mentre nei maschi sembrano prevalere le prepotenze di tipo diretto, soprattutto quelle fisiche, sono le femmine a mettere in atto più spesso quelle di tipo  indiretto. La nuova frontiera del bullismo è certamente il cyberbullismo, una forma di prevaricazione che si basa sull’uso di internet o del telefonino per fare prepotenze ad un compagno. Questo fenomeno prevede l’invio di sms, e-mail o la creazione di siti internet che si configurano come minaccia o calunnia ai danni della vittima, e la diffusione di immagini e filmati compromettenti tramite internet. In età adolescenziale il bullismo si lega in modo rilevante con sintomi di malessere psicologico, con comportamenti devianti e antisociali e con uso di alcol e di sostanze psicoattive. Diventa uno degli indicatori del disagio in adolescenza. Nella scuola primaria la stragrande maggioranza degli studenti dichiara che le prepotenze avvengono nelle aule e più raramente nel cortile, nei corridoi o nei bagni della scuola. In genere i bulli appartengono alla stessa classe delle vittime o a classi superiori, e le vittime dichiarano che a molestarli sono soprattutto un singolo ragazzo o un gruppo di ragazzi o anche, ma meno frequente, un gruppo misto di ragazze e ragazzi. Nel caso delle scuole superiori il bullismo si allarga alla sfera extra scolastica ed emerge una quota significativa di problemi che avvengono sui mezzi di trasporto(19,8%), per strada(34,6%) e nelle compagnie del tempo libero(37,5%). Inoltre, in una parte dei casi, si evidenziano prepotenze di ragazzi più grandi contro più piccoli.  La dominanza del bullo sembra essere rafforzata dall’attenzione e dal supporto dei sostenitori, dall’allineamento degli aiutanti, dalla deferenza di coloro che hanno paura e dalla mancanza di opposizione della maggioranza silenziosa. Il bullismo, cioè, è un fenomeno che si fonda sulla motivazione alla dominanza del bullo, sulla fragilità della vittima, ma anche sulla deferenza degli spettatori che spesso temono ritorsioni e non fanno nulla per fermare le prepotenze, inoltre coinvolge frequentemente la classe o il gruppo nel suo insieme. Quali i fattori? Tra i fattori legati al contesto di vita del soggetto, possiamo rintracciare la classe sociale e la famiglia di provenienza. Ciò che sembra influire sull’ampiezza del fenomeno non è tanto la classe sociale di appartenenza, quanto l’ambiente, il quartiere e la zona della città in cui i ragazzi vivono: ossia, la cultura di riferimento. In relazione alla famiglia molto si è indagato, in particolar modo sul rapporto tra clima educativo creato dai genitori, e problemi di bullismo e vittimizzazione. Nel caso del bullismo si è trovata una relazione sia con un’educazione permissiva, sia con un’eccessiva severità, autoritarismo e coercizione. Per la vittima una delle problematiche più rilevanti è costituita dagli atteggiamenti iperprotettivi dei genitori e da un nucleo familiare troppo coeso. Coloro che sono vittime o bulli a casa hanno una maggiore probabilità di mantenere lo stesso ruolo anche nel contesto scolastico. Anche l’insegnante ha un ruolo importante: studi recenti dimostrano come una relazione cattiva con l’insegnante improntata a insoddisfazione e percezione di non accettazione si correla con una maggiore incidenza del bullismo nelle classi. Si è tentato di tracciare un identikit del bullo che presenta alcune caratteristiche ricorrenti come aggressività generalizzata, impulsività, irrequietezza, scarsa empatia, atteggiamento positivo verso la violenza che sembrano essere le radici del comportamento prepotente e per converso nell’insicurezza, nella scarsa autostima, quelle del comportamento della vittima. La scuola è il luogo in cui gli atti di bullismo si manifestano con maggiore frequenza, soprattutto durante i momenti di ricreazione e nell’uscita da scuola. Proprio a causa di ciò le vittime dei bulli spesso rifiutano di andare a scuola. Rimproverati continuamente di “attirare” le prepotenze dei loro compagni, perdono sicurezza e autostima. Questo disagio può influire sulla loro concentrazione e sul loro apprendimento. Spesso ragazzi con sintomi di stress, mal di stomaco e mal di testa, incubi o attacchi di ansia, o che marinano la scuola o, peggio ancora, hanno il timore di lasciare la sicurezza della propria casa, sono le vittime prescelte dal bullo. In genere le vittime sono più deboli fisicamente della media dei ragazzi. Anche l’aspetto fisico può giocare un ruolo nella designazione della vittima, anche se non è determinante. Le vittime sono, per lo più, soggetti sensibili e calmi, anche se al contempo sono ansiosi e insicuri. Talvolta soffrono anche di scarsa autostima ed hanno un’opinione negativa di sé e della propria situazione. La caratteristica più evidente del comportamento da bullo è chiaramente quella dell’aggressività rivolta verso i compagni, ma  molto spesso anche verso i genitori e gli insegnanti. I bulli hanno un forte bisogno di dominare gli altri e si dimostrano spesso impulsivi. Vantano spesso la loro superiorità, vera o presunta, si arrabbiano facilmente e presentano una bassa tolleranza alla frustrazione. Manifestano grosse difficoltà nel rispettare le regole e nel tollerare le contrarietà e i ritardi. L’atteggiamento aggressivo prevaricatore di questi giovani sembra essere correlato con una maggiore possibilità, nelle età successive, ad essere coinvolti in altri comportamenti problematici, quali la criminalità o l’abuso da alcol o da sostanze. All’interno del gruppo vi possono essere i cosiddetti bulli passivi, ovvero i seguaci o sobillatori che non partecipano attivamente agli episodi di bullismo. E’ frequente che questi ragazzi provengano da condizioni familiari educativamente inadeguate, il che potrebbe provocare un certo grado di ostilità verso l’ambiente. Le vittime presentano sin dall’infanzia un atteggiamento prudente e una forte sensibilità. Un atteggiamento negativo di fondo, caratterizzato da mancanza di calore e di coinvolgimento, da parte delle persone che si prendono cura del bambino in tenera età, è un ulteriore fattore importante nello sviluppo di modalità aggressive nella relazione con gli altri. Il fenomeno, tuttavia, è da inserire in un reticolo di fattori concatenati tra loro. Gli stili educativi rappresentano un fattore cruciale per lo sviluppo o meno delle condotte inadeguate. E’ interessante sottolineare come il grado di istruzione dei genitori, il livello socio-economico non sembrano essere correlate con le condotte aggressive dei figli.

QUALI LE STRATEGIE POSSIBILI PER LA SCUOLA

L’Istituzione scolastica ha un ruolo fondamentale, in quanto istituzione sistematica e intenzionale, nel favorire la crescita civile e culturale per una piena valorizzazione della persona. Il sistema di istruzione e formazione in Italia, a partire dalla fine degli anni Ottanta, ha subito profondi cambiamenti che ne hanno modificato l’organizzazione, la struttura, la mission e la vision. Il trattato di Maastricht del 1992 ha segnato l’inizio di un percorso che , mentre avviava l’unificazione economica e monetaria dei paesi europei, assegnava proprio alla scuola il ruolo centrale per la riqualificazione del sistema economico, considerando i sistemi scolastici dei singoli Stati fattori determinanti del rinnovamento. L’Italia non si sottrae al cambiamento e, gradualmente, trasforma un’organizzazione burocratizzata e gerarchica in un sistema che promuove la cultura del risultato e diventa serviente con un protagonista, lo studente, non più passivo ma coattore del sistema scolastico. La scuola, da sempre sistema rigido e particolarmente chiuso ai grandi sconvolgimenti, non si è potuta sottrarre a questa rivoluzione e, sollecitata anche dalle neuroscienze che hanno posto l’attenzione sul dato che non è più possibile pensare ad un apprendimento di tipo lineare, ma che ogni individuo è dotato di una sua peculiare e specifica intelligenza e che ciascuno ha il diritto sacrosanto di essere valorizzato e di essere al centro dell’azione educativa, ha cominciato a recepire la lezione che  compito precipuo degli educatori  deve diventare imparare a comprendere, conoscere e stimolare l’intelligenza di ogni singolo alunno,  la cui figura è diventata il centro focale della mission dell’Istituzione scolastica. Non più un’organizzazione lineare degli apprendimenti, ma la disposizione di un sistema plurimo, diversificato e convergente con nuovi obiettivi e nuove regole, un sistema più inclusivo e capace di essere intenzionale e sistematico, come si conviene ad un istituzione cui è affidato un compito importantissimo: la formazione dei soggetti in età evolutiva. L’UE ha contribuito, in maniera sostanziale, a promuovere i cambiamenti sollecitando nel 2013 la realizzazione di un sistema di formazione in grado di contribuire ad una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva partendo dalla considerazione che i giovani sono un capitale umano di inestimabile valore che deve essere adeguatamente formato e orientato durante il lungo percorso di sviluppo all’interno dei diversi sistemi di formazione, non solo per debellare l’increscioso fenomeno dell’abbandono scolastico, ma anche per formare cittadini consapevoli, dotati di competenze spendibili nel mondo del lavoro, competenze che siano la giusta sintesi di apprendimenti formali, informali e non formali perché è ormai chiaro che la scuola non ha più l’esclusiva quando si parla di apprendimenti. La centralità della persona su cui l’UE insiste e su cui fonda il progetto di valorizzazione delle risorse umane, è stata recepita anche dal nostro legislatore che già nel 2003 con la legge 53 ha introdotto il concetto di personalizzazione come condizione essenziale per garantire il successo formativo di ogni singolo studente, nella consapevolezza che non si può più pensare di insegnare ex cathedra investiti di un’autorità al limite dell’inviolabile, ma l’insegnante diventa un professionista dell’istruzione che, attraverso un lavoro di aggiornamento, studio e ricerca , conosce le necessità dei suoi studenti, le accoglie, le elabora e ne fa il punto di partenza per un’azione didattica personalizzata e fatta su misura per ognuno. La garanzia del successo formativo, quale mission dell’istituzione scolastica, non può prescindere dall’ inclusività come obiettivo categorico non solo per i disabili, già tutelati dalla legge 104/92, ma per tutti gli alunni che presentino una qualsiasi difficoltà legata alla condizione socio-economica, culturale o linguistica (si pensi agli studenti stranieri di recente immigrazione o ai bambini adottati), come espressamente normato dal DM 27/11/12(BES) in accoglimento delle conclusioni della Convenzione ONU e grazie all’adozione del sistema ICF che estende il concetto di disabilità, per troppo tempo limitato al deficit fisico, al contesto socio culturale e ambientale della persona, inclusività da garantire anche a tutti gli adulti, stranieri o italiani, che chiedano di rientrare nel sistema scolastico per conseguire un titolo di studio, a tutti quegli studenti che risultino eccellenti e che meritano un adeguato riconoscimento e la giusta valorizzazione del loro potenziale. La scuola dell’autonomia, come delineata nel DPR 275/99 e come rafforzata nella legge 107/15, dunque, può progettare un’azione educativa che miri allo sviluppo della persona umana, adeguata ai diversi contesti e alla famiglia, forte di una concreta possibilità di agire secondo le reali necessità dell’utenza e del territorio, favorendo e incentivando la ricerca come elemento cardine per garantire professionalità aggiornate, in grado di stare al passo con gli studi che potenziano e agevolano la professione dei docenti. Il compito ambizioso e fondante della scuola autonoma è formare cittadini competenti e consapevoli, in grado di diventare capitale economico, capaci di portare un contributo personale di qualità che realizzerà un generale passo avanti nel percorso personale e collettivo. L’autonomia didattica, tassello imperativo in questo percorso, trova il suo naturale corollario nell’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo a supporto di una metodologia in divenire, che si alimenta e cerca di fondarsi sullo studio, sull’aggiornamento e sull’approfondimento di quelle scienze, quali la sociologia, la psicologia, l’epistemologia, le scienze dell’organizzazione che ormai sono parte integrante del bagaglio culturale di un docente e di un Ds. La ricerca è la conditio sine qua non per elaborare una metodologia che abbia interiorizzato l’assunto che un apprendimento è proficuo solo se significativo, una metodologia che rispetti, poiché li conosce, i diversi stadi dello sviluppo psicologico dello studente e sia basata su un’attenta ricognizione dei bisogni formativi di ciascuno, delle caratteristiche dell’ambiente e del territorio, una metodologia che punti alla valorizzazione della persona in un’ottica di lifelong learning. La scuola, dunque, perde la rigidità di un sistema il cui compito si limitava a impartire nozioni e che non teneva affatto conto dell’importanza e dell’influenza della famiglia, per diventare un amministrazione servente che crea sinergia con la famiglia ( si pensi al patto di corresponsabilità) che diventa, a buon diritto, coattore del processo di sviluppo del discente. La scuola dell’autonomia, dunque, deve progettare un’azione educativa che miri allo sviluppo della persona umana, raccogliendo le indicazioni che arrivano dall’Europa (si pensi al rapporto E. Cresson) e che puntano ad un’ istruzione che favorisca l’acquisizione di nuove conoscenze, avvicini scuola e impresa(alternanza scuola lavoro), lotti contro l’emarginazione e consenta, attraverso la conoscenza delle lingue comunitarie, di aprirsi ad una dimensione veramente europea. La nuova consapevolezza della scuola circa la necessità di interagire con gli elementi che influenzano lo sviluppo di un soggetto in età evolutiva viene dalla sociologia che indica due diverse forze che concorrono nella formazione di un soggetto: la forza interna, quella cioè innata, e la forza esterna che condiziona in modo prepotente lo sviluppo cognitivo di un soggetto. Il fattore esterno, trascurato e non adeguatamente considerato per molto tempo, è la variabile di cui la scuola deve tenere conto, in quanto influenza, condiziona e orienta un soggetto in età evolutiva. Entrano di diritto tra i fattori del percorso di sviluppo la famiglia, il primo  nucleo educativo e interlocutore prezioso per programmare interventi mirati e personalizzati; la scuola che, in quanto istituzione, deve garantire un’azione consapevole e sistematica; il territorio, che può influenzare il soggetto offrendo o negando alternative che completino l’offerta formativa; l’UE ,di cui l’Italia è parte, che raccomanda di garantire attenzione al singolo per una strategia formativa che risulterà vincente nella misura in cui saprà dotare lo studente di competenze spendibili per l’inserimento nel mondo del lavoro; il mondo virtuale fatto di social e di informazioni che corrono veloci e non sempre adeguatamente selezionate, ma che influenzano le conoscenze e spesso le orientano. E’ chiaro, dunque, che la scuola, parte della società che la sociologia definisce fattore esterno, non può più pensare di essere l’esclusiva depositaria della formazione e tanto meno di agire senza dare il giusto valore agli altri attori della formazione, ma deve , pur conservando la  consapevolezza necessitata dal ruolo istituzionale, considerare queste importanti variabili per interagire con esse e puntare ad una azione che faccia di ogni elemento un fondamentale fattore dell’educazione. La scuola progetta per darsi un’organizzazione funzionale ed efficiente, fondandosi su premesse valide e solide e deve tener conto dei molteplici ed eterogenei fattori sociali che, ad un livello macro, determinano la tipologia di alunni di un determinato istituto, in un determinato territorio( a partire dal quartiere per finire al territorio nazionale, europeo o persino mondiale). In questa ottica è chiaro che, ciascun elemento del dialogo educativo, deve diventare  strategico, dunque risorsa, nel processo di sviluppo dell’alunno: l’apprendimento non passa più solo dalla lezione frontale e tanto meno si esaurisce nei contesti formali e istituzionali, ma si arricchisce, forse in misura addirittura maggiore, in contesti informali o non formali che rappresentano un continuum con l’azione istituzionale della scuola, in una logica di complementarietà e non di sovrapposizione tanto meno di conflitto, ma di arricchimento e completamento. La società, in quanto riconosciuta come risorsa, attraverso convenzioni o accordi negoziali, che hanno lo scopo del servizio quale imperativo categorico per tutti i fattori dell’educazione, coopera con la scuola per realizzare, secondo quanto sollecitato dall’U.E, quelle forme di raccordo tra scuola e lavoro. L’alternanza scuola lavoro, disciplinata nel D.lgs 77/05, fortemente potenziata con la L 107/15,  va esercitata come la declinazione della spendibilità delle competenze e la messa in prova del buon risultato del percorso formativo, essa contribuisce a rendere operative le competenze degli studenti e consente di coniugare teoria e pratica, oltre a realizzare il necessario collegamento della scuola con il mondo del lavoro e a correlare l’offerta formativa allo sviluppo sociale, economico e culturale del territorio. Le istanze europee, accolte dal Legislatore, puntano a valorizzare adeguatamente il fattore umano come risorsa e fondamento di una società che assicuri il benessere di tutti e che cresca in misura direttamente proporzionale in ricchezza. La società, fattore e risorsa del processo educativo, si dispone, dunque, a diventare prodotto in quanto  attraverso la valorizzazione del fattore umano, realizza una strategia vincente che restituisce gli investimenti nell’ambito della formazione  sotto forma di cittadini attivi, competenti, consapevoli e in grado di essere capitale economico, capaci di contribuire al benessere proprio e  della collettività. Oggi la scuola non si pone più come un’autorità infallibile e rigida, ma grazie all’autonomia può calibrare la sua azione organizzativa e didattica sulle esigenze che l’utenza presenta e il territorio definisce, realizzando i percorsi più adatti alle richieste dei suoi studenti e alle risorse del territorio. Personalizzare significa conoscere, la personalizzazione consente di cogliere e valorizzare le diversità, consente di essere inclusivi nella misura in cui si può adattare il percorso scolastico sia per valorizzare le eccellenze che per compensare gli svantaggi, la personalizzazione è la carta vincente per realizzare il diritto soggettivo allo studio di ogni persona in età evolutiva. L’inclusività, dunque, completa la mission della scuola solo se supera il concetto di pietistico inserimento dei disabili nelle classi comuni per diventare integrazione, valorizzazione delle risorse di ciascuno nella diversità. La complessità sociale, i grandi processi migratori che investono il nostro paese devono trovare accoglimento all’interno della scuola chiamata a colmare il gap socio-economico fornendo anche ai giovani immigrati, siano essi protagonisti di un forzoso cambiamento, siano essi adottati, gli strumenti necessari per un inserimento consapevole e da protagonisti non trascurando il dolore, il disagio, la rabbia che spesso caratterizza le loro vite e che fa parte del loro bagaglio personale su cui lavorare, ma anche la tutela di tutti coloro che hanno una qualsiasi difficoltà di apprendimento che non è contemplata nella  legge 104/92 ma che può essere limitante se non adeguatamente presa in carico da tutte le agenzie che concorrono alla formazione.  Ormai la priorità della formazione non è più dare contenuti , ma sostenere il pieno sviluppo formativo dello studente garantendo a tutti, secondo i principi costituzionali che ispirano il nostro sistema scolastico, le stesse opportunità che non significa, tuttavia, operare per tutti allo stesso modo, ma, al contrario, realizzare interventi su misura che consentano a ciascuno di superare i propri limiti e valorizzare i propri punti di forza. Il concetto di uguaglianza e di pari opportunità tiene conto proprio della diversità e di un’azione didattica che non deve livellare o appiattire, ma creare diversità complementari e integrate attraverso il raggiungimento di obiettivi standard che tengano conto non solo di fattori meramente formali, ma che valorizzino anche gli apprendimenti informali e non formali, come sostenuto già nel Libro Bianco del 1997 , per garantire l’auspicata e imperativa crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Il successo formativo, divenuto imperativo per la scuola, passa attraverso la necessaria autonomia che prevede il coinvolgimento di tutti gli attori dello sviluppo formativo del bambino, ognuno con le proprie specifiche responsabilità e il proprio ruolo. La scuola è chiamata, dunque, a recepire e accogliere le istanze che la società complessa presenta e farne il punto di partenza della sua programmazione. La scuola deve imparare ad essere accogliente ed inclusiva, vale a dire deve individuare le situazioni di criticità dei suoi studenti e deve agire in modo intenzionale e sistematico, come le si addice. Il contesto profondamento complesso in cui si muove l’Istituzione scolastica richiede, come appare chiaro, un’attenta progettazione dei percorsi formativi ed una consapevolezza non solo delle norme che tutelano i soggetti in età evolutiva,  ma anche degli studi che ne consentono la necessaria conoscenza e che presuppongono un aggiornamento costante che renda ciascuno responsabile dei risultati da conseguire. La scuola ha metabolizzato l’idea che i cambiamenti sono ineluttabili e che possono essere latori di nuove opportunità. La corretta vision dell’istituzione passa da una lettura psico-socio-pedagogica della realtà contingente, dalla presa in carico della richiesta di formazione del territorio e degli utenti , dall’accoglimento dei bisogni degli studenti e dall’analisi del territorio come risorsa e punto di partenza essenziale. Obbedendo al principio della sussidiarietà quale strategia vincente per dare risposte concrete ai bisogni dei cittadini,  l’iniziativa della regione Lazio è senza dubbio notevole e denota la giusta attenzione ad un fenomeno che la scuola fatica a gestire e che, tra le conseguenze, annovera la dispersione scolastica. I fondi, viste le infinite possibilità che normativamente la scuola autonoma può mettere in campo, andrebbero a sostenere progetti mirati non tanto al recupero di situazioni critiche, quanto alla prevenzione. Individuati i ragazzi più problematici, potrebbe portare, con un’adeguata disponibilità di mezzi, a progettare percorsi di motivazione: il bullo si nutre della noia che talvolta i percorsi didattici ingenerano, della scarsa attenzione che un docente, in classi pollaio, può riservargli o, semplicemente della frustrazione, figlia di una scelta errata o poco consapevole. Gli istituti professionali, purtroppo, sono stati privati della loro stessa forza, i laboratori, che consentono un approccio operativo che permette una maggiore responsabilizzazione e un’operatività che si fa meno frustrante e demotivante per chi, come il bullo, ha un profilo particolarmente insofferente(ci auguriamo che dopo il parere favorevole della Cassazione i quadri orario degli istituti professionali siano rivisti e si ritorni allo status quo ante le linee guida del 2010). Lavorare nel segno della personalizzazione in classi di 30/32 studenti , con almeno due alunni diversamente abili e un numero cospicuo di DSA non agevola l’auspicata didattica personalizzata e neppure la formazione di un clima di collaborazione e di costruzione d relazioni sane e monitorate costantemente dall’insegnante. Eppure, nonostante le tante difficoltà, le scuole autonome, si muovono promuovendo la cultura della legalità e accompagnando i propri studenti nella formazione di una personalità sana e consapevole, verso una cittadinanza attiva e responsabile. Noi docenti degli istituti professionali lavoriamo, certamente, in emergenza a causa della eterogeneità della nostra utenza, ma giochiamo favoriti dalla spendibilità delle nostre discipline professionali che si affiancano alle discipline dell’Area generale di istruzione senza rinunciare mai alla qualità, ma rafforzati da quei percorsi di alternanza scuola lavoro introdotti dalla legge 77/05 e rafforzati enormemente, anche grazie alle continue sollecitazioni provenienti dall’UE, dalla legge 107/15. Il nostro Istituto ha  dovuto fronteggiare episodi di bullismo in più di una occasione, ma al di là dell’episodio che richiede di volta in volta una riflessione e un percorso pensato per il singolo allievo, lavoriamo , ormai da anni, per diffondere la cultura della legalità tra i nostri studenti. Lo scorso anno abbiamo ospitato la dottoressa Rita Borsellino che ha preso per mano i nostri ragazzi e gli ha fatto attraversare, con delicatezza e rispetto, la vita del compianto magistrato, un momento ampiamente preparato in classe con letture, con la visione di contributi filmati e con riflessioni che sono diventate domande consapevoli e mature. Ogni anno organizziamo incontri con l’arma dei Carabinieri per affrontare i temi non solo della legalità nel senso più ampio del termine, ma mirando alla professionalità in fieri dei nostri studenti: gli incontri hanno affrontato temi come la frode e la sofisticazione alimentare, ma anche la responsabilità penale e civile in caso di comportamenti irresponsabili tenuti sotto l’effetto di alcol e droghe, non meno rilevanti gli incontri con la Polizia postale per riflettere sui rischi e sulle conseguenze del cyberbullismo. La nostra indefessa opera di sensibilizzazione tende proprio a creare quella auspicata cultura della legalità che dovrebbe ridurre al minimo episodi di bullismo all’interno e fuori dall’edificio scolastico. Un lavoro importante viene fatto anche sulle relazioni che i docenti tendono a costruire con i ragazzi, fatte di rispetto e di quella necessaria empatia che mira a diventare elemento accogliente e riferimento costante nella vita del minore. Il nostro Istituto Professionale Alberghiero può vantare una tradizione di eccellenza, che si connota da sempre per una efficace sinergia e collaborazione con tutti i soggetti operanti nel settore enogastronomico e turistico del territorio. Senza parlare delle ricchissime iniziative e attività di alternanza scuola-lavoro, che portano spesso i nostri studenti a svolgere tirocini all’estero. Proprio dal 2015/16, in obbedienza al dettato della Legge 107, siamo in grado di affiancare ai tradizionali strumenti di intervento (come lo “Sportello Didattico” e i corsi di recupero da sempre attivi nel nostro Istituto), un Piano di miglioramento molto più articolato, che si avvarrà di un corpo docente aggiuntivo: quello dell’organico di potenziamento relativo alla Fase “C” del Piano Straordinario di assunzioni predisposto dal Governo per il 2015/2016. L’organico “dell’autonomia” era già una novità del DPR 275/99 che non è riuscita a decollare in quanto gli Istituti, tranne forse che per la scuola primaria e secondaria di primo grado, non sono riusciti a creare questi percorsi alternativi o di rinforzo. L’organico previsto dalla L 107/15, consente, invece, concretamente con una dotazione aggiuntiva rispetto alle esigenze strettamente curricolari della scuola, di realizzare percorsi straordinari di supporto alla didattica e di affiancamento dei docenti delle classi più numerose e problematiche, per noi le classi prime, per lavorare sul successo formativo, propedeutico alla soddisfazione personale e all’autostima, oltre che ad un lavoro di motivazione attraverso un intervento su piccoli gruppi di lavoro per riprendere, approfondire, analizzare o semplicemente impostare un metodo di lavoro adeguato ed efficace. Questo team di docenti può e, secondo la nostra esperienza, deve realizzare concretamente l’inclusività, grazie ad un supporto qualificato e professionalmente stimolante per ridurre la disaffezione nei confronti della scuola, per realizzare l’accoglienza e l’ascolto che se pure non potranno risolvere tutti i problemi dei ragazzi e della scuola, contribuiranno a creare un clima di maggiore serenità e rassicurante per i ragazzi che, troppo spesso, non possono contare sul supporto di famiglie che hanno rinunciato alle loro prerogative fondamentali. Il lavoro di rinforzo, dovendo gestire le professionalità che ci sono state assegnate, si rivolgerà soprattutto ad alcune discipline considerate più ostiche dai ragazzi ma su cui il Legislatore e l’UE chiedono di porre maggiore attenzione quali le lingue, italiana e straniera, e matematica. Lavorare sulle discipline per raggiungere i programmati obiettivi trasversali, ridurre la frustrazione mirando al potenziamento della qualità della persona, riscoprendo coi i ragazzi, anche in un percorso orientativo in itinere, quali sono i punti di forza su cui basare la propria azione e quali i punti di debolezza su cui lavorare. Un elemento che ritengo essenziale all’interno della scuola è, senza dubbio, lo sportello di ascolto che, nel nostro istituto è affidato al Dottor Jacopo Paris che, in modo gratuito, presta la sua opera e che i fondi della regione potrebbero consentire di pagare. La ‘dispersione’ nel Lazio risulta, in effetti, sensibilmente migliorata nel corso degli ultimi 15 anni: merito, evidentemente, dell’efficacia delle molte strategie messe in campo dalle Istituzioni scolastiche. Anche qui a parlare sono i numeri: quest’anno si attesta al 24,5%, ben lontana dunque da quel 40,1% che quindici anni fa aveva rappresentato uno dei peggiori risultati tra le regioni italiane: un vero e proprio exploit complessivo, che lascia spazio ad ampi margini di ottimismo. Stanziare soldi è un ottima scelta di investimento, ma serve, dopo aver dato alla scuola l’autonomia funzionale, dotare le scuole dei fondi necessari ad attivare tutti gli interventi possibili e ad hoc per rispondere alle richieste di aiuto dei nostri studenti.La prevenzione consiste nell’insegnare modalità di interazione positiva con i compagni e nell’informare sulle conseguenze disadattive dell’essere bullo, con l’obiettivo fondamentale di ridurne il rischio di incidenza. La prevenzione secondaria si configura come risposta ad alcuni incidenti di bullismo. Può prevedere approcci di tipo punitivo(sospensione, sanzioni disciplinari) o di tipo riparatorio e di mediazione tra le parti. L’approccio terziario consiste nel trattamento e nella riabilitazione di ragazzi implicati nel problema; comporta, quindi, un intervento di monitoraggio dei fenomeni, strutture di counselling, ed interventi terapeutici per le vittime, eventuali denunce e interventi sanzionatori per ragazzi prepotenti. Uno degli approcci più efficaci per ridurre il problema è quello istituzionale che coinvolge la scuola nel suo complesso. Questo perché il fenomeno ha una natura multidimensionale che comprende non solo il gruppo dei pari ma anche la cultura della scuola, la qualità dei rapporti tra scuola e famiglia e, più in  generale, il sistema sociale di riferimento degli alunni. Approccio curricolare: legato alla volontà e all’iniziativa del singolo docente che si ritaglia uno spazio all’interno delle discipline per affrontare il tema e favorire un percorso di progressiva sensibilizzazione sul problema da parte degli alunni. Spesso questo percorso parte da stimoli culturali( film, narrativa, letture..) per favorire una progressiva presa di coscienza. Approcci di potenziamento delle abilità emotive e sociali e della convivenza: in questa tipologia rientrano percorsi di lavoro trasversali delle discipline che possono favorire la capacità dei ragazzi di comunicare in modo più adeguato, di riflettere, attraverso un approccio globale sui fenomeni di prepotenza, di capire il punto di vista di altri problemi all’interno della classe. Il bullismo è un problema di violazione dei diritti umani e per questo “ è responsabilità morale degli adulti assicurare che questo diritto sia rispettato e che per tutti i bambini e per tutti i giovani siano effettivamente promossi un sano sviluppo e l’esercizio della cittadinanza attiva”. Nel 2007 il Legislatore ha ritenuto necessario, alla luce dei fatti di cronaca, emanare le linee guida per attivare una strategia in grado di arrestare il dilagare di un processo di progressiva caduta sia di una cultura del rispetto delle regole sia della consapevolezza che la libertà dei singoli debba trovare un limite nella libertà degli altri, linee guida ancora attuali e punto di riferimento dei professionisti della scuola.

mercoledì 10 giugno 2015

LETTERA DI UNA PERSONA MALATA

Oggi non pubblico nulla di mio, ma devo dare voce ad una persona straordinaria, ad una vera combattente che non si è mai data per vinta, ma che ora sente il bisogno di gridare il suo dolore. Oggi sono la sua voce e il suo urlo di rabbia e delusione: un grido che, per sua scelta, deve essere condiviso e ascoltato.




Lettera di una Persona Malata. 

Non so a chi indirizzare questa mail, ma so che vorrei la leggessero tutti i malati oncologici e tutti gli oncologi che provano a curarli e so anche cosa sto per dire e quali sono i sentimenti che da due anni vivono nel mio cuore. La mia malattia non l’ho ovviamente cercata, è capitata, così come capita di nascere belli o brutti, fortunati o sfortunati. Io ero nata “ sana”. Sempre stata! Poi la mia vita è stata sconvolta da un adenocarcinoma del colon con metastasi al fegato, al peritoneo, al diaframma, all’utero ecc..Intervento effettuato al 5° piano del vostro ospedale Regina Elena( IRE) . Devastante nell’animo e nel fisico, già provato da due interventi nei 4 mesi precedenti. SI!! Devastante nell’animo e nello spirito, perché non esiste solo un corpo da curare ad ogni costo!. Esiste anche lo spirito, anzi, forse è l’unica cosa che resterà di me anche dopo e avrei voluto che fosse stato curato, amato e coccolato serenamente! Invece IO mi sono sentita sola e abbandonata, a combattere contro un destino infelice. Intorno a me ho avuto solo dei camici bianchi, verdi, azzurri o blu che controllavano i progressi fisici, senza mai chiedermi se ero serena, se avevo domande da porre, se bisognavo di una carezza, o di piangere e basta, se volevo conforto o certezze sul futuro…. Anche le bugie fanno bene quando ci si aggrappa disperatamente alla vita. Sono illusorie, lo so, ma regalano momenti fugaci di pace e ottimismo. Intorno a me, per fortuna, oltre a dei camici colorati, ho avuto la mia famiglia, tutti i miei cari, le amiche e l’amore che mi è stato regalato in questi due anni. Loro sono stati la mia forza, il mio sostegno, la mia testarda, estenuante “chemio” umana contro il nemico invincibile. E i medici? Il “mio” oncologo, come diciamo noi poveri “tumorati” di Dio!!! Questi grandi oncologi del Regina Elena sembrano planare a due metri da terra sul dolore dei pazienti. In due anni mai un sorriso, una parola di complicità, una pacca solidale sulla spalla!! Nulla. Mi sono sempre sentita il numero che aspettavo di veder apparire sul display prima di fare la chemio. Ma IO non sono un numero! IO odio la matematica!! IO sono una Mamma, una Figlia, una Moglie, una Sorella, una Zia, una Cognata, una Nipote, una Cugina, un’Amica e un’Insegnante.!! IO sono una Persona, ma anche tutte queste cose insieme . E pensare che uno dei vostri slogans all’ingresso dell’ospedale è.” La persona prima di tutto”. Per voi la persona è solo il corpo disgraziato che gli è capitato. E null’altro! Dopo l’ultima Pet (Gennaio 2015) che evidenziava l’evoluzione del mio cancro, sono stata spedita a casa dal “mio” oncologo, il quale ha detto, che se avevo pazienza di aspettare da lì a poco sarebbe uscito un nuovo farmaco (Stivarga), farmaco che a tutt’oggi, per motivi di sicuro pecuniari, non è ancora dispensato dal Regina Elena. Mi avrebbe contattata lui. Finito. Stop. Neanche una stretta di mano. Dopo due anni di cure e visite bimensili, a casa. Dopodiché il nulla. IO ero già abituata al nulla del vostro umanissimo day hospital A (eccetto le infermiere). Ma quando prendi coscienza che stai per andare, questo nulla ferisce più delle crudeli lesioni al fegato, dei disumani dolorosi noduli addominali, delle metastasi impietose all’intestino. IO mi sento ferita perché tanta freddezza, tanta indifferenza e superficialità vengono dalle persone. E la persona, ancor di più se malata, dovrebbe venire prima di tutto. Essere sopra a tutto. Siete persone anche voi. IO sono solo una Malata. Ma sono Persona ed Essere umano per tanta gente che mi ama proprio per la Persona che sono. 

domenica 9 febbraio 2014

ANALISI DEL TESTO: " IL TRENO HA FISCHIATO" DI LUIGI PIRANDELLO





La novella fu pubblicata per la prima volta il 22 febbraio 1914 sul “Corriere della sera”. Dopo essere stata raccolta nel volume La trappola del 1915, nel 1922 venne inserita nel progetto Novelle per un anno, all’interno del volume IV, intitolato L’uomo solo. La novella racconta l’improvvisa “pazzia” di un impiegato modello, Belluca, che un giorno decide di non sopportare più le angherie e le vessazioni del suo capoufficio e che, per questo, viene portato in manicomio. Sarà proprio il fischio del treno, che dà alla novella il titolo, a spalancargli il mondo dell’immaginazione e della fantasia troppo a lungo soffocato dalla routine e dal grigiore della sua vita modesta: come spesso accade nelle storie pirandelliane, un fatto banale segna la svolta inattesa e inaspettata, scandisce il passaggio dalla “sanità” alla follia vanificando ogni confine netto e premarcato. Attraverso un dettaglio piccolo, “normale” il protagonista si riscopre e giura di non volersi lasciare più. La figura del protagonista richiama quella dei molti impiegati piccolo borghesi di epoca giolittiana, fagocitati da un lavoro meccanico e spersonalizzante e penalizzati da una condizione di miseria, ristrettezze e sofferenza. Belluca e con lui l’impiegato medio, però, non è tanto e solo la rappresentazione della condizione di una precisa classe sociale, quanto la rappresentazione della squallida condizione dell’esistenza umana in generale. Non è Belluca intrappolato in un lavoro ripetitivo, alienante e annullato da una famiglia ingombrante e opprimente, ma l’uomo in generale, l’uomo che ha ingaggiato una lotta impari con l’impossibilità di eguagliare modelli irraggiungibili per tenere il passo di una società che annienta ogni valore e ogni cosa buona. L’esordio della novella, in medias res, disorienta il lettore che fatica a comprendere i fatti e l’accaduto, ma che capisce subito che il caso occorso al “povero Belluca” non era quello che tutti immaginavano, fingendo una ridicola e affatto credibile pietà per quell’uomo al quale, come il misterioso narratore suggerisce, era accaduto un caso naturalissimo. Il cinismo dei colleghi emerge drammatico quando il protagonista comincia ad essere descritto come un uomo mansueto e sottomesso, …metodico e paziente…circoscritto: nessuno avrebbe mai potuto neppure lontanamente immaginare che un uomo così mediocre, così avvezzo a subire dalla vita, dai colleghi, dal capoufficio potesse , un giorno, stancarsi e ribellarsi. Sin dall’esordio del racconto Pirandello propone al lettore il confronto tra due verità diametralmente opposte, eppure assolutamente possibili entrambi: per i medici e i colleghi Belluca è impazzito di punto in bianco, per il narratore allodiegetico  e il protagonista , invece, è solo accaduto un fatto naturalissimo. La verità, dunque, ci appare sin dalle prime battute, relativa, mai chiara e netta. Da una parte si pone il giudizio frettoloso di chi conosce solo una piccolissima parte della quotidiana vita di Belluca, di chi in modo sommario, superficiale e un po’ livido e irriverente ostenta una pietà insulsa e falsa, dall’altra si introduce il tentativo, sia pure relativo e soggettivo , del narratore di comprendere le ragioni profonde che hanno spinto Belluca a spezzare le catene della sua grigia esistenza. La verità deve essere ricercata, investigata, analizzata e deve poggiare su un solido tentativo di analisi e conoscenza, non sulla superficialità del giudizio comodo e privo di un valido fondamento. La colpa di Belluca è solo quella di voler rompere la monotonia, la routine di un’esistenza segnata dall’alienazione familiare e lavorativa per via di un impiego ripetitivo, monotono e spersonalizzante. Attraverso l’uso dell’iperbole, Pirandello ci descrive la famiglia di questo uomo: una moglie cieca, fatto che fa provare al lettore sincera pietà, una suocera e una sorella della suocera anch’esse cieche, due figlie vedove con sette figli da ospitare e mantenere e l’effetto paradossalmente esilarante è ottenuto! Il prototipo del buon padre di famiglia che deve lavorare per mantenere amorevolmente i suoi cari, non fargli mancare nulla viene stravolto da questa sfortunata e assurda famiglia che il povero impiegatuccio fatica a mantenere, dove addirittura trovare un posto per dormire a tarda sera è una sorta di scontro tra titani. Allora il poveraccio, per arrotondare il misero stipendio, si porta a casa altro lavoro da completare, in attesa di cadere tramortito e privo di sensi su uno scalcinato divano che lo accoglie come unica consolazione dopo una giornata di duro e umiliante lavoro. Il motivo sentimentale e commovente del padre che si sacrifica silenzioso e forte per il bene della sua famiglia, viene dissacrato da Pirandello, portato al ridicolo attraverso quel “ sentimento del contrario” che spiega il riso amaro che accompagna le vicende più cupe dell’esistenza di ciascun uomo. L’uomo che Pirandello ci propone non è dominatore e artefice del proprio destino, come ancora certa borghesia ottocentesca si ostina a credere, ma è spesso frantumato, ha perso la certa identità a vantaggio di una miriade infinita di io alla ricerca di se stessi e dell’ unità ,ormai, irrimediabilmente franta e irrecuperabile. La grande industria, l’uso delle macchine che hanno ridotto l’uomo a compiere un lavoro meccanico che nega qualsiasi partecipazione personale e originale e che lo costringe ad un lavoro solitario e ripetitivo, la burocrazia che annulla l’identità dell’uomo, ne divora la personalità e lo riduce ad un numero, tanto fondamentale quanto spersonalizzante, le grandi metropoli che hanno di fatto annullato ogni possibilità di contatto umano, allontanando gli uomini gli uni dagli altri e costringendoli ad una solitudine esistenziale senza precedenti: Belluca è vittima di tutti questi straordinari cambiamenti. L’uomo oramai è in trappola: la vita è una condizione carceraria da cui l’uomo tenta di evadere, ma finisce con l’essere irrimediabilmente schiacciato e deluso. Ormai è chiaro, al maestro, che l’uomo è vittima delle convenzioni sociali, costretto a trovare il suo ruolo in questa grande “pupazzata” che è la vita, costretto a morire mentre è ancora in vita senza riuscire ad opporsi ad un destino ineluttabile. Il dolore dell’uomo pirandelliano è il dolore di chi rifiuta i meccanismi sociali, i ruoli che la società impone e che cerca disperatamente l’autenticità, la spontaneità, le tracce della propria personale  e straordinaria esistenza. Una società che Pirandello demistifica, che rifiuta ma in cui l’uomo è costretto a vivere per esistere, per essere certo di esserci, per essere considerato essere umano. Ma la trappola più terribile è la. famiglia: Pirandello coglie il senso devastante di questa sacra istituzione, analizzandola cinicamente e con disincanto. La famiglia vanifica ogni tentativo di indipendenza dell’uomo, lo riduce a piccolo ingranaggio con una serie di movimenti già scritti, con un copione che non lascia spazio all’improvvisazione, soffoca l’aspirazione dell’uomo ad affermare la propria libertà, lo vincola in un meccanismo di odio, tensione sociale, ipocrisia, menzogna e lo snatura. Accanto alla famiglia l’altra trappola è rappresentata dalla posizione economica e dal lavoro :il bisogno, tutto sociale, di avere un lavoro che consenta di mantenere dignitosamente la famiglia, un lavoro, per la maggior parte degli uomini impiegatizio, fatto di gesti ossessivamente ripetitivi che non richiedono grandi capacità o straordinarie qualità, ma solo un meccanicistico ripetersi lento, metodico e frustrante di gesti sempre uguali. Che cosa rimane allora, all’uomo? Nulla. Pirandello attacca e demolisce la società e le sue regole ferree e limitanti, ma non riesce a trovare una via d’uscita: la vita è una condanna al dolore senza appello e senza possibilità di riscatto. Eppure Belluca, ad un certo punto trova un modo per riprendersi la sua dimensione di essere umano: il fischio del treno gli ricorda che fuori c’è la vita, che fuori c’è un mondo che si muove, che respira, che forse non tutti sono così maledettamente infelici e soli, che si può viaggiare lasciando alla mente la libertà di vagare, la vita, attraverso il fischio del treno, rientra prepotente nell’esistenza dell’uomo Belluca e, in opposizione agli spazi angusti che hanno finora accompagnato la descrizione delle vicende di questo impiegato, gli spalanca spazi aperti, sterminati e percorribili senza paure o senza perdere di vista il ruolo che la società gli ha assegnato. La vita che rientra, gli provoca un trauma terribile: da uno stato catatonico ad uno stato di frenesia, di delirio da riscoperta della vita tanto che non gli riesce di controllare le sue reazioni, certo, ha esagerato un po’, ma ora sa che quando vorrà, potrà chiudere gli occhi e respirare a pieni polmoni la vita, viaggiando e  immaginando distese azzurre e città e luoghi sconosciuti. Ma Belluca, a differenza di altri eroi pirandelliani, non sceglie di evadere definitivamente, non si ribella e basta, anzi ritorna alle sue responsabilità con un senso nuovo di ritrovata libertà, l’evasione sarà momentanea, egli torna, mansueto e circoscritto, a rivestire i panni del buon padre di famiglia che responsabilmente la mantiene  e svolge il ruolo assegnatogli dalla società, ma si lascerà qualche momento di fuga per consolarsi di una vita ingiusta e senza soddisfazioni. La novella rivela l’uso sapiente dell’arte umoristica di Pirandello che, in una saggio, egli stesso cerca di spiegare in contrasto con la comicità:  la riflessione serve a passare dall’ ”avvertimento del contrario” proprio del comico, al “sentimento del contrario” proprio dell’umoristico.  Solo la riflessione restituisce alle situazioni il giusto valore e aiuta a comprendere i meccanismi profondi che determinano l’esistenza, i sentimenti, i pensieri e la vita stessa, una riflessione che poggia proprio quasi esclusivamente sull’analisi  della disarmonia, della contraddizione, del grottesco, del ridicolo, dell’esagerazione in opposizione alla consolidata prassi letteraria che tende sempre a comporre i dissensi e a ridurli a forma ordinata e, per molti versi, assai più rassicurante. La struttura della novella predilige l’intreccio, tempo della storia e del racconto, dunque, non coincidono e risultano impreziositi da analessi e dettagli della vita del protagonista che il suo vicino di casa vuole rendere noti al lettore per consentirgli di comprendere umanamente il caso di Belluca. Il quadretto che Pirandello ci fornisce del dialogo irreale del capoufficio e di Belluca che incalzato continua a ripetere che “ Il treno ha fischiato” è esilarante: l’ira del capoufficio si scontra con la ritrovata felicità di Belluca e non regge all’urto! L’uomo si infuria, non riconosce il mulo che era solito picchiare, offendere e maltrattare, addirittura l’uomo alza la voce e si ribella, lasciando il capo esterrefatto. A differenza dei colleghi di Belluca, l'io narrante, l'unico in grado di dare un senso alle cose, riesce a "riattaccare" quell'orribile coda al legittimo proprietario. Paradossalmente la scoperta del mostro (l'intera verità) non spaventa il narratore, tutt'altro. E' l'ignoranza la vera nemica, e non la conoscenza della realtà, per quanto cruda essa possa essere (come la "prigione" di Belluca): da "mostruosa", la coda diviene "naturalissima", "qual  dev'essere". Il risultato magistrale di ogni singolo scritto di Pirandello sta tutto in quella lucida, disincantata, a volte crudele analisi della società e dei meccanismi che la determinano e l’incapacità, tipica dell’uomo, di inserirsi in un sistema prevaricante e che non ammette debolezze, ripensamenti o, semplicemente, voci fuori dal coro.






venerdì 27 dicembre 2013

ANALISI DEL TESTO: " IL GELSOMINO NOTTURNO" DI GIOVANNI PASCOLI



Il gelsomino notturno

E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolìo di stelle.
Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento...
E` l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.


“Il gelsomino notturno”, incluso nell’edizione dei Canti di Castelvecchio del 1903, rappresenta uno dei più significativi e complessi risultati del simbolismo pascoliano. In questa seconda raccolta poetica se da un lato sono ripresi il motivo naturalistico e famigliare, già ampiamente sviluppati in Myricae , dall’altro, si evidenzia il tentativo della ricerca di una liricità più distesa. Nella prefazione i Canti di Castelvecchio sono definiti dallo stesso autore “myricae” (citazione ripresa dalla IV ecloga virgiliana, ma in opposizione ad essa: se il poeta latino voleva innalzare il tono della sua poesia in quanto “…non omnes arbusta iuvant, humilesque myricae”, Pascoli considera le umili piante come il simbolo delle piccole cose, oggetto della sua lirica) quasi a stabilire una continuità di fondo tra le due raccolte. Forse il venir meno di un certo frammentismo e il recupero, a partire dal titolo, dei “Canti” leopardiani, in particolare con la ripresa del motivo della ricordanza e del rapporto uomo-natura, costituiscono, insieme alla ricerca di una musicalità più complessa e al tentativo di audaci sperimentazioni metriche, i tratti distintivi della raccolta. Questa poesia fu composta in occasione delle nozze di un intimo amico di Pascoli, dato senza il quale i versi sembrerebbero una serie di notazioni impressionistiche, ispirate ad una situazione notturna e senza alcun legame tra loro. Si tratta, come alcuni critici hanno evidenziato, di un moderno epitalamio, in cui la narrazione dei piccoli eventi naturali che si susseguono dal crepuscolo fino all’alba, allude, simbolicamente e con estrema delicatezza, ma anche in maniera turbata e inquieta, alla prima notte di nozze dei due giovani sposi e al concepimento del loro primogenito cui verranno imposti i nomi di Dante Gabriele Giovanni. Al di là dell’occasione, l’importanza del testo e il suo valore semantico risiedono in un’alternanza di detto e non detto, in un continuo e sinestesico rimandarsi di vari elementi tra loro(oggetti, suoni, odori), in un segreto e misterioso legame tra immagini (la casa, il fiore, i morti, il nido) in cui il riferimento a traumi individuali è elemento imprescindibile per la comprensione della poesia. Questa è sorretta da una fitta rete di significati simbolici all’interno della quale si instaura da un lato una corrispondenza fra il ciclo erotico della natura e la notte nunziale, dall’altro un sistema di opposizioni tra le quali emerge, in particolare, quella tra casa nunziale e “nido”, inteso come forma di regressione infantile e consolatoria che segna l’esclusione dalla vita adulta. La narrazione lirica, dietro l’apparente facilità della poesia pascoliana, risulta scandita in tre momenti corrispondenti a distinti blocchi di significato: la rappresentazione notturna con la simbolica apertura del gelsomino (strofe 1-2); il processo di fecondazione, attraverso l’immagine vegetale, allusiva di un altro rito, cioè quello che si svolge nel mondo umano (strofe 3-5); la chiusura, all’alba, dei petali del fiore, segno della compiuta fecondazione(strofa 6). L’incipit (  E s’aprono…) sembra, per la presenza della congiunzione, far riferimento ad una meditazione già avviata dal poeta quando, all’imbrunire, i gelsomini aprono la loro corolla e lui ripensa ai suoi cari defunti di cui le  farfalle crepuscolari rappresentano una simbolica allusione. E’ già qui, tutto presente, per quanto velato da un forte simbolismo, il contrasto vita-morte: di notte, simbolo della morte, i gelsomini aprono la loro corolla, per un processo di fecondazione simbolo della vita, ed il pensiero del poeta va, per analogia e per contrasto, a quello dei suoi familiari scomparsi. La sera, con l’oscurità, porta il silenzio e il riposo ( Da un pezzo si tacquero i gridi…), solo in una casa, rispetto alla quale il poeta è esterno (), qualcuno è ancora sveglio e parla a bassa voce (…bisbiglia…) in un’atmosfera di affettuosa protezione, rappresentata dal nido (Sotto l’ali dormono i nidi…”), rifugio per eccellenza. Quando tutto sembra dormire i gelsomini si aprono emanando un profumo che ricorda quello delle fragole mature mentre, al primo piano della casa (… nella sala…) una luce ancora accesa testimonia che i due giovani sposi sono ancora svegli. Se da un alto, dunque, emerge la corrispondenza tra fecondità naturale e fecondità domestica, dall’altro, la continuazione della vita, rappresentata dalla lampada accesa ( Splende un lume…), si contrappone,  nuovamente, anche se solo per un attimo, ad un’immagine mortuaria, all’interno della quale è possibile, tuttavia, notare un richiamo contrastivo alla vita reso dall’immagine dell’erba che nasce sulle  fosse , cioè sulle tombe. In un primo momento la rappresentazione del mondo notturno si estende, simbolicamente e per analogia, all’ape che, ritorna tardi al suo alveare, luogo fecondo e vitale per eccellenza, non riesce ad entrarvi e, quindi, vi sia aggira intorno col suo ronzio. Successivamente, attraverso un gioco di parole e in un’apparente continuità semantica col mondo animale, il poeta fa riferimento alla costellazione delle Pleiadi comunemente chiamata, nel mondo contadino, “ Chioccetta”. Il fanciullino pascoliano sviluppa, dunque, in un’immagine giocosa, la metafora iniziale: l’aia azzurra è il cielo, mentre le stelle pigolano per analogia con i pulcini ,laddove il pigolio, oltre ad assumere un valore onomatopeico attraverso un rapporto analogico basato su una somiglianza di significante, richiama il luccichio. In questa atmosfera suggestiva e onirica, mentre il profumo inebriante dei gelsomini viene diffuso (…s’esala…) dal vento per tutta la notte, la luce, prima accesa nella sala, si sposta su per la scala al secondo piano, quindi alla camera da letto, dove i due sposi si congiungeranno e genereranno una nuova vita. Il brillare e poi lo spegnersi della luce è seguito dai puntini di sospensione che indicano un’ interruzione intenzionale della frase per cui viene affidato al lettore il compito di completarne il senso in riferimento all’intimità della situazione. La strofa finale, con il sopraggiungere delle prime luci dell’alba allude all’avvenuto concepimento nell’ambito di un ulteriore e non detta corrispondenza tra la fecondazione del fiore e quella della giovane sposa: la chiusura dei petali, un poco gualciti, dentro l’ovario del fiore umido e nascosto e il maturare al suo interno del polline che lo ha fecondato assume, metaforicamente, il valore di una promessa di vita anche per i giovani sposi. Non sfugge, d’altro canto, che proprio nella sua conclusione e in immediata continuità con l’immagine del fiore che invita all’amore, la lirica richiama nuovamente il motivo della morte, per l’ambiguità di senso che reca con sé l’utilizzo della parola  enigmaticamente riferita da un lato alla corolla chiusa in quanto fecondata, dall’altro all’urna cineraria e quindi al suo uso poetico per tomba o sepolcro. Il titolo della lirica anticipa una delle parole chiave della poesia e, nello stesso tempo, prelude ossimoricamente, nella iunctura indeterminata e analogica con l’aggettivo notturno, a quel filo lirico connesso con l’area semantica della morte. Sembra, tuttavia, precaria ogni distinzione di confine tra area semantica positiva e negativa nel senso che le immagini del fiore, dei morti, della casa, del nido si alternano secondo un principio di immediata contiguità per cui il quadro notturno, apparentemente idillico e armonico, nasconde segrete tensioni. Il senso del mistero si esprime sia attraverso una serie di analogie simboliche che attraverso un gioco sonoro con il quale il poeta sembra disperdere nei versi i fonemi che compongono la parola “urna”. A prescindere dal v.3 in cui al termine tecnico viburni relativo al mondo naturale sembra essere assegnata una funzione eminentemente rivelatrice, è possibile schematizzare la scomposizione di “urna” in allitterazioni e consonanze conseguenti: U ( nottUrni, crepUscolari, lUme),R ( apRono, caRi, faRfalle, gRidi, doRmono, odoRe, eRba, taRdiva, nottuRni, vibuRni, sussuRra, azzuRra), N (Nidi, Nasce, Notte, priMo, Nuova), A ( trovAndo). Il fonosimbolismo pascoliano valendosi, dunque, di un linguaggio in cui i suoni sono di per sé carichi di significato conferisce autonomia al significante ed instaura relazioni foniche tra le varie immagini, sovente rappresentate da parole onomatopeiche (bisbiglia, esala, sussurra, pigolio). A livello metrico-ritmico l’impiego del novenario, non molto usato nella nostra tradizione lirica e letteraria e ripreso proprio da Pascoli, conferisce alla poesia un ritmo lento e spezzato determinato da pause e da una fitta interpunzione quasi che l’autore fosse alla ricerca di una musica franta, intima, espressione dolorosa dell’esclusione dell’io lirico dalla possibilità di un rapporto amoroso, esclusione simbolicamente rappresentata dall’ape tardiva che non è riuscita ad entrare nell’alveare, metafora della vita adulta. Il testo risulta diviso in sei strofe costituite da quartine a rima alternata(ABAB) ciascuna delle quali è scomponibile in due novenari dattilici e due trocaici sempre divisi, tra l’altro, dal segno di interpunzione. Si notino, inoltre, gli enjambement il cui uso conferisce un singolare rilievo alle parole divise che, isolate, dilatano il ritmo e creano una particolare atmosfera, e le sinalefi che contribuiscono a determinare quella situazione di immediata contiguità fra le immagini. Rispetto alla lingua della tradizione si rileva, da un alto un atteggiamento di evasione attraverso il preziosismo delle voci tecniche o popolari relative al mondo della natura, dall’altro, sebbene in misura minore, un atteggiamento di ritegno attraverso il ricorso a termini aulici ( crepuscolare, esala, tardiva, gualciti, urna): tuttavia, in entrambi è lo scarto dalla norma a valere da parametro in quanto l’esercizio del privilegio linguistico è espressione di quel privilegio conoscitivo teorizzato nel “ Fanciullino”. Da un punto di vista retorico occorre evidenziare una serie di figure di ordine: la frequente inversione (vv 1-3-5-7-11-12-19-20-21-22) che rovesciando il normale ordine sintattico, sottolinea la valenza semantica dei predicati; il chiasmo presente ai vv 7-8 che, collegando tra loro le ali e le ciglia e i nidi e gli occhi, produce una significativa modulazione musicale e sottolinea, dopo il riferimento alla casa, l’importanza che il luogo chiuso assume nell’immaginario poetico pascoliano che qui, tra l’altro, fa ricorso a figure di significato come la metonimia al v 7 e la sineddoche al v 8; l’anafora( là…là- sotto…sotto- si esala l’odore…si esala l’odore-passa…passa) che ha la funzione di rimarcare, enfaticamente alcune immagini; l’uso, infine, dell’asindeto che, sopprimendo i legami di congiunzione e sostituendoli con i segni di interpunzione, crea delle pause di carattere allusivo all’interno di un susseguirsi di sensazioni visive, olfattive e acustiche il cui movimento è dato dalla contiguità degli accostamenti e da un gioco di dissolvenza. Il  Gelsomino notturno risulta intriso di una serie di figure di significato in cui è predominante l’aspetto simbolico e metaforico ravvisabile nelle ipallagi ai vv 1-4(…fiori notturni…farfalle crepuscolari), nell’antitesi che si instaura tra il silenzio notturno e il bisbiglio degli sposi nella casa; nella metonimia del v 5 che sostituisce il contenuto con il contenente; nella sinestesia che si instaura tra il colore rosso delle fragole e l’odore dei fiori allo stesso modo in cui la visione del luccichio delle stelle si trasforma in un pigolio; infine nell’immagine tutta metaforica dell’ultima strofa che ruota intorno all’uso del termine urna. Ricorre, inoltre, l’antitesi nell’accostamento dentro/fuori, chiuso/aperto, vita/morte: in particolare quest’ultima coppia antitetica ci conduce ala considerazione della funzione inibitrice dei morti nella poesia pascoliana, espressione di un continuo pericolo che mette a repentaglio lo stesso soggetto individuale facendone un escluso ed impedendogli di realizzarsi, al di là del nido, attraverso una vita adulta di relazione.

sabato 2 novembre 2013

Analisi del testo: " Spesso il male di vivere ho incontrato" di Eugenio Montale




“ Spesso il male di vivere ho incontrato” di Eugenio Montale


Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.





Testo emblematico della produzione poetica montaliana la quale riflette, soprattutto nella sua prima fase, la consapevolezza di un mondo dominato dall’incertezza e dalla contraddizione, la lirica Spesso il male di vivere ho incontrato esprime il modo di una tipica condizione di malessere esistenziale. Inclusa nella raccolta “Ossi di seppia”, apparsa nel 1925, il cui titolo allude, quasi in veste di “correlativo oggettivo” d’apertura, all’aridità e all’estraneità del vivere dell’uomo contemporaneo, essa presenta non in forma concettuale o analogica, bensì in maniera emblematica il senso indecifrabile dell’esistenza. Tale operazione letteraria va collocata e intesa all’interno di un più ampio quadro storico-culturale che configura, agli inizi del Novecento, una situazione di crisi, peraltro già avvertita alla fine del secolo precedente, la quale, venuto meno il rapporto diretto con la realtà e la fiducia di stampo positivista, determina l’emergere di nuove e, per certi aspetti, “sovversive” tendenze letterarie. La conseguente sensazione di precarietà e insicurezza, connessa, sul piano culturale, alla “perdita d ’aureola” del poeta o di quello ideologo e mediatore, su quello storico, alla tragica esperienza della Grande Guerra e alla situazione di instabilità che, negli anni successivi alla sua conclusione, agevoleranno l’affermarsi del fascismo prima, del nazismo poi, determinano il momento rivoluzionario delle Avanguardie e la tendenza all’Espressionismo cui seguirà, negli anni Venti, un complessivo ritorno all’ordine, rappresentato in Italia dalla rivista “ La Ronda”. E’ significativo che proprio nel 1925, anno in cui il fascismo si trasforma in regime esca “ Ossi di seppia” di Montale, raccolta ispirata a un ripiegamento esistenziale di tipo post-espressionista. Le soluzioni stilistiche e formali e le scelte tematiche del poeta , in cui alcuni critici hanno rintracciato influenze di Camillo Sbarbaro e di Thomas Eliot (è quest’ultimo ad aver usato l’espressione correlativo oggettivo) , tra i contemporanei, la presenza di Leopardi tra i predecessori, dunque, riconducibili ad un senso di negatività assoluta e ad un “ male di vivere” che diventa una condizione storica ed individuale colta nel suo aspetto misterioso si estende all’intera dimensione dell’esistenza, colta nel suo aspetto misterioso e incomprensibile. Sottoposto a spinte di tendenze poetiche diverse, tra le quali è opportuno ricordare non solo quelle simboliste desunte sia da dalla poesia francese sia da quella italiana(da Pascoli e soprattutto da D’Annunzio) ma anche quella dantesca(sotto l’influenza di Eliot), il libro del 1925 è stato paragonato ad una sorta di “ romanzo di formazione” attraverso il quale l’autore, a partire dallo smemoramento nella natura cui segue il disincanto della maturità, perviene alla coscienza morale quale stoica accettazione della vita su una terra desolata in cui ognuno deve essere chiamato a compiere il proprio dovere al di sopra e al di fuori di ogni compenso. Le tappe di questo itinerario poetico, il cui approdo sembra non smentire l’influenza leopardiana, sono scandite dalle quattro sezioni  di Ossi di seppia che accoglie nella sezione omonima( la seconda) “Spesso il male di vivere ho incontrato”, lirica in cui domina il motivo dello scarto, dell’ osso di seppia, appunto, gettato dal mare sulla terra, escluso dalla natura e dalla felicità. La ripetizione anaforica del titolo al primo verso sembra, infatti, sottolineare questa condizione il cui concetto, il male di vivere, si materializza nell’opzione per un verbo, come “ incontrare”, il quale determina una identificazione diretta dell’oggetto, emblematicamente rappresentato attraverso una presenza reale e fisicamente tangibile: il rivo strozzato, la foglia riarsa, il cavallo stramazzato. Il “male di vivere”, essendo ormai stato posto in crisi il simbolismo, non viene evocato in senso metaforico e analogico, ma concretamente reso tramite il ricorso al correlativo oggettivo. Si conclude così il primo momento della poesia , coincidente da un punto di vista metrico con la prima quartina, cui segue, secondo una struttura binaria, la rappresentazione del “bene”, anch’esso individuato, nella seconda quartina, in immagini simmetricamente collocate rispetto a quelle precedenti: la statua, la nuvola, il falco. In opposizione al male di vivere non vi è per Montale altro bene che l’imperturbabilità( la statua), la distanza(la nuvola), la chiaroveggenza( forse espressa dal falco che vola al di sopra della miseria del mondo): la natura di tale bene è, allora, tutta pessimistica e, comunque, individuabile in un atteggiamento di stoico distacco, come quello proprio della divinità( “ la divina Indifferenza”) la quale, in senso leopardiano, resta passiva e insensibile di fronte alle gioie e ai dolori degli uomini. Gli oggetti sono, dunque, emblemi, moderne allegorie in cui è trascritto in un linguaggio cifrato, il destino dell’uomo e del poeta il cui malessere esistenziale è reso a partire dal livello fonico- timbrico in virtù di uno straordinario gioco di equivalenze sonore e di parallelismi fonici. Le allitterazioni delle liquide /r/l/( si noti anche la triplice assonanza di quest’ultima al v.9), spesso unite ad altra consonante, quasi a renderne più faticosa la pronuncia( per esempio “ rivo” v.2 “cavallo” v.4) oppure precedute dalle vocali /e/a/( come in “era”- “ incartocciarsi” v.3 , “riarsa” v.4); quella della /s/ al v. 7 ( “statua…sonnolenza”); l’assonanza ricorrente /e/o/ che accosta parole semanticamente opposte tra loro( come stramazzato-levato); la reiterazione del suono /f/( “foglia” v.3, “ Indifferenza” v.6, “falco” v.8)in parole tra cui si instaura un rapporto di progressivo allontanamento a livello di significato implicito; l’asprezza spigolosa di certi termini (“strozzato”- “gorgoglia”- “incartocciarsi”) determinano sul piano acustico, un effetto di tormento affannoso, di lentezza mortale, di ineluttabilità nonché il senso di una vita arida e scheletrica. Anche la rima, oltre a produrre echi e rimandi sonori immediatamente fruibili, svolge una funzione espressiva, arricchendo e potenziando, per analogia o opposizione, le parole “compagne di rima”  creando particolari effetti nel caso di rime interne al testo. Per quanto riguarda l’aspetto metrico occorre precisare che, anche in questo caso, è possibile cogliere un’evoluzione che, a partire da un’oscillazione tra le forme aperte e il verso libero, da un lato, e forme chiuse più consuete, conduca ad un recupero in chiave moderna della tradizione, evidenziabile in testi poetici come quello in questione.  Questo, infatti, risulta costituito da due strofe  o quartine di endecasillabi, con l’eccezione dell’ultimo verso, che presenta un metro martelliano o doppio settenario., il primo dei quali è sdrucciolo: tale combinazione, insieme all’alternanza di endecasillabi a maiore e a minore, alla presenza della sinalefe( vv. 1-2-4-6-8) ricorrente ben due volte in fine di strofa, alla simmetria costruttiva delle sue quartine, determinano un ritmo sostenuto e, tuttavia, aspro e discorsivo, segno della ricerca di un rigore e di un equilibrio formale che compensino l’esigenza di un equilibrio interiore, ma il cui raggiungimento, si rivela, inevitabilmente, precario. Anche a livello stilistico-retorico la sensazione percepita è di tale natura: concorre a determinarla un lessico che alterna termini di uso letterario ( come “rivo”, “incartocciarsi”, ”riarsa”, ”prodigio”) ad altri quotidiani e colloquiali(come “strozzato”, “cavallo”, “nuvola”); la presenza della paratassi quale struttura sintattica predominante ed il ricorso frequente all’interpunzione che determina effetti di rottura da un lato, e alla sinalefe che tenta di ristabilire il senso di disgregazione e frammentazione del “ male di vivere” dall’altro. La collocazione, in posizione incipitaria, dell’avverbio “spesso”  sottolinea la negatività di un’esperienza che si suppone reiterata nel tempo, mentre notiamo come le tre immagini di impedimento sono rese, nella prima strofa, facendo ricorso ad un doppio climax: dalla difficoltà di esistere( il “rivo”) alla vita sul punto di finire(la “foglia”) alla morte( il “cavallo”) e dall’esistenza inanimata a quella vegetale a quella animale. A tali immagini si contrappongono, attraverso l’antitesi male/bene, quelle della strofa successiva, anch’esse disposte in modo da determinare un climax, reso da un progressivo innalzamento, in contrasto con la terrestrità bassa dei tre esempi della prima quartina(la rima“ stramazzato…levato” sottolinea l’antitesi spaziale basso/alto). Alla luce di quanto detto risulta, dunque, evidente come la poesia di Montale, in particolare quella degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta si stagli nel variegato panorama letterario e artistico del tempo, restando ricca di cose, di oggetti, di particolari minuti nonché condensandosi in immagini emblematiche di carattere universale o esistenziale.